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mercoledì 29 maggio 2024

CELESTE “Echi di un Futuro Passato”-Commento di Andrea Pintelli

CELESTE

“Echi di un Futuro Passato”

Di Andrea Pintelli

 

La grande soddisfazione di Ciro Perrino per il risultato finale del nuovo album dei suoi Celeste, dal titolo “Echi di un Futuro Passato”, è assai contagiosa. Già disponibile sulla piattaforma Bandcamp, è stato pubblicato il 22 maggio in versione cd e il 12 giugno uscirà in versione vinile.

 

Trattasi di un lavoro oggettivamente sontuoso, pieno di idee ben definite, dal suono fresco e sognante (caratteristica, quest’ultima, comune ad ogni loro lavoro precedente). Fa altresì piacere riceverlo dalle mani di Ciro stesso, il quale ci ha ormai abituati ad un’eccellente qualità delle sue proposte discografiche, che riguardino Celeste o altri suoi progetti. Questo vulcanico musicista-artista, sulle scene da tantissimi anni, ha sempre in serbo novità su novità, e questo può farci capire che la sua benzina pare inesauribile. La sua vena compositiva, sommata a un’inventiva innata, migliora continuamente.  In passato ho scritto parecchio materiale sulle lavorazioni di Perrino, ma ogni volta che esamino l’ultima creazione di turno, mi sento come trasportato in un’altra dimensione. Senza esagerazioni di sorta. Questo “Echi di un Futuro Passato” non fa eccezione. Per cui da un mondo indefinito, magistralmente rappresentato dalla copertina del disco, ad opera di Mauro Degrassi, insieme al pregevole lavoro grafico svolto da Massimo Mazzeo, vi porgo “Pigmenti”, prima traccia di questo profondo itinerario sonoro. Spiazzato dai tratti jazzistici d’inizio tragitto, si può evincere quanta volontà di evoluzione ci sia in questo gruppo. L’imprinting è sempre una fantasticheria d’altrove, ma posta sotto un profilo differente: risultare così sofisticati ed eleganti allo stesso tempo non è da tutti. “Sottili Armonie”, introdotta da un pianoforte solitario e attraente, ha proporzione ed equilibrio quand’anche gli altri strumenti si uniscono ad esso per formare una squadra coesa e affiatata. Idea sviluppata grazie a un’ottima intesa tra i vari musicisti, fa sì che l’ascoltatore sia immerso in uno spazio gaudio e sereno. Gli oltre dieci minuti di questo pezzo non esistono, c’è solo da lasciarsi andare. Impagabile. “Aspetti Astratti” è musica liquida, ci si fa toccare da essa, come fosse un insieme di carezze rese concrete dalla composizione e unione degli attimi. Magistrale è la sensazione di benessere che ne risulta. Oltre la soavità, sostenuta dalla sicura e mai invadente sezione ritmica e, soprattutto, con un sax da urlo. “Attese Sottese” e cambia lo scenario: si pensi ad un autunno anticipato, dove i profumi dominano e le visioni sono rese soffuse da un mix di nebbia e pioggia leggera.

 

I Celeste rendono in musica queste (e tantissime) altre sensazioni, come fossero dei pittori oltre i tempi. Dosano in maniera misurata, moderata, compiuta; non sono mai sopra le righe e non si pongono sopra il fruitore, ma, anzi, lo accompagnano verso la beltà. Insomma, c’è chi può e chi non può: loro possono. “Misteri Evoluti” ha chitarra e tastiere che si guardano, si riconoscono, e infine si uniscono per parlare insieme. Via via entrano basso, batteria, poi sax a tracciarne la melodia e flauto ad abbellirne i colori. Chiaramente siamo ben oltre il prog, gli stili e le influenze sono tangibili e utilissime alla causa finale: probabilmente il miglior disco dei Celeste dai tempi di “Principe di un Giorno”. “Madrigale” è strutturata per lasciare senza fiato, tant’è affascinante e sublime. L’armonia corre verso l’infinito, ancor più esaltata dalla notevole voce femminile. Nel mentre, un’onda di commozione fa evaporare le sue lacrime per restare nuda davanti al proprio dolce sentire. Questa canzone disintossica, dona beneficio, rafforza l’anima: cosa si può volere di più dalla Musica? “Circonvoluzioni”, ultima traccia di questo etereo album, chiude il cerchio riagganciandosi (in parte) stilisticamente a “Pigmenti”, migliorandone le sfumature. Non serve, a volte, parlare per raccontarsi, come, a volte, non serve spiegare per rendersi noti: se si prende l’arte senza dargli nomi e confini, si arriva talmente lontano che è inutile sforzarsi per capire, siccome la verità e l’avvenenza sono già lì ad attenderci. “Echi di un Futuro Passato” è tutto questo e molto di più. Non ha genere: è solo ricchezza.


