Con la "speranza" che il prossimo anno sia
"meno peggio" di questo, vi saluto con un ricordo di Gianni Nocenzi
di un capodanno di qualche anno fa…
Cin cin
Wazza
Un pensiero di Gianni per il grande Greg Lake.
In memoria di
Gregory Stuart 'Greg' Lake
Mi girai verso
Vittorio, seduto accanto a me al banco di missaggio, e gli dissi: questo è
uno forte. Immediatamente mi resi conto della sciocchezza che avevo detto e
pensai… certo che è forte, è
Greg Lake! Era la notte di capodanno (del 74?), Air London Studios: l’emozione di lavorare con gli ascolti custom voