Soft Machine on stage in 1967: Kevin
Ayers / Robert Wyatt / Daevid Allen
Marzo 1967 iperattivo per i fantomatici Soft Machine: dopo essere stati scritturati
insieme ai Pink Floyd per due mesi all’UFO Club di Londra, registrano il loro
primo 45 giri “Loves Makes Sweet Music” e partono in tour negli USA come
“supporto” della Jimi Hendrix Experience.
Tra le due band nasce una grande
stima reciproca, al punto che Jimi Hendrix, spesso si unisce ai Soft Machine,
suonando il basso!
Di tutto un Pop…
Wazza
24
marzo: Soft Machine
Jimi
Hendrix, Soft Machine, 1967
Jimi
Hendrix Experience e Soft Machine
partono per il tour americano
The
Soft Machine, 1967
At
the UFO club, London, March 3, 1967 with the original line-up: Mike
Ratledge / Daevid Allen / Kevin Ayers / Robert Wyatt
Sicuramente
questo quarto capitolo nella saga del “Corvo triste”, pubblicato il 3 febbraio
di quest’anno, è stato uno degli album più attesi dai fruitori del rock progressivo
italiano. Il “patron” dell’intero progetto, il chitarrista Samuele Santanna,
con quel mix di saggezza e prudenza che lo contraddistingue, ha saputo
sapientemente centellinare gli “indizi” sulla rinascita di questa formazione
che tutti pensavamo avesse accantonato: dapprima con alcuni post criptici sulla
possibile rinascita, poi con le foto che ufficializzavano il ritorno in sala
prove della band e poi creando un’aspettativa sempre maggiore: i brevissimi
clip in studio di registrazione piazzati sui social, la presentazione della
copertina, i singoli pubblicati a distanza di tempo.
Ecco,
il tempo: dieci anni esatti sono quelli intercorsi dal precedente “Layers of
stratosphere” del 2011, uscito sempre per Lizard. Di quella formazione, accanto
al “Re Corvo Triste” Samuele Santanna, che gestisce tutte le chitarre,
ritroviamo solo il fidato tastierista Fabrizio Trinci. I nuovi acquisti sono
Marco Geri al basso e Francesco Carnesecchi dietro il kit di pelli, fusti e
piatti.
Ma
il cambiamento più significativo della formazione sta nella decisione di
Santanna di non accollarsi più l’impegno anche delle parti vocali. Nel
precedente “Layers” la sua voce aveva raggiunto la piena maturità: era calda,
profonda, cupa, avvolgente, a cavallo tra il Fish delle ultime prove soliste
(certi brani dell’album 13th Star soprattutto) e il David Sylvian del periodo
Rain Tree Crow.
Ora
invece entra in scena (e ne abbiamo potuto apprezzare le qualità già nei
singoli) Gabriele Marconcini (autore, tra l’altro, anche di diverse foto del
booklet del disco, mentre il già citato tastierista Trinci ha curato anche le
opere di editing grafico).
Se
il timbro intimista di Santanna era perfetto per raccontare le vicende
personali e a tratti anche dolorose del precedente disco, l’esuberanza più
“flamboyante” di Marconcini è il tocco ideale per il nuovo corso della band.
No, calma: adesso, detta così, magari chi legge potrebbe pensare a una svolta
votata al power metal estremo o al punk rabbioso.
Si
scherza, naturalmente: gli ingredienti che hanno fatto grande il sound Raven Sadnei
dischi precedenti ci sono ancora tutti. Forte impatto melodico, bellezza delle
atmosfere, infinita dolcezza e soprattutto una classe che stacca di diverse
lunghezze tante formazioni contemporanee italiane e internazionali. Ma la
musica si è evoluta rispetto alle prime due pubblicazioni, quando Santanna era
praticamente un “one man band” con ospiti e sperimentava più tra i loop cosmici
degli Ozric e dei Gong, l’alternative rock dei primissimi Porcupine Tree e una certa
new age elettronica di talune produzioni di Mike Oldfield.