Celeste:

Ciro Perrino: Mellotron, Solina, Eminent, Hammond, Mini Moog, ARP 2600, Voce solista

Francesco Bertone: Basso e Fretless

Enzo Cioffi: Batteria

Marco Moro: Flauto, Flauto in Sol e Flauto Basso, Sassofono Contralto, Tenore e Baritono, Flauti a Becco

Mauro Vero: Chitarre Acustiche ed Elettriche 

Ospiti:

Marco Canepa: Pianoforte

Sergio Caputo: Violino

Paolo Maffi: Sassofono Soprano, Contralto e Tenore

Ines Aliprandi: Voce solista

 

Tutte le musiche e le liriche sono state composte da Ciro Perrino.

Idea di copertina di Mauro Degrassi.

Grafiche curate e ideate da Massimo Mazzeo.

Le registrazioni sono avvenute fra gennaio e febbraio del 2024 nello Studio Mazzi di Borghetto S. Spirito e sono state curate da Alessandro Mazzitelli e sono proseguite dal marzo ad aprile 2024 negli Studi Rosenhouse di Vallecrosia e sono state curate da Alessio ed Andy Senis.

I missaggi sono opera del Sound Designer Marco Canepa.

Il Mastering è stato effettuato da Marco Canepa.

  

PIGMENTI

Petali aromatici

Dissonanti aspetti anonimi

Di pari astralità e le 

Spezie amaranto e ingenuità

Medicine antiche

Fragili bambù

Melograni in fior e le

Fantasiose peonie

Scivolose salmodie (rarità)

 

CIRCONVOLUZIONI 

Anime senza pace

Asensualità

Sopite miniature

Fragili metà 

Resine cangianti

False algidità

Archi sotto il Cielo

Alte lievità

  

CD 

1 PIGMENTI 8:46 

2 SOTTILI ARMONIE 10:54 

3 ASPETTI ASTRATTI 7:38 

4 ATTESE SOTTESE 10:35 

5 MISTERI EVOLUTI 7:33 

6 MADRIGALE 10:36 

7 CIRCONVOLUZIONI 7:57

  

VINILE 

SIDE A 

1 PIGMENTI 8:46 

2 ASPETTI ASTRATTI 7:38 

3 CIRCONVOLUZIONI 7:57 

SIDE B 

1 ATTESE SOTTESE 10:35 

2 SOTTILI ARMONIE 10:54





martedì 21 maggio 2024

Cristiano Varisco: “Aline”, commento di Alberto Sgarlato

 


Cristiano Varisco: “Aline”

 (2013, ristampa 2024) 

di Alberto Sgarlato

 

Compie dieci anni “Aline”, l’album di debutto dell’artista brasiliano Cristiano Varisco. E la casa discografica OOB Records celebra questa importante ricorrenza ristampando l’opera.

Chi conosce a fondo due celebri album tra quelli ritenuti più importanti nella nutrita discografia di Todd Rundgren, cioè “Todd” e “A Wizard, a true star”, troverà nell’approccio alla musica di Varisco delle “affinità elettive”.

Un concetto per nulla facile da spiegare, perché i due artisti non si assomigliano affatto. Ma la similitudine nell’approccio sta sia nel fatto di non essere, ambedue, ascrivibili a un genere preciso, ma di spaziare tra stili e correnti, sia nel concepire un disco quasi come un “blocco di appunti”: nel magma rundgreniano la ballad romantica, l’elettronica, il soul, il blues, il funk si stemperavano tra loro in un qualcosa che finiva quasi con il diventare un brano unico, che percorreva tutto il disco.

