Halloween visto da alcune rock-star…
Just for fan!
Wazza
Peter Gabriel
La diramazione del web magazine MAT2020, per una nuova informazione musicale quotidiana
Halloween visto da alcune rock-star…
Just for fan!
Wazza
Peter Gabriel
Libro: Acts of Sabotage
Autore: Nico Parente
Anno: 2016
Casa editrice: Crac
Edizioni
Commento di Fabio Rossi
“Casco nero in testa, pelle nera su di te. Moto che
corre lontano, sulla strada della follia…”
(liriche dal brano Rumore nel Vento)
Uno dei più
gravi errori commessi da molti metallari italiani, me compreso purtroppo, è
stato quello di essere attratti eccessivamente dalle produzioni estere non prestando
la giusta attenzione ai dischi di casa nostra. Ogniqualvolta veniva recensito
un album “tricolore”, si tendeva a snobbarlo perché non c’era fiducia sulle
potenzialità del movimento e qualcuno arrivava addirittura a sostenere che non
valeva la pena perdere tempo con le band dello Stivale.
Quale errore madornale!
Quanta superficialità! Dobbiamo chiedere scusa a tutte quelle formazioni che, a
fronte di un’ottima qualità delle composizioni, non si sono affermate come
avrebbero meritato anche a causa dell’indifferenza degli appassionati. Certo, è
innegabile che una maggior coesione tra i gruppi avrebbe giovato alla causa, ma
avendo vissuto in prima persona il periodo d’oro (gli anni Ottanta) sono
fermamente convinto che si poteva e si doveva fare di più considerato l’indubbio
valore di taluni LP.
Con il tempo
mi sono ravveduto e devo fare i complimenti alla Crac Edizioni per aver
pubblicato libri dedicati a combo quali Strana Officina, Skanners, Vanadium e
altri ancora, consentendo, specie ai neofiti, di approfondire la tematica.
Tra questi
saggi merita particolare considerazione Acts of
Sabotage – La biografia ufficiale, scritta da Nico Parente, esperto di musica (militò per circa cinque anni nei
Clinicamente Morti) e di critica cinematografica (è il responsabile della casa
editrice Shatter che vanta pubblicazioni di tutto rispetto afferenti in
particolare il mondo dell’horror).
Il suo libro è
un autentico atto d’amore verso una delle più valenti band italiane: i
fiorentini Sabotage, pionieri della New Wave Of Italian Heavy Metal
(sigh, per alcuni di noi esistevano solo Iron Maiden, Saxon e compagnia bella,
che imbecilli!).
I Sabotage
hanno sfornato nella loro tribolata carriera album di eccellente qualità, come “Behind
The Lines” (1986), “Hoka Hey” (1989) e “Rumore Nel Vento” (cantato in italiano,
un demo del 1984 ripubblicato fortunatamente nel 2008); perle che vanno
riscoperte e che non hanno nulla da invidiare a tanti blasonati dischi
anglosassoni.
Il punto di
forza dei Sabotage è stato quello di aver avuto nelle file due cantanti di
spessore e differenti nello stile: Giancarlo Fontani e soprattutto Adolfo "Morby" Morviducci.
Un centinaio
di pagine in tutto che volano via in un attimo, raccontando con straripante
passione le vicende di questo gruppo tuttora in attività.
Degne di
menzione le interviste ai vari musicisti, che con le loro parole ci raccontano
il fascino di quegli anni irripetibili in cui essere metallari non era una moda
ma uno stile di vita.
Grazie a
scrittori come Nico la memoria di quei tempi indimenticabili rimane viva,
riverberando fulgida in un’epoca in cui l’arte della musica è in endemica crisi
creativa.
CLICCARE PER...
ASCOLTO DELL'ALBUM "RUMORE NEL VENTO", DEI SABOTAGE
Il Buco Del Baco – Sotto Il Segno Della Lampreda
(Lizard Records) 2021
Di Luca Paoli
Ebbene sì, io ho un debole per la Lizard Records di Loris Furlan.