Ora
la direzione intrapresa è quella di un rock progressivo sempre molto melodico e
romantico, ma più corposo, maestoso, dalle orchestrazioni solenni e dal
drumming mixato alto e potente a scandire i vari momenti delle lunghe tracce.
Dopo
i due minuti scarsi di Legend #1, strumentale rumorista che di fatto
rappresenta l’ultimo vero legame col passato ravensadiano, ci pensano i dieci
minuti circa ciascuno dei due singoli divulgati con ampio anticipo, cioè “The
sadness of the raven” e “City lights and desert dark” a mettere le cose in
chiaro. Nel primo dei due l’omaggio di Santanna al più grande amore musicale
della sua vita, i Pink Floyd, è palese, ma filtrato attraverso l’innovazione
portata nei decenni successivi dalla “triade neoromantica britannica”
Marillion-Pendragon-Iq, e soprattutto con la nota personale data dalla bella
voce di Marconcini. Nel secondo di questi due singoli gli arpeggi si fanno più
taglienti, i toni più oscuri e l’interpretazione della voce e della band,
complici anche dei bei ritmi “spigolosi”, ci porta più verso il metal-prog di
classe di nomi storici come Queensryche e Fates Warning.
Un
tocco di metal, ma soprattutto tantissimo neo-prog: e così i 13 minuti di
Colorbox, tra cambi di tempo repentini, arpeggi di piano, Hammond che
ruggiscono sullo sfondo, ci sposta di colpo nei territori dei Flower Kings e
dei Transatlantic. Ma naturalmente, come nei dischi precedenti, a svettare su
tutti gli arrangiamenti è sempre il tocco chitarristico di Samuele Santanna: la
“chitarra perfetta”, sia consentito dire. Il suono è limpido e definito in ogni
nota, nei passaggi più veloci come in quelli più carichi di pathos, dal lungo
sustain; la produzione della chitarra è sublime; gli arpeggi e i “ricami” sono
sempre imprevedibili, mai banali, non c’è niente per riempire senza un senso
ben preciso, ogni passaggio è piazzato dove non te lo aspetti, per movimentare,
arricchire, impreziosire.
I
circa 9 minuti di strumentale al centro del disco, Approaching the chaos, con
la chitarra che ancora una volta svetta, con le melodie esotiche e arabeggianti
e con gli arpeggi “cosmici” e carichi di echi, costituiscono un altro dei
momenti in cui Santanna ci riporta al suo amore per il sound tra psych e prog
di Ozric Tentacles, Mandragora, Magic Mushroom Band, Porcupine Tree, che
caratterizzava i suoi esordi. Il tutto con un approccio più “cattivo” rispetto
al passato (ok… vogliamo parlare addirittura di Haken? Ma perché no!).
La
dolcezza melanconica del precedente Layers (seppur riletta, come ripetiamo fin
dall’inizio, nella chiave di una produzione più “stunning”) la ritroviamo nei
12 minuti di Ride the tempest, forse la vetta del disco, con le sue ondate
sciabordanti e prepotenti di Mellotron che reggono l’irruenza della chitarra e
con una prova al pianoforte, in vari momenti della lunga traccia, a dir poco
commovente.
Qui
il lavoro fatto dagli arpeggi del piano che sembrano “volteggiare” attorno a
quelli della chitarra, tocca apici sublimi ed è reso ancora più struggente da
una prestazione vocale convinta, sentita, emotivamente devastante. Tutto ciò ci
accompagna per mano verso un finale a colpi di doppia cassa epico e mozzafiato.
Di
Absolution trial, altro singolo presentato prima dell’album nella sua totalità,
avevamo già scritto: con la sua melodia ariosa e di impatto sarebbe la traccia
ideale come gran finale dell’album. Senonché Santanna sceglie di spiazzarci
ancora una volta: lui e la sua band ci salutano con Legend #2, altri cinque
minuti di capolavoro strumentale di prog sinfonico retto su un gran lavoro
chitarra/Mellotron/Minimoog. E alla fine, ma proprio alla fine, durante
l’ultimo minuto, tutto si spegne e diventa totalmente acustico. Un soliloquio
chitarristico con voci registrate che fanno riferimento a un’altra delle grandi
passioni di Santanna: l’astronomia.