Varisco sceglie invece la soluzione dello sfumato (molto di moda negli anni ‘70 e ‘80, ma che non ci saremmo aspettati nel 2013) per “troncare” delle composizioni che, di fatto, non hanno un inizio e una fine ma, esattamente, “arrivano” e, allo stesso modo, sfumando, scivolando via, “se ne vanno”.

E, sempre come nell’opera (e nella filosofia) rundgreniana, anche nel caso di Varisco si tratta, più che di composizioni realmente strutturate, di “sketch” di varia lunghezza che danno comunque sempre l’idea della creatività e della versatilità espressiva del chitarrista brasiliano.

La malinconia acustica e intimista di “Solitude”, le geometrie math-rock di “Tempo”, il blues di “Pedal da Cidade”, il funk veramente carico di groove di “Saìda da Emergencia”, la psichedelia di “Lago dos Azaferes”, uno dei brani più cangianti, tra momenti rarefatti, crescendo progressiveggianti e solismi floydiani, il prog-folk di “Tarde quente de inverno”, la kosmitsche musik di “Canto do urutau”, con i suoi oscillatori sibilanti, il country-rock di “Do cosmos au Mexico”, che profuma persino di certe ballad AOR anni ‘80, ma con inaspettata accelerazione finale, sono soltanto alcuni esempi. E poi ancora “Lagrima”, perfetta come colonna sonora, il ritorno a momenti più rarefatti ed eterei con “Ayahuasca”, le suggestioni world-music di “Venus”, momenti di latin-rock debitori di Santana in “Mares & Dunas”, gli inaspettati riff hard di “Rosa Cromatica”, brano nel quale anche il basso ricopre un ruolo di primissimo piano, in un turbinio latin-metal-funk-prog. E ci si avvicina alla fine con la sognante e spiazzante “Espiral Lunar”, la brevissima title-track nella quale, del tutto inaspettatamente, è invece il piano a dare il via alle danze, tra interscambi di chitarra e violino, fino alla conclusiva “The Ultrajeto”, ancora ricca di groove tra funk e fusion.

L’album è quasi totalmente strumentale, pochissimi interventi corali senza testo, o brevi vocalizzi, o stralci di recitati sono ridotti ai minimi termini e fanno capolino qui e là nella musica.

Un disco ricco di atmosfere affascinanti, suonato benissimo, concepito in modo eclettico, che potrà sorprendervi, spiazzarvi, disorientarvi ma che di certo non vi lascerà indifferenti.




Wazza ricorda Big Francesco, come ogni 21 del mese

21 maggio

Ci sarai sempre

Buon viaggio

Wazza




 

lunedì 20 maggio 2024

Joe Cocker: Antonio Cocco racconta un suo incontro

Nasceva il 20 maggio del 1944 a Sheffield (Inghilterra), Joe Cocker.


Per ricordarlo utilizzo un aneddoto vissuto in prima persona da Antonio Cocco, che nel 1972 era responsabile dell’etichetta Polydor, e in quel ruolo ebbe la possibilità di vivere un momento particolare che racconta così…

Ero a Londra e un venerdì tardo pomeriggio, per ricambiare la sua visita a Milano, andai nell’ufficio del direttore di una etichetta discografica che aveva come artista Joe Cocker. Parlavamo tranquillamente del più e del meno quando entrò senza preavviso proprio Joe.
Senza nemmeno salutare si rivolse al direttore e mostrando un assegno gli disse che aveva disperatamente bisogno di cambiarlo.
Il mio amico guardò l’assegno, lesse la cifra e lo guardò stupito.
Gli disse che non aveva quella somma in cassa e che bisognava rivolgersi alla banca, ma che essendo tardi, le banche erano chiuse al pubblico.

I desperately need this money now! So do all you can but I NEED IT!” (Ho disperatamente  bisogno di quel danaro fai tutto quello puoi ma ne ho bisogno!)
Il mio amico mi guardò e capii che doveva trattarsi di una soma non indifferente.
Provò a chiamare una banca, poi un'altra e un’altra ancora senza esito!
Allora chiamò dei suoi amici, ma niente. Ogni volta che chiudeva il telefono e diceva che non aveva risolto Joe ripeteva il mantra: “I NEED THIS MONEY!”.
Per farla breve, dopo innumerevoli tentavi e continue spiegazioni, gli disse che non poteva proprio far nulla!

Joe credo abbia “saraccato” nel suo dialetto e ripetuto che di quella somma aveva assoluto bisogno; alla fine si calmò e gli chiese: "… Insomma quanti soldi cash hai con te?”. Il mio amico gli spiegò che non portava mai troppi contanti perché usava carte di credito, ma Joe lo interruppe dicendo che non voleva sapere delle sue carte, ma quanto cash aveva!
Il mio amico aprì il portafogli e gli mostrò 10 sterline, lui le prese, ci salutò e siccome stavamo uscendo anche noi si unì! Poi ci salutò ancora e finalmente mi disse: “ Is there any chance to come over Italy?”.Ma certo”, gli dissi, e sarebbe stato per me un enorme piacere!
Un paio di anni dopo ci siamo rivisti proprio a Milano Hotel Principe e Savoia.
Press Conference.




sabato 18 maggio 2024

The Diogenes - Qui Pourrait Craindre Le Bien?-Commento di Luca Paoli

 


The Diogenes - Qui Pourrait Craindre Le Bien? (Luminol Records, 2024)

Di Luca Paoli


Mi succede, ultimamente, di ricevere richieste d’ascolto di dischi che non rientrano nel mio orticello confortante e, devo dire che, dopo aver vinto una certa pigrizia e dopo averlo “assorbiti” mi hanno colpito favorevolmente.

A volte basta poco… bisogna liberarsi da certi preconcetti e buttarsi nelle nuove (per me) avventure soniche.

Questo è successo con “Qui Pourrait Craindre Le Bien?”, album punk, grunge della band francese The Diogenes uscito da pochi giorni per la sempre attenta etichetta Luminol Records.

La rock band è formata da Mathieu Torres alle chitarre, alla voce ed autore dei testi, da Lionel Hazan al basso, Heiva Arnal alla batteria, Clément Chevalier alla chitarra, Stéphanie Artaud alla voce e alla direzione artistica ed infine citiamo anche Hugo Lemercier che si è occupato della registrazione, del mixing e del mastering.

Si può leggere dal comunicato stampa che non sono solo una rock band; nonostante gli abiti bianchi che evocano un'immagine di borghesia soddisfatta del proprio status, è un veicolo per l'attivismo anticapitalista. Il gruppo cerca spazi per esprimere una critica militante e diffondere un messaggio anticapitalista anche in contesti più convenzionali, talvolta 'hackando' grandi festival. Le tracce dell'album " Qui Pourrait Craindre Le Bien?  promuovono la decrescita, mettendo in evidenza alternative sociali e solidali, e cercano di irrompere in ambienti di ascolto solitamente conformi e 'sterilizzati' dagli standard industriali. Il loro approccio etico e rigoroso richiama alla mente quello del compianto Steve Albini. "Se sconvolgiamo troppo la borghesia, non capirà mai nulla", dichiarano i Diogenes, quindi giocano sull'umorismo e sulla derisione.

Dal punto di vista musicale la proposta vede non solo il rock muscolare ma anche momenti di indubbia raffinatezza musicale e stilista evidenziando il valore compositivo e strumentale dei Nostri.

Gli undici brani (scritti negli ultimi due decenni) che compongono la scaletta del disco sono, sì, un pugno nello stomaco, ma fanno riflettere l’ascoltatore e, come scritto sopra, sanno anche suonare raffinati.

Il punk storico che viene attraversato da umori grunge degli anni ‘90s e da una certa psichedelia è certo una proposta molto interessante, resa attuale dai suoni di oggi, anche per i palati più fini che magari, come me, non sono proprio dei cultori del genere.

Se devo scegliere dei brani dalla scaletta da proporvi partirei proprio dalla traccia iniziale, “The Pillow”, che evidenzia un gran lavoro di basso ed i grandi riff delle chitarre che portano il punk verso territori più rock nel senso classico del termine e che racconta dell’isolamento dell’ uomo e dei suoi disturbi mentali.

"Religion Cathodique" è un brano punk puro, eseguito con maestria tecnica, che esplora e critica il discorso prevalente veicolato dai mass media. Questi ultimi sono visti come artefici della propaganda e dei dogmi di pensiero delle nostre società moderne.