Etichetta indipendente che ha il coraggio di osare, di proporre artisti
e musica davvero molto originale, così come originali sono Il Buco Del Baco e
il loro “Sotto Il Segno Della Lampreda”.
Devo ammettere che il disco mi ha spiazzato.
Ad un primo ascolto non avevo capito se fossi piombato negli anni ‘70 senza accorgermene, ma poi ho realizzato… certo, questi musicisti sono stati come ibernati, e da quegli anni si sono svegliati oggi con dei brani scritti, e così, con i mezzi di oggi, hanno inciso un disco... geniale!!!
Spero di avere risvegliato un p’ di curiosità da parte di chi mi sta leggendo.
Le tracce che compongono il lavoro sono unite da una storia, un concept
che, sotto i fondali marini, ci racconta di anemoni, coralli e creature
abissali alla ricerca della “Grande Lampreda”.
Il sound del disco è una sintesi, riveduta e corretta con suoni moderni, di tutto quello che abbiamo ascoltato nei ‘70... progressive rock, cantautorato e altro ancora sono presenti, in modo solo in apparenza scomposto ma, vi assicuro, che tutto qui è studiato nei minimi dettagli e di improvvisato e approssimativo non c’è proprio nulla.
Ottime le voci che si rincorrono e si ritrovano con grandi risultati
armonici e la musica è davvero intrigante e suonata veramente bene.
Non segnalo dei brani in particolare perché, come ogni buon concept, vanno ascoltati tutti così come li propone la band. Vorrei solo porre alla vostra attenzione l’ultima traccia. “Il Plagio Di Rosalisca”, lasciando all’ascoltatore il piacere della scoperta.
“Tra suoni vintage e contemporanei e testi irriverenti ed autoironici pieni di citazioni musicali e non, un viaggio marino in odore di nostalgico passato.”
Il booklet, ben fatto e con un’ottima grafica, riporta i testi delle canzoni che sono cantate rigorosamente in italiano.
Un disco originale, suonato benissimo che non può mancare in nessuna discografia di qualunque appassionato di musica di qualità che si rispetti.
Tracks-list:
Lo Scafandro di Sandro
Mi immergo negli Abissi
Dimmi, Calamaro!
Il Disprezzo della Sogliola
Un Dedalo di Corallo
Forse è Lei
Nel Segno delle Lamprede
Il Plagio di Rosalisca
Line-up
Carlo Mastrangeli - drums, vocals
Gianni De Scalzi - electric bass, vocals
Fabrizio Nocenzi - moog, piano, vocals
Daniele Graziani - Hammond organ, keyboards, vocals
Gaetano Trionfanti - guitar, vocals
Saverio Silvani - flute, vocals
THE
FAR CRY: If only…
Autoprodotto - 2021 - USA
Di Valentino Butti
Una delle annose questioni che
coinvolgono gli appassionati è la presunta “incapacità” delle band statunitensi
di produrre prog di buon livello. Non appartenendo a questa “corrente di pensiero”
ed anzi considerando il prog made in Usa, sin dagli anni Settanta, ricco di
creatività (seppur non supportato da grandi numeri alla voce “vendite” …) e di
notevoli band, talvolta, misconosciute, ecco che quando scopro qualche nuovo
gruppo statunitense, mi ci fiondo nella speranza di trovarci qualcosa di qualitativamente
interessante.
Così è successo per i THE FAR CRY: attirato dalla bella copertina, dopo
una rapida scorsa alla durata delle tracce e al “parco” degli strumenti presenti,
l’ascolto era d’obbligo. Non mi aspettavo certo un capolavoro, ma l’ora
abbondante di musica proposta suddivisa su otto tracce, ha ampiamente
giustificato l’approfondimento. Robert Hutchinson (batteria) e Jeff
Brewer (voce, basso, chitarra) si conoscono sin dagli anni Settanta e negli
anni Ottanta hanno fatto parte di una prog band, gli Holding Pattern, piuttosto
nota tra gli appassionati più attenti.