Il
solo problema di questo disco è di essere uscito in piena bufera-Covid: senza
tutte le limitazioni imposte dal virus, vederlo riproposto live sarebbe uno
spettacolo maestoso come la musica contenuta nelle varie tracce.
“La
foglia e l’ala” sono i due simboli che segnano il grande ritorno dei Raven Sad
dopo due lustri di silenzio e, in questo 2021, si può già parlare di titolo
degno di figurare tra i dischi prog del decennio.
Gli
Alchem, nati dallo scioglimento degli
Acida Luna, sono una formazione romana che ha esordito discograficamente nel
2008 con il promettente Shadows il quale includeva alcune tracce
interessanti tra cui l’ottima Desdemona. Soltanto nel 2018, la band è riuscita
a pubblicare il secondo album intitolato Viaggio Al Centro Della Terra.
Troppe,
davvero troppe, le disavventure capitate a questo sfortunato gruppo che, di
fatto, hanno inficiato la possibilità di affermarsi come avrebbe meritato.
Per
completezza d’informazione ricordiamo anche una demo del 2005, gli EP Whispering
(2011) e Fragments (2014), quest’ultimo disponibile solo in digitale.
Le
architetture sonore degli Alchem si fondano essenzialmente sulla magica
sintonia degli arpeggi e dei riff di chitarra sciorinati da Pierpaolo
Capuano con la magnifica voce di Annalisa Belli nel contesto di un
genere inquadrabile nel progressive metal con marcati riferimenti ad atmosfere
gotiche e cupe tanto care agli amanti dei Paradise Lost, My Dying Bride e Evanescence.
Il lavoro del bassista e programmatore Luca
Minotti è di notevole levatura e completa un quadro d’insieme coeso ed
efficace. Le parti alle pelli sono state curate da Massimiliano Fiocco e
Alessandra “Trinity” Bersiani, mentre spesso ci si è avvalsi della
batteria digitale.
Viaggio Al Centro Della Terra
è un concept che s’ispira al breve romanzo La Canzone del Vento, scritto
dalla Belli e avente come tema centrale il percorso interiore da intraprendere
verso la ricerca di sé stessi.
Nel
disco non mancano passaggi strumentali che ne accrescono il valore complessivo
e attraverso i quali si può maggiormente apprezzare la qualità dei musicisti.
L’opener
Behind the Door fa risaltare le mirabili doti vocali di Annalisa nel
contesto di un andamento rarefatto di rara bellezza compositiva. Segue
l’incedere sostenuto di Spirits of the Air, in cui spicca un
azzeccato giro di basso. In Il Canto delle Sirene l’heavy la fa da
padrone e rammenta non poco lo stile dei canadesi Rush. L’armoniosa In my
Breath, con ospite al basso Diego Banchero leader della formazione
genovese Il Segno del Comando, pone in risalto ancora una volta l’ammaliante voce
della cantante, mentre il suono del violino di Emilio Antonio Cozza
porta ad accostamenti non così peregrini con i King Crimson. Nella lunga
strumentale che dà il titolo all’album emerge dirompente l’anima progressive
della band, con le tastiere e l’organo protagonisti come vuole la tradizione del
genere. Un dolce arpeggio apre I Don’t Belong Here, uno dei pezzi migliori del lotto, con la sirena Annalisa ad
ammaliare l’ascoltatore come Partenope, Leucosia e Ligea fecero con Ulisse. Si
permane in atmosfere eteree e affascinanti in Butterflies Are Singing e
nell’inquietante Fragments of Stars, inframezzate dall’irruenza iconoclasta di Armor Of Ice.