Poi non posso non citare “Pink Song”, brano dall’andamento più complesso per i suoi cambi di tempo ed umori ed ottimamente interpretata dalla voce di Mathieu Torres … anche in questo brano si può apprezzare l’ottimo lavoro della sezione ritmica e delle chitarre sempre protagoniste sia quando graffiano che quando accarezzano.

The Hole” è un altro grande brano che racconta dei veleni della quotidianità e che mostra anche il lato pop della band nonostante non rinuncia a mo0strare i muscoli quando serve.

Infine, vorrei citare “Beyond Myself”, brano dal ritmo contagioso che parla del dominio dei mass media e che, musicalmente, presenta un momento di pura raffinatezza con uno stupendo solo di chitarra.

Ho citato solo quei brani che più mi hanno colpito ma vi assicuro che tutto il lavoro è estremamente interessante ed ottimamente interpretato e presenta inserti strumentali di sicuro pregio.

I testi poi sono sarcastici, ironici e evidenziano e denunciano il periodo negativo che l’umanità sta vivendo e lo fanno con un sound si granito ma anche con un certo gusto raffinato che nel punk e nel grunge non spesso capita di ascoltare.


TRACK LIST

01- Pillow

02 - Gluttony

03 - Religion Cathodique

04 - Tiny Lighted Window

05 - The Lord

06 - Néo-libéralise moi

07 - The Hole

08 - Beyond myself

09 - Pink Song

10 - Touche ma bite

11 - Sacrifice à Dieu






Battiato prima del "Cinghiale Bianco"

Franco Battiato a Milano canta in osteria, primi anni Sessanta

Un ricordo del grande Franco Battiato relativo ai suoi inizi, quando spesso veniva contestato per la sua musica “d’avanguardia”.

RIP

Wazza




Bellissima foto datata 13 marzo 1974



Nel novembre del 1973 Franco Battiato intraprese un tour in Europa, esibendosi all'Olympia di Parigi, a Bordeaux, a Barcellona, a Madrid e a Bilbao.

L'anno successivo, dopo la pubblicazione il giorno venerdì 14 febbraio 1975 in tutta Europa dell'album Clic! dedicato a Karlheinz Stockhausen, edito dalla Island Records, Battiato doveva partire per una nuova mini tournèe europea insieme a Stomu Yamashta ed al gruppo francese Magma.

Fonti non accertate narrano che questo tour non fu mai effettuato (o venne fatto solo in una minima parte) a causa di un grave incidente stradale dove anche Battiato venne coinvolto: Franco Battiato ed i Magma suonarono realmente insieme dal 13 al 23 febbraio ma poi a causa di questo incidente non furono fatte altre date.

Questa fotografia scattata a Milano risale proprio a quel periodo e vede insieme Franco Battiato, Stomu Yamashta e l'ex discografico Luigi Mantovani.

Franco Battiato, Stomu Yamashta e l'ex discografico Luigi Mantovani



TELAIO MAGNETICO, magic trio 
(Lino Capra Vaccina, Juri Camisasca, Franco Battiato)






mercoledì 15 maggio 2024

YES – THE CLASSIC TALES OF YES TOUR 2024 - PADOVA – GRAN TEATRO GEOX – 8 MAGGIO 2024-Il commento di Evandro Piantelli

 


YES – THE CLASSIC TALES OF YES TOUR 2024

PADOVA – GRAN TEATRO GEOX – 8 MAGGIO 2024

Di Evandro Piantelli

 

Dopo diversi rinvii dovuti alla pandemia e, sembra, ad altri problemi organizzativi, finalmente questo concerto, inizialmente previsto per il 2020, si è potuto tenere regolarmente. Ed io, per una serie di motivi che vi spiegherò più avanti, mi sono lasciato tentare ed ho preso il biglietto. Naturalmente vi racconterò nei dettagli quello che ho visto e ho sentito. Ma prima, bisogna fare un salto indietro nel tempo. Anzi, due.