Nel 2013 i due si ritrovarono per
dare vita ad un nuovo progetto che, aggregatesi anche Bryan Collin
(chitarre elettriche ed acustiche) e Chris Dabbo (tastiere e voce), col
nome di “The Far Cry” giunge finalmente al debut-album.
Le due “vite” artistiche di Hutchinson e Brewer (quella 70/80 e quella di oggi) creano un ibrido in cui le sonorità proposte ricordano gli Yes, gli Styx, ma anche gli Spock’s beard e i Dream Theather.
La parte del leone su “If only…” la
fanno le tre tracce più lunghe: l’iniziale “The mask of deception”, “Simple
pleasures” e la title track.
CLICCARE SUI TITOLI PER ASCOLTARE
L’approccio in “The mask ofdeception” è piuttosto heavy, con chitarra elettrica e tastiere a decollare
in modalità Spock’s beard, ma sempre con un occhio di riguardo all’aspetto
melodico che, fortunatamente, non viene mai a mancare. Molto bello il “romantico”
frammento strumentale nella seconda parte del brano, prima che riprenda il
sopravvento la grinta iniziale.
“Simple pleasures” sviluppa l’anima
più sinfonica del quartetto statunitense, avvicinandosi alle suggestioni
proposte dagli Yes o, per il lato più pomp, agli Styx. Molto riuscito, anche
qui, l’inserto centrale con pianoforte e chitarre acustiche a prendersi la
ribalta, prima dell’eccellente “solo” di synth.
La title track racchiude, nei suoi
sedici minuti, non solo il meglio dell’album, ma anche un compendio del miglior
prog sinfonico dai ’70 ad oggi. C’è l’introduzione acustica affidata alla
chitarra, ci sono le brillanti tastiere di Dabbo, c’è il momento “ambient” e, ancora,
il “divertissement” à la Gentle Giant, oppure il new prog alla I.Q (in zona “The
wake”) senza scordarsi qualche scintilla heavy. Insomma, un florilegio di
sensazioni diverse, ma ben assemblate tra loro.
Se queste tracce sono il fulcro di “If
only…”, non dimentichiamo la breve “Winterlude”, dolce intermezzo per
chitarra acustica e “Winterlude waning” per solo pianoforte.
Più lunghe ed articolate (ma sempre
solo strumentali) sono l’epica “The missing floor” e l’eterea e
raffinata “Dream dancer”.
Il quasi rap (!!!) di “Programophone”
non va ad inficiare il valore di un album che si è dimostrato una piacevole
sorpresa a dimostrazione che, con un poco di pazienza, si possono scovare
ancora realtà e band degne di nota.
Compie gli anni oggi, 26 ottobre, Lino Vairetti.
Quest’anno doppi festeggiamenti con i 50 anni degli Osanna:sono
in uscita un libro, Cd e film per celebrare l’evento!
Happy Birthday Lino!
Wazza
21 ottobre
“La solitudine non è vivere da soli,
la solitudine è il non essere capaci di fare
compagnia a qualcuno o a qualcosa che sta dentro di noi.”
(Josè Saramago)
Ci sarai sempre. Buon viaggio
Capitano!