Chiude il full length Pioggia D’Agosto con un piano emersoniano in
apertura per poi sfociare in un sostenuto prog metal.
Viaggio
Al Centro Della Terra è un concept magistrale
in cui musicalità e lirismo si trovano in perfetto equilibrio. Una prova
egregia e superiore a Shadows che merita la dovuta attenzione da parte
degli amanti del genere.
Mi
auguro, però, che non si debba aspettare a lungo per ascoltare un nuovo disco
degli Alchem: datevi da fare ragazzi, basta tergiversare!
Gruppo: Alchem
Album: Viaggio al Centro della Terra
Label: Black Widow
Records
Anno 2018
Tracklist:
1-Behind The Door
(5:39)
2-Spirit Of The Air
(6:57)
3-Il Canto Delle
Sirene (6:14)
4- In My Breath (4:38)
5-ViaggioAl Centro Della Terra (8:32)
6-I Don't Belong Here (4:06)
7-Butterflies Are
Singing (5:53)
8-Armor Of Ice (4:09)
9-Fragments Of Stars
(4:41)
10-Pioggia D'Agosto
(9:41)
Tutti i brani sono stati composti da Annalisa
Belli e Pierpaolo Capuano
Ormai
siamo sommersi da cover o tribute band, fenomeno nato alla fine degli anni ‘80 e
dilagato in seguito!
Ma già
negli anni '70 molti gruppi, non avendo materiale proprio sufficiente per
un concerto, attingevano a pezzi di altre band famose. Una su tutti la PFM - dal vivo eseguiva brani dei
Jethro Tull e King Crimson, - ma anche i meno famosi Teoremi, e molti altri.
Ma
spulciando ho scoperto un gruppo di Livorno,
Mente Corta, che suonavano
5/6 brani dei Jethro Tull, una cover band "ante litteram".
Ebbero il
loro momento d'oro nel 1972,suonando in un mega festival, con Formula Tre, Quella vecchia Locanda e New
Trolls, il tutto presentato da Renzo
Arbore.
La band
era formata da:
Sergio
Biondi - chitarra
Marco
Caluri - batteria
Claudio
Barontini - basso
Guglielmo
Ferrari - flauto e voce
Antonio
Favilla – tastiere
Come
tante altre band non riuscirono ad emergere nel panorama pop, poi diventato
progressive.
Divennero
il gruppo dal vivo di Milva, facendo con lei tour in tutto il mondo.
Claudio
Barontini è oggi un affermato fotografo.
Di tutto
un Pop...
Wazza
(Estratto intervista a
Claudio Barontini)
D: Nel 1972 è la volta
della Mente Corta. Il tutto coincide con l'esplosione del prog
italiano. Vostri cavalli di battaglia le cover dei Jetro Tull... ma anche
composizioni firmate da voi stessi.
R: La "Mente Corta" nacque sulla scia del progetto dei "Clara
e i Backhand". L'organista Alfredo e la cantante Clara lasciarono il
gruppo ma entrò a farne parte Guglielmo Ferrari voce, flauto e chitarra
delle Sfingi. La formazione era quella tipo dei primi Jethro Tull: chitarra,
basso, batteria e flauto. Suonavamo "Crosseyed Mary, "Locomotive
Breath", "Living the past", Bouree" dei Jethro Tull e
altri pezzi composti da Sergo Biondi, Guglielmo Ferrari e dal sottoscritto.
Per l'occasione ricordo che mi comprai il tanto sospirato "Fender
Jazz Bass".
D: Con la Mente Corta
ricordo allo Stadio Comunale di Livorno l'evento del settimanale
TV Sorrisi e Canzoni "Estate insieme", presentatori Renzo Arbore
e Loretta Goggi. Sul palco insieme a voi i New Trolls e La Vecchia
Locanda... una bella soddisfazione.