NICE, Palais des expositions – 20.07.1984

Il mio primo concerto degli Yes ha coinciso col tour promozionale del disco “90125”, un lavoro rivoluzionario, che ha sorpreso i vecchi fan e ne ha regalati al gruppo molti nuovi. Nel corso della serata la band (Jon Anderson – voce, Trevor Rabin – chitarre, Tony Kaye – tastiere, Chris Squire – basso e Alan White - batteria) aveva eseguito quasi interamente il nuovo disco (con l’hit Owner of a lonely heart), oltre ad alcuni classici quali Yours is no disgrace, Long distance runaround, And you and I, I’ve seen all good people, Roundabout ed una versione “interstellare” di  Starship trooper, con le luci ed i laser che trasformavano il palco in una nave spaziale che decollava verso l’infinito (ed oltre). Un concerto indimenticabile, che per anni è stato il mio preferito fra le centinaia a cui ho assistito.

 

VADO LIGURE, Stadio Chittolina – 12.07.2003

Con mia grande sorpresa, in una calda serata di luglio di oltre 20 anni fa, gli Yes hanno tenuto un concerto allo stadio comunale di Vado Ligure che, per chi non lo conoscesse, è un piccolo comune vicino a Savona, a pochi chilometri da dove vivo. La band aveva da poco pubblicato “Magnification”, un disco di prog sinfonico, ma la cosa più interessante era che si presentava sul palco con una delle lineup più amate della sua lunga storia, cioè quella di “Tales from topographic oceans” e “Going for the one”, con Steve Hove – chitarre, Rick Wakeman – tastiere, Chris Squire – basso, Alan White – batteria e Jon Anderson alla (sempre splendida) voce. Concerto che ha visto la band proporre grandi classici quali, tra gli altri, South side of the sky, Wonderous stories e uno dei miei brani preferiti di sempre, Awaken, con un paio di pezzi tratti dal lavoro più recente, cioè Magnification e In the presence of. Inutile dire che, anche questo concerto, rimane tra quelli che ricordo con maggiore affetto.

E veniamo quindi al concerto di Padova ed ai motivi che mi hanno spinto ad andarci.

1.    La formazione. Dopo la scomparsa di Squire (2015) e di White (2022) gli Yes si presentano con una formazione che vede Steve Howe alle chitarre e voce, Geoff Downes alle tastiere (tornato negli Yes dopo averne fatto parte nel 1980 ai tempi di “Drama”), Billy Sherwood al basso (che collabora con la band da molti anni ed ha avuto il difficile compito di sostituire l’immenso Squire), Jon Davison alla voce e chitarra acustica e Jay Schellen alla batteria (che già da qualche anno affiancava ai tamburi Alan White). Vorrei far notare che nessuno degli attuali componenti della band era presente al concerto del 1984 ed il solo Howe era sul palco a Vado Ligure.

2.    Il nuovo disco. Nel 2023 gli Yes hanno pubblicato con l’attuale formazione “Mirror to the sky” un lavoro piacevole e onesto, che si ascolta volentieri e contiene al suo interno alcuni brani di ottima fattura, tra i quali Cut from the stars e All connected. Personalmente il disco mi è piaciuto e lo ritengo uno dei migliori pubblicati da un po’ di tempo a questa parte, almeno dai tempi di “Fly from here” (2011).

3.    La scaletta. Ero molto curioso di scoprire quali pezzi, nello sterminato repertorio della band, sarebbero stati proposti nel corso della serata. Pezzi solo classici o anche pezzi dal nuovo album? E tra i pezzi storici avremmo ascoltato i “soliti noti” oppure ci sarebbe stata qualche sorpresa? Lo scoprirete presto perché adesso (qualcuno dirà: “finalmente!”) inizia il vero racconto della serata. Mettetevi comodi, lo spettacolo va a cominciare.

Il Gran Teatro Geox di Padova ha tutte le caratteristiche che dovrebbe avere uno spazio per concerti: è facilmente raggiungibile, ha un ampio parcheggio, l’acustica è eccellente e le poltrone sono disposte in modo da assicurare un’ottima visibilità anche dalle file posteriori. All’ingresso del teatro ci accoglie una mostra/mercato di disegni numerati ed autografati da Roger Dean, lo straordinario artista che ha realizzato buona parte delle copertine degli Yes (e di molti altri gruppi storici del prog e non solo). Si tratta di lavori bellissimi ma, per il sottoscritto, un po’ cari, perché i prezzi vanno dai 125 euro per un set di quattro disegni poco più grandi di una cartolina ai 1.500 euro per i disegni delle copertine dei dischi più famosi. Comunque, un bel benvenuto per i tanti appassionati accorsi da tutta Italia e dall’estero.