Wazza
Ricordo di Franz di Cioccio
"Un nugolo di sensazioni affollano i nostri cuori quando un amico se ne va", ricorda il batterista e cantante Franz Di Cioccio a nome della PFM:
"Anche se di solito la frequentazione avveniva sopra e sotto i palchi, eravamo legati, come lo è la grande famiglia allargata della musica, perché proveniamo da medesime esperienze generazionali e sociali. Per tradizione giornalistica la rivalità fra artisti è il miglior modo per accendere la passione del pubblico. È stato così ai tempi dei Beatles e dei Rolling Stones, una sfida che ha infiammato il Regno Unito. Crediamo che sia stata questa la scintilla che accese nell'immaginario la presunta rivalità tra il Banco e la Premiata. In realtà non c'è mai stata, anche se facevamo parte della stessa corrente musicale. Le strade percorse e le scelte fatte sono state molto diverse per i due gruppi e la diversità è sempre una ricchezza. Negli anni Settanta incontrarsi sulla riviera romagnola, per i concerti estivi all'Altro Mondo di Rimini, era un rito che entrambi aspettavamo con grande entusiasmo. Quella era la migliore occasione, nel locale che offriva il palco più bello dell'epoca, per confrontarsi sulle nostre scelte e i nostri sogni. Entrambe le band andavano l'una ad ascoltare l'altra e poi. chiacchiere, musica, jam session. Francesco era un fiume di argomentazioni e di passione. Con lui era bello affrontare i temi al centro dell'attenzione di noi musicisti emergenti, in opposizione alla canzone tradizionale. Alla faccia della rivalità PFM-Banco, riuscivamo anche ad essere una bella squadra nelle partite di pallone pomeridiane, che vedevano sul campo noi musicisti sfidare i camerieri dell'Altro Mondo. Scampoli di ricordi tra mille e mille note, e notti da festival pop. PFM saluta l'artista ma soprattutto l'amico. Quello che ci rimane dentro è la sua poetica e la sua voce calda e graffiante, che chiedeva in modo gentile che nessuno ci 'rompesse".
PAMELA GUGLIELMETTI
“CAMMINO CONTROVENTO”
Di Franco Vassia
"Cammino
controvento”, in uscita il 22 ottobre, non sarà mai un disco di successo. Ma
questo non perché le sue credenziali non siano meritevoli, tutt’altro! Perché, Cammino
controvento, non è disco ruffiano o ipocrita, costruito con i tratti
distintivi – oggi purtroppo tanto in voga – buoni per riempire le orecchie e le
pance di un pubblico drogato dall’effimero, dalla fretta e dalla voracità.
Il nuovo album di Pamela Guglielmetti è
l’elogio della lentezza, un granaio di parole, la musica che quieta ritorna nel
suo alveo. Sono racconti, strofe, immagini, acquerelli, sussurri e grida. Un
lavoro costruito, pezzo dopo pezzo, con le mani e col sudore dell’artigiano
perché, chi ha qualcosa da dire, oggi abita agli estremi opposti dei palazzi
dei discografici e dei bucanieri del Barnum musicale.
Neppure esiste un titolo più
appropriato: Cammino controvento è il titolo perfetto per chi deve
barcamenarsi fra giochi di potere, calcoli di bottega e interessi commerciali.
Un lavoro pulito che rimanda ai tempi andati, di quando in sala di incisione c’era
ancora qualcosa da dire, da condividere o da confessare.
Anche i suoni sono gli stessi, dove
la nota non è mai banale e ogni parola assume in pieno il suo valore
ancestrale.
Tutto perfetto? Forse no, ma
sicuramente al di sopra della media delle ottuse volgarità che debordano dalle
piattaforme del web. Perché è proprio questo il problema: oggi non si comprano
più dischi ma si consumano come un chewing gum o la nota di una sigaretta.
Anche se qui e là emerge qualche caduta di tono, per apprezzarlo al meglio Cammino
controvento va ascoltato in religioso silenzio, centellinando le parole
oltre al respiro.
Nove canzoni di buon livello dove,
soprattutto, spiccano “Abbi cura di me” e “Come sarà”, due brani
che non sfigurerebbero nel canzoniere del cantautorato colto dei tempi d’oro.
Tra versi e poemi a volte soltanto sussurrati, Pamela Guglielmetti è la compagna che ti prende per mano e ti accompagna sul lungomare deserto e che, oltre al dito, ti fa notare che esiste anche la luna.