R: Suonare allo stadio di Livorno con la tribuna gremita fu una
bella emozione per tutti. Parenti inclusi. Ricordo in particolare la mia
esibizione, l'assolo di basso di Bourèe, con un lungo applauso finale. Ho
ancora la pelle d'oca. Renzo Arbore alla fine ci premiò con quattro
Telegatti d’argento, all’epoca però non c'era ancora la statuetta ma una
medaglia. La settimana dopo uscimmo con un servizio su TV Sorrisi e
Canzoni.
Perché si parla poco di “Io sono nato libero”, del Banco del Mutuo Soccorso, uscito nel 1973?
Il suo ascolto si pone in maniera
prepotentemente attuale. Non è facile comprendere le ragioni secondo le quali
si parla poco della sua importanza, ed è più facile ritrovare il “salvadanaio”
o “Darwin” nelle classifiche dei dischi più importanti del prog rock italiano
realizzati dal BMS.
“Io sono nato libero”, secondo chi scrive, rappresenta
il punto più interessante ed ambizioso della loro produzione artistica e
dell’avanguardia artistica rock progressiva italiana del 1970. Impossibile non
apprezzare, già dal primo ascolto, la profonda ricercatezza delle liriche di Di
Giacomo, lo spessore delle musiche composte da Vittorio Nocenzi, e la piena
libertà artistica musicale espressa dalla totalità della band.
Il messaggio profondo che racchiude l’LP,
inoltre, lascia un solco indelebile nella coscienza musicale dell’ascoltatore,
inducendone attimi di profonda riflessione. La copertina del disco, nella sua
pubblicazione originale, ritraeva la sagoma di un enorme portone a chiusura del
dettaglio degli occhi di Francesco Di Giacomo. Il varco in questione è tratto
da un’abitazione milanese, situata nei pressi del vicolo della Lavandaia.
Ogni traccia del disco approfondisce la
tematica della libertà in ogni sua sfaccettatura, dalla dolente tensione
causata a seguito di un sopruso politico, all’idea pura e immateriale della
libertà intesa come espressione dell’indipendenza dell’artista. Ogni aspetto
descritto rende il disco in questione uno dei migliori concept album mai
concepiti in Italia.
Tracce
L’incipit del disco è affidato alla suite “Canto
Nomade Per Un Prigioniero Politico”, titolo dal chiaro riferimento alla
tradizione dei canti leopardiani. La prima traccia è già manifesto del
pianoforte nocenziano e della profonda espressività della voce del maestro Di
Giacomo. Il testo è una chiara espressione, in toni poetici, del dolore e del dissidio
interiore vissuto da un prigioniero recluso per motivi politico:
“Cosa dire, soffocare, chiuso qui… perché?
Prigioniero per l’idea, la mia idea… perché?
Lontano è la strada che ho scelto per me
dove tutto è degno di attenzione perché vive,
perché è vero, vive il vero…”
La canzone trae ispirazione dalle vicende
storiche legate al colpo di Stato di Allende avvenuto nel 1973 in Cile, e si
pone come dichiarazione di resistenza a ogni sopruso e, allo stesso tempo,
manifesto del diritto di libertà nell’espressione politica. La suite si
conclude con aspra invettiva a ogni forma di discriminazione:
“Voi condannate per comodità,
ma la mia idea già vi assalta.
Voi martoriate le mie sole carni,
ma il mio cervello vive ancora ancora… ancora”
Le musiche esprimono pienamente il senso di
inquietudine dell’esiliato che, nonostante l’afflizione, rinnega ogni forma di
superficiale pietismo retorico:
“E voi donne dallo sguardo altero, bocche
come melograno,
non piangete perché io sono nato,
nato libero, libero,
non sprecate per me una messa da requiem,
io sono nato libero”
“Non mi rompete” è una ballata
dal testo lineare e poetico di probabile ispirazione ariostesca. Costituisce
una rievocazione della libertà intesa in senso ingenuo e sincero, fino a
raggiungere la candida dimensione onirica. Si tratta di un invito a godere e
apprezzare di ogni occasione fugace, finché la libertà riesce ancora a
offrirla…
“Perché volete disturbarmi
se io forse sto sognando un viaggio alato
sopra un carro senza ruote
trascinato dai cavalli del maestrale,
nel maestrale… in volo”.