Alle 21.15, puntualmente, si spengono le luci e sale sul palco la band accolta dagli applausi di tutti i presenti. L’inizio del concerto è a dir poco micidiale con una Machine messiah da brividi, dove la chitarra di Howe ed il basso di Sherwood dominano la scena con un botta e risposta che non lascia indifferenti. Segue It will be a good day (da “The ladder” del 1999), un bel pezzo che mette in evidenza le doti vocali di Davison, a cui seguono due super classici: Going for the one e I’ve seen all good people. La band è affiatata e anche Downes e l’ultimo arrivato Schellen paiono ben integrati nel combo. Il gruppo propone poi una versione esclusivamente strumentale di America, un pezzo di Paul Simon che il gruppo aveva pubblicato all’epoca solo in 45 giri. Personalmente la scelta di tagliare la parte cantata non mi ha entusiasmato, ma comunque il pezzo è bello. Seguono la dolce Time and a word e Don’t kill the whale un pezzo che, ricorda Steve Howe, già negli anni ’70 anticipava temi ambientalisti. La prima parte del concerto (a cui seguirà una pausa di una ventina di minuti) si chiude con il capolavoro Turn of the century, un lungo brano tratto da “Going for the one” che, secondo molti tra i presenti, da solo valeva il prezzo del biglietto. Dopo la pausa il concerto è ripreso con South side of the sky (tratto da “Fragile” del 1972), seguita da Cut from the stars, unico trai pezzi eseguiti proveniente da “Mirror to the sky”. Per concludere la seconda parte del concerto gli Yes hanno scelto di proporre un Medley dei quattro brani che compongono “Tales from topographic oceans” e cioè The revealing science of God/The remembering/The ancient/Ritual (nous sommes du soleil). Questa proposta, a mio avviso, ha rappresentato l’unico punto debole della serata, non tanto per l’esecuzione (sempre perfetta) quanto per il modo in cui i pezzi sono stati cuciti insieme, una specie di puzzle sonoro che mi ha lasciato un po’ perplesso. Dopo una breve uscita la band è tornata sul palco per gli immancabili encore, eseguendo una coinvolgente versione di Roundabout e salutando il pubblico con una sempre bellissima Starship trooper (questa volta senza astronave).

Cosa possiamo dire di questo concerto? Bella scelta di brani, esecuzione con pochissime sbavature, band affiatata, performance nel complesso godibile. Certo, qualcuno si chiederà se è giusto che si chiamino Yes o se non sarebbe più corretto The Steve Howe band. È difficile rispondere a questa domanda, ma se ci guardiamo intorno sono molte le band dove è rimasto solo uno dei componenti storici, ma che continuano a fare dischi e concerti con la denominazione originaria (tra quelli che ho visto mi vengono in mente PFM, Uriah Heep e Hawkwind, ma ce ne sono molti altri), per non parlare dei gruppi dove non c’è più nessuno dei membri storici. Ma qui ci sarebbe da aprire un capitolo che va oltre la recensione del concerto.


martedì 14 maggio 2024

Sykofant – “Sykofant”, commento di Alberto Sgarlato

 


Sykofant – “Sykofant” (2024) 

di Alberto Sgarlato


Chi segue le costanti evoluzioni e trasformazioni del rock progressivo sa che da ben oltre due decenni a questa parte a tenere ben saldo in mano lo scettro di una produzione monumentale, eclettica e variegata è la Scandinavia.

Testimonianza palese è il calendario di quest’anno del festival che si svolge a Veruno: su dodici band suddivise sul main stage in tre giorni, delle quali 11 finora annunciate, 5 sono provenienti dalla Penisola Scandinava: nello specifico, dalla Norvegia la proposta eclettica dei Seven Impale, le suggestioni delicate e cameristiche dei Meer e gli attesissimi Wobbler, richiesti a gran voce dai fans da diversi anni; dalla Svezia il folk psichedelico degli Agusa e il power-trio dei Freak Kitchen.