TRACKLIST:
1- Stella del Nord
2 - Un sogno per Cloe
3 - Odorerai di sole
4 - Eternità
5 - Filo scarlatto
6 - Abbi cura di me
7 - Come sarà
8 - Il tempo non esiste
9 - La stanza dei miracoli
I MUSICISTI:
Pamela Guglilmetti (voce)
Guido Bottaro (piano)
Maurizio Fiaschi (compositore e
direttore d’orchestra)
Paolo Zebolino (ghironda)
Filippo Pampararo (chitarra)
Emanuele Benenti (batteria)
Edoardo Berta (violino)
Emanuele Valente (contrabbasso)
Andrea Torretta (produzione)
WEB
https://www.pamelaguglielmetti.com/
https://www.facebook.com/Pamela.Guglielmetti.Artist/
https://www.instagram.com/guglielmetti.pamela.artist/
Usciva il 10 ottobre 1969 “In The Court of Crimson King”, primo album dei
King Crimson… dopo niente fu più lo
stesso!
Di tutto un Pop…
Wazza
Venerdì 10 ottobre 1969, chi si trova a passare davanti alla vetrina di un negozio di dischi, o ad entrarci come appassionato di musica, non può fare a meno di notare un disco dalla copertina senza dubbio eccezionale. Che incanta e scuote allo stesso tempo, con quel volto cristallizzato in un urlo che può essere di terrore, di disperazione, di dolore. In più, su quella copertina non compare alcuna parola: né titolo, né nome dell’esecutore. Questo per dire che i King Crimson hanno la personalità dei predestinati: che ogni passo, anche il meno ponderato in molti casi – la copertina di un disco – non è mosso casualmente o senza la dovuta determinazione.
I King Crimson non passeggiano o avanzano, ma marciano travolgendo ogni cosa. Come fa 21st Century Schizoid Man (including Mirrors) non appena messa la puntina sul microsolco. Un brano che spazza via ogni idea che si aveva – soprattutto nel 1969 – di quello che poteva essere un suono potente, hard, primordiale. Solo che qui di viscerale non c’è niente: l’energia che scaturisce dal brano attribuito a Fripp, McDonald, Lake, Giles, Sinfield – dunque collettivo, prima che Fripp si metta in tasca la sola copia delle chiavi di casa – è frutto di cerebralità certosina – oltre che perizia tecnica – fuori dal comune.
Peter Sinfield, paroliere e factotum della band, in cima alle distorsioni, ai tempi jazzati, allo sferragliare di precisione quasi extraterrestre dei compagni che a sua differenza salgono sul palco, ha messo parole altrettanto corrosive, che sono una invettiva contro la guerra in Vietnam – argomento all’ordine del giorno – e più in generale sul procedere alla cieca del genere umano diretto verso il baratro. Se tanti erano convinti che l’alba del prog rock fosse cosa da efebi, da smidollati con la testa tra le nuvole e dediti a fantasie che in musica si tramutavano in blandi gorgheggi strumentali e vocali, lo schiaffo rappresentato dal brano di apertura di In The Court Of The Crimson King deve avere scosso dal torpore parecchi ascoltatori.
Tre secondi di vuoto assordante e
giunge la seconda perla consecutiva, I Talk To The Wind, un brano che Ian
McDonald si trascinava dai tempi in cui cercava di mettere in cantiere una band
insieme a Pete Sinfield e all’allora fidanzata Judy Dyble. La versione cantata
da quella che sarebbe diventata la vocalist dei Fairport Convention è nota e
vale un Perù, ma questa con Lake al microfono è insuperabile. Anzi immortale.
Ha raccontato McDonald, polistrumentista capace di suonare con estrema perizia
chitarra, tastiere e fiati, all’inglese Classic Rock Magazine: «Una cosa della
quale sono soddisfatto è che alla fine, sotto discreta pressione, sono riuscito
a realizzare un solo di flauto molto bello. In realtà ne ho fatti due e li ho
editati insieme. Si può sentire dove passa da uno all’altro, ma non mi da
fastidio». Ma in I Talk To The Wind non c’è proprio nulla che possa dare
fastidio: e quel solo di flauto, per un pezzo che tiene il piede in molteplici
staffe, dal folk al progressive, è davvero qualcosa di cui essere fieri se ne
sei l’artefice e di cui godere all’infinito se sei un fruitore.