“La Città Sottile” ha arpeggi
misti tra jazz e psichedelia in un percorso che conduce l’ascolto a un lirismo
di inaudito spessore. È facile notare delle affinità con la celebre “Giardino
del mago” (contenuta nel primo disco del BMS, il cd. “Salvadanaio”). Le
tastiere dei fratelli Nocenzi si fondono in intrecci di sperimentazione prog e
classicismo. La voce di Di Giacomo si esprime in senso maniera profondamente
suggestiva e dolente. Le liriche trattano dell’alienazione da metropoli,
vissuta dal punto di vista del cittadino. Il testo risulta attuale anche per
l’ascoltatore del 2021:
“Tu chi sei, città non città
Che vivi appesa in giù alle tue corde d’aria
ferma.
Travi, tubi senza dimensioni,
Freddi quarzi invecchiati.
I tuoi mille ascensori di carta velina
Che vanno su e giù senza posa,
Nessuno che scende, nessuno mai sale”
In “Dopo Niente È Più Lo Stesso”
l’espressività della voce di Francesco Di Giacomo ci racconta della profonda
delusione di un soldato russo che, a guerra finita, si accorge dei profondi e
forse irreversibili cambiamenti che la sua anima ha subito:
“Canti e balli nella strada volti di ragazze
come girasoli
Cose che non riconosco più.
Per troppo tempo ho avuto gli occhi nudi e il
cuore in gola.
Eppure non era poca cosa la mia vita.
Cosa ho vinto, dov’è che ho vinto quando io
Ora so che sono morto dentro
Tra le mie rovine.
Perdio! ma che m’avete fatto a Stalingrado!?!”
È facile notare, infatti, dopo l’inizio
scanzonato sulla rassicurante fine della guerra, il dolente senso di
inquietudine del militare. Segue una violenta filippica contro la guerra e i
giochi di potere degli eletti, a danno del popolo:
“Difensori della patria, baluardi di libertà!
Lingue gonfie, pance piene, non parlatemi di
libertà
voi chiamate giusta guerra ciò che io
stramaledico!
Dio ha chiamato a sé gli eroi, in paradiso
vicino a Lui.
Ma l’odore dell’incenso non si sente nella
trincea.
Il mio vero eroismo qui comincia, da questo
fango.
T’ho amata donna, e parleranno ancora i nostri
ventri.
Ma come è debole l’abbraccio in questo
incontro.
Cosa ho vinto, dov’è che ho vinto quando io,
vedo che, vedo che niente è più lo stesso, ora
è tutto diverso
Perdio! ma che cos’è successo di così
devastante a Stalingrado !?!”
L’attualità della canzone in questione è
rappresentata anche dal testo recitato da Alessandro Haber nella versione
contenuta nel disco del Banco “Un’idea Che Non Puoi Fermare” del 2014.
Chiude l’Lp “Traccia II”, un
pezzo strumentale sinfonico in chiave progressive. L’ulteriore espressione
della genialità della band è rappresentata dalla conclusione del disco,
estremamente impegnato e profondo, con un inno alla spensieratezza, in toni
sfumati e onirici. Lo spessore dei Banco del Mutuo Soccorso, a seguito della
pubblicazione di “Io sono nato libero”, non sfuggì all’attenzione di Greg Lake
che, nel 1975, decise di includere la prog band romana nel celebre catalogo
della casa discografica “Manticore”. L’uscita successiva è “Banco”, con
elisione del nome della band per il mercato internazionale e testi tradotti in
inglese.
“Io sono nato Libero” è un capolavoro di
profondo spessore, dal messaggio ancora attuale, come per ogni opera senza
tempo. L’ascolto rappresenta un’esperienza di inimitabile emozione. La stessa
sensazione potremo provare nel momento in cui riconquisteremo del tutto, e in
maniera finalmente tangibile e duratura, la nostra libertà.