E se vogliamo continuare a usare la kermesse verunese come “termometro” delle moderne tendenze prog-rock, negli anni si sono avvicendati sul palco gruppi più legati al romanticismo sinfonico, come Flower Kings, Moon Safari e TangeKanic (fusione, quest’ultima, di Tangent e Karmakanic), proposte più sperimentali, come Anekdoten e Anglagard, ma anche il prog moderno dei Beardfish, l’eleganza gentile dei Dim Gray, il sanguigno hard-psych degli Arabs in Aspic, il post-rock dei Gazpacho, il metal-prog dei Pain of Salvation, solo per citare qualche esempio.

Per cui non è difficile immaginare che nel cuore dei progsters ben presto troveranno posto anche i norvegesi Sykofant, appena giunti al loro album di esordio.

La mancanza delle tastiere in questo quartetto lascia già intuire che la formazione è più interessata alle evoluzioni maggiormente sanguigne ed energiche del vasto universo progressivo, che non certo a quelle sinfoniche.

Sono invece due chitarre che reggono le varie tessiture dei brani: quella del cantante solista Emil Moen e quella del chitarrista principale Per Semb, anche backing vocalist, così come è backing vocalist il bassista Sindre Haugen. Completa la formazione il batterista Melvin Treider.

Ben un’ora circa di musica, suddivisa in sei brani di varie lunghezze. Per esempio, si parte con i soli 4 minuti e mezzo di “Pavement of colors”, la traccia più corta del disco, che dopo un inizio quasi funky affidato a un basso mixato ben in primo piano e a chitarre asciutte e veloci, di colpo rallenta e si dilata assumendo contorni quasi tra il grunge e le desert session, verso un finale che si fa sempre più duro.

Supera invece i 12 minuti di durata “Between Air and water”, con una introduzione affidata a chitarre slide dal sapore floydiano. La quiete prima della tempesta dura circa quattro minuti, dopodiché il brano assume i connotati di una vera “cavalcata” psichedelica. Lo spettro dei Pink Floyd riaffiora nel solo chitarristico poco prima degli 8 minuti, per poi portare tutta la traccia verso un epico crescendo finale degno a tratti dei Muse.

Monuments of Old” è una traccia di elegante post-rock affidato a belle melodie chitarristiche, forse l’episodio più melodico dell’intero album, pur con i cambi di climax tra atmosfere più sottili e altre più hard che costituiscono la costante cifra stilistica della band. Volendo per forza fare dei parallelismi, si potrebbe pensare a un mash-up tra la Steve Rothery Band e i Rush di “Counterparts” per quanto riguarda le parti strumentali, mentre il cantato è ancorato a doppio filo all’epica del grunge.

Un gran lavoro di intrecci di arpeggi chitarristici dal sound pulito e scintillante segna l’inizio di “Between the moments”, l’unica altra traccia “compatta” del disco, con i suoi 5 minuti. Anche in questo caso il concetto di “ballad” melodica dura lo spazio di un paio di minuti, per poi evolversi in un complesso lavoro di riff di math-rock eclettici e cangianti.

Strangers” è cupa, granitica, solenne nel suo incedere, un trait-d’union tra il prog-rock “matematico” e lo stoner rock post-sabbathiano, con ricami chitarristici dal profumo esotico, quasi un tocco di Ozric Tentacles che affiora tra i riff poderosi. Sembra quasi che il brano si faccia sempre più congestionato, fino a un finale parossistico attorno ai 7 minuti. Per poi riprendere, però, in una lunga coda impalpabile, eterea, malinconica ma anche tenebrosa.

La chiusura del disco è affidata a una suite da circa un quarto d’ora di durata, "Forgotten Paths", che inizia come una ballad profumata di folk per poi evolversi in tutta quella serie di mutazioni alle quali la band ci ha ormai abituato nel corso del disco: momenti arpeggiati più densi di malinconia, assoli chitarristici di commovente intensità, riff complessi costruiti su tempi composti, in un calderone nel quale hard, funk, prog, psichedelia vanno costantemente a braccetto.

Insomma: se per voi il progressive rock non è affatto roba da favolette romantiche ma di questo genere preferite le incarnazioni meno sinfoniche e più dure, energiche, drammatiche (nell’etimologia greca di “Drama, dramatos”, cioè concentrato sull’azione), allora questo è l’album che fa al caso vostro.