Chiude la facciata A, Epitaph (ancora) including a) March For No Reason, b) Tomorrow And Tomorrow, altro sforzo collettivo in fase di scrittura. In studio il pezzo è frutto di tribolazione, ci mettono 10 ore a registrarlo. Una rullata di timpani, una chitarra acustica in arpeggio, l’elettrica che dissemina poche note che si alzano come una lacrimosa voce, il mellotron che monta e allarga lo sfondo, e ancora rullate di timpani e clash di piatti come ondate di un mare in burrasca che si infrangono sugli scogli: questo l’incipit del primo brano incontrovertibilmente progressive nel DNA dei King Crimson. Ha dichiarato Sinfield sempre a Classic Rock: «Epitaph era una poesia che scrissi quando avevo la mia band. Cominciò con le parole, poi fu un vero lavoro di gruppo. Ian se venne con una idea, poi fu la volta di qualcun altro. Credo che Greg ebbe l’idea di “But I feel tomorrow I’ll be crying” che è molto nel suo stile». «Confusion will be my epitaph» è una frase che Greg Lake consegna alla storia del rock, in anticipo sul finale della seconda strofa, sul cui epilogo una scarica di mellotron spalanca le porte a March For No Reason e al lacerante strumentale Tomorrow And Tomorrow. McDonald: «Era l’uso del mellotron che portai nei KC».
La seconda facciata apre e spiazza con Moonchild including a) The Dream, b) The Illusion. Due minuti in forma di canzone, delicata, dalla melodia tenue. A seguire altri dieci di improvvisazione in punta di strumento: è l’escamotage che mette una toppa a un momentaneo vuoto di ispirazione. McDonald: «Avevamo bisogno di altra musica, dai sette ai dieci minuti. Dunque una volta incisa la traccia base, la sezione iniziale più la voce, Mike, Robert e io tornammo in studio, facemmo partire i nastri e improvvisammo per dieci minuti». Il finale riservato al brano che (quasi) intitola il disco, The Court Of The Crimson King e non sfugge alla necessità (si dice per questioni di royalties) di “includere” a) The Return Of The Fire Witch, b) The Dance Of The Puppets, suggella la sensazione, anzi consegna la certezza a questo punto, che la fine del long playing sia l’inizio di una leggenda. Firmato da McDonald e Sinfield, il magniloquente inno non fa che testimoniare l’importanza del polistrumentista per “questi” King Crimson, probabilmente i più amati.
Sinfield: «Era una specie di canzone
à la Bob Dylan, se riesci a immaginarla. Ian la prese e ne riscrisse la musica.
Aveva studiato armonia, aveva studiato orchestrazione, dunque i suoi
riferimenti non erano solo i Beatles, ma anche grandi, vaste cose come
Stravinskij, Mahler, cose che erano emozionanti. E venne fuori». Il fatto è che
se McDonald ha trasformato una canzone scarna (Sinfield ricorda:
«Originariamente aveva due accordi: Mi minore e La minore»), in stile Dylan, in
qualcosa che si potrebbe etichettata come NWOTCM (New Wave Of The Classical
Music), The Court Of The Crimson King aggiunge un ulteriore pianeta (ricolmo di
vita) a un sistema – l’intero album – che trova difficilmente eguali di pari
valore. Soprattutto se consideriamo che si tratta dell’apposizione della prima
pietra. Di una chiesa, un culto, che a distanza di mezzo secolo è più solido
che mai.