Che sia di auspicio per tutti noi…
Tracklist
Lato A
1. Canto nomade per un prigioniero politico –
15:43
2. Non mi rompete – 5:03
Durata totale: 20:46
Lato B
1. La città sottile – 7:10 (Gianni Nocenzi)
2. Dopo…niente è più lo stesso – 9:54
3. Traccia II – 2:39 – Brano strumentale
Durata totale: 19:43
Testi di Francesco Di Giacomo e Vittorio Nocenzi, musiche di Vittorio Nocenzi, eccetto dove indicato
Viola Nocenzi, compositrice, vocal coach e
appassionata di filosofia oltre che di musica, avrebbe potuto intraprendere
agevolmente il cammino artistico del padre Vittorio e dello zio Gianni e,
invece, per la realizzazione del suo omonimo album d’esordio ha inteso
imboccare un sentiero diverso, più incline alle sue reali aspirazioni
artistiche. Ha preferito scegliere, quindi, la strada del cuore e non quella
del mero opportunismo, dimostrando il suo ferreo intendimento di volersi
affermare nel mondo delle sette note con le proprie idee senza la necessità di
seguire percorsi “facili”.
È confortante constatare che esistono
ancora persone squisitamente sincere e scevre da compromessi e già solo per
questo Viola merita stima incondizionata.
La sua proposta potrebbe essere
definita una sorta di “pop/rock raffinato” nel senso che agli arrangiamenti
curati in ogni particolare sotto la supervisione di Gianni Nocenzi
(raccomando l’ascolto in cuffia per coglierne tutte le sfumature) si coniuga un
vocalism avvolgente che si snoda attraverso sette tracce pop/rock di pregevole
fattura compositiva.
Nell’opener Viola si apprezza
l’accattivante melodia nell’ambito di un testo che tratta la tematica
dell’amore: “Per ascoltare il tuo profumo io ucciderei… chiudere a chiave la
mia voce dentro di te…. Non vedi, non vedi, non vedi che il cielo è viola…”.
All’immediatezza di Lettera da
Marte (“Quassù è tutto bellissimo c’è solo un po’ di vento”),
ispirata a una poesia di Alessio Pracanica, si contrappone il
romanticismo di Colui che Ami (“Vienimi a salvare da una pietra
gelida da una goccia umida da tutto questo sale”), l’unica traccia in cui
Viola si cimenta al piano.
È l’elettronica ad emergere in Entanglement,
uno dei pezzi più riusciti (“Non potrei dirti di no se lo decidessi”). Itaca
(“Getto l’ancora ora e aspetto mentre abbraccio con lo sguardo l’isola
intera il mio porto…”) è una metafora sul tema del viaggio e dimostra la
versatilità e la bravura di Viola (ricordiamo che ha un’estensione vocale di
quattro ottave). In L’Orizzonte degli Eventi (“Oscurità la nera luce
che sa misteri e verità”) il pop strizza l’occhio alla fusion. Bellezza chiude il disco, una canzone
rappresentativa del pensiero di Viola sull’uomo come si evince da questi
significativi versi: “Non tutti sono disposti a misurare il proprio cuore e
la propria intelligenza”.
I testi sono stati scritti dal citato
Pracanica, fatta eccezione per "Bellezza", opera di Viola, che firma anche tutte le musiche.
La Nocenzi ha inteso dischiudere il
passaggio che da l’accesso al suo mondo interiore offrendo la possibilità a
tutti di potervi accedere e di conoscere i pensieri, le paure, i sogni di una
ragazza semplice che desidera solo mostrarsi per quello che è realmente. Come
una sorta di Virgilio, ci prende per mano e attraverso sette perle, “sette
schegge della mia personalità” (parole sue), ci accompagna in un viaggio tra le
sfaccettature della sua anima che potrebbe rivelarsi davvero sorprendente ed
emozionante per chi è dotato di sensibilità.