Quando il disco dei King Crimson
arriva nei negozi il progressive è già nato, anche se la definizione deve
ancora essere coniata: fino a questo punto si parla più genericamente di
“underground”. Pur non avendo un nome di battesimo, come già detto, i Moody
Blues, abilmente guidati in studio da Tony Clarke, avevano inciso qualcosa di
sufficientemente pomposo per essere visto a posteriori come progressive, per lo
meno Days Of The Future Passed (1967) e In Search Of The Lost Chord (1968). Lo
stesso dicasi per i Nice con un Keith Emerson che cominciava a strappare “oh”
di meraviglia per la strabiliante tecnica e per quel nuovo appellarsi al
vecchio della classica; i Pretty Things che hanno già inciso S. F. Sorrow
(1968) nel quale in molti vedono il primo concept album; i Procol Harum di A
Salty Dog (marzo 1969). In queste band e nei relativi lavori il progressive è
in fieri, ha una vena molto educata, sia formalmente che intrinsecamente (per
contenuto). D’altro canto ci sono band dotate di maggiore sfacciataggine: su
tutti i sottovalutati e sfortunati Family, che hanno già offerto un paio di
prove di altissimo livello: Music In A Doll’s House (1968) e Family
Entertainment (1969); i Soft Machine, che con The Soft Machine (1968) e Volume
Two (1969) propongono la loro particolare miscela tra jazz-rock e psichedelia a
dare corpo a una corrente laterale. E ancora i Colosseum, le prime prove di
assestamento degli Yes, i chimerici scozzesi Clouds ai cui concerti gli stessi
Crimson non mancavano. Senza scordare, o sottovalutare, ciò che avevano fatto i
baronetti Paul, John, George, Ringo, con Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band
(1967) citato da Bill Bruford come scintilla iniziale del progressive rock. O
quello che era avvenuto addirittura un anno prima, oltremanica, con i Beach
Boys di Pet Sounds (1966), anch’essi perfezionisti maniacali da studio come i
Beatles o i futuri Pink Floyd.
Tutto questo, e altro ancora che si
potrebbe citare, è il contorno. La pira che sta bruciando lentamente, che deve
ancora innalzarsi in una fiamma che si veda da lontanissimo. Ci pensa l’arrivo
di In The Court Of The Crimson King a gettare benzina sul fuoco. Che da quel
momento, e per almeno un lustro, avvampa come niente altro tra il 1969 e il
1974/’75. Un disco che non è stato l’inizio ma ha dato quell’accelerata che ha
permesso lo scarto in avanti rispetto a (quasi) tutto il resto del rock: i King
Crimson del 1969 hanno fatto da lepre – quella delle corse di mezzofondo – e si
sono tirati dietro il gruppone. Ma l’effetto In The Court Of The Crimson King
non si esaurisce nel breve arco della vita nel quale è maturato, e come tutte
le grandi opere (d’arte) ha lanciato un ponte verso il futuro. Basti pensare a
band composte da musicisti che potrebbero essere anagraficamente figli di
Fripp, apparentemente agli antipodi per quanto riguarda il loro agire in ambito
sonoro. I Tool non hanno mai fatto mistero della loro ammirazione per i King
Crimson, al punto da invitarli a girare in tour insieme. E che dire di Kurt
Cobain, dopo il cui suicidio è stato trovato in casa, Red, il capitolo finale
dei Crimson anni ’70? E ancora Voivod, At The Drive In,
Between The Buried And Me, Don Caballero, Kanye West (che in Power campionerà
un frammento – dal vivo – di 21st Century Schizoid Man). Ma sono tanti, più di quello che si
crede. Inutile citare gli appartenenti al progressive rock in via ufficiale: si
stilerebbe una lista lunga da qui alla Luna che venne “conquistata” nello
stesso anno dell’uscita di In The Court Of The Crimson King (che epoca!). Un
nome su tutti però devo farlo: i Genesis, che sarebbero diventati immensamente
più popolari dei Crimson, quando ancora provavano in cantina ne fecero un faro.
(Andrea Soncini)
Ostinati – "Stone Wall"
(Isulafactory)
distr. Lizard Records 2021
Di Luca Paoli
Il
jazz rock o fusion in Italia ha sempre avuto dei grandi esponenti, vedi Il
Perigeo, Gli Arti & Mestieri, Venegoni & Co, Agorà e molti altri. Tutti
questi nomi hanno avuto il periodo di maggior successo negli anni ’70, anche se
alcuni ancora oggi propongono grande musica.
Ma
questo fertile settore musicale non si ferma a quei gloriosi anni, e si rinnova
con ottime proposte anche negli ultimi periodi.
Un esempio sono i siciliani Ostinati che ci presentano un ottimo album registrato live in studio dal titolo “Stone Wall”.
Il
quintetto nasce come ensemble di esecutori di brani jazz, funk e jazz rock di
band e artisti quali Miles Davis, Chick Corea, Marcus Miller, Mike Stern, Wayne
Shorter e altri.
Ed è nel 2019 che decidono di lavorare su materiale inedito scritto da Sergio Battaglia - sassofonista della band - con arrangiamenti di tutti i componenti della formazione.
Il comune
denominatore è la l terra d’origine, la Sicilia, creando così un sound
originale che, partendo dalle fondamenta dei ‘70 e ‘80, viene attualizzato con
un suono moderno e contemporaneo.
La melodia è sempre al centro di ogni brano, ma lo spazio per l’improvvisazione e il groove rende il tutto molto più intrigante, anche per le parti più complesse tipiche del rock progressivo.
"Syncro" è il primo
singolo di Stone Wall, che la band ha rilasciato ad aprile, ed è
stato realizzato anche un cortometraggio dalla videomaker e fotografa Federica
Vero, nel quale la regista ha messo in risalto la dimensione live della band.
Il disco
si apre proprio con questo pezzo che mi ricorda molto il Perigeo per quel mood
mediterraneo che lo attraversa, con il sax che sale subito in cattedra sorretto
da tutta la band.
Le
coordinate non cambiano nella successiva “St. James Street”, dove
troviamo un notevole assolo di chitarra e poi di piano.
Notevole
la ripresa di “Speak No Evil” del maestro Wayne Shorter, un
grande brano dove il gruppo non sfigura certo, anzi ne fornisce una versione
molto sentita e piena di pathos, pur nel rispetto del pezzo originale.
Una
chitarra acustica apre “Smooth Lava”, introducendo tutta la band
per una traccia piena di groove, merito di una sezione ritmica precisa e
versatile; ottimi gli assolo di chitarra, sax e basso che svolazzano sorretti
dalle tastiere e dal piano. Mi ricorda molto certa fusion degli anni ‘80.
Aria di
festa con le percussioni ad aprire le danze di “End Of Horizon”,
ottimo il lavoro del basso che detta le sue linee
sempre con buon gusto e tecnica.
“Stone
Wall”, che intitola l’album, è attraversata da una linea melodica molto
bella: qui si sente che il jazz di matrice anglosassone si sposa con sapori
mediterranei, chiaramente molto presenti in tutto il lavoro.
Un breve
fraseggio isolato di sax apre la notevole “Runner Mode”, ma il
groove prende subito il sopravento con ancora il sax protagonista. Fusion di
classe ma non di maniera.
Una soave
base di tastiere e sax apre “Settembre”, i toni rallentano ma non
la qualità che rimane sempre alta e ci dimostra di che livello sono questi
musicisti.
Un organo
introduce la ritmata “ZU Monucu Mouse blues”, la musica del
diavolo a convivere con il funk ed il jazz... grande pezzo!
“Last Song”, sorretta dal piano, è una ballata acustica molto intensa che col suo pathos ci porta verso la fine di questo intenso lavoro che colpisce per come i musicisti siano stati capaci di portare il jazz rock e la fusion nei loro territori con un suon fresco e moderno.
Se la musica strumentale - quella che non ha bisogno di una voce umana perché egregiamente sostituita dal sax e il jazz rock di matrice progressive - é il vostro territorio, questo disco lo potete acquistare ad occhi chiusi e per tutti gli altri il mio consiglio è di ascoltarlo perché, ne son convinto ne rimarrete affascinati e lo farete vostro.
Line-up:
•Sergio Battaglia - sax
•Riccardo Drago - chitarra
•Carmelo Rendo - tastiere
•Adriano Denaro - basso
-
Giovanni Cataldi - batteria e percussioni
Contatti e Distribuzione:
Isulafactory
Lizard Records
label & managment
https://www.facebook.com/isulafactory
https://sites.google.com/view/isulafactory-info/home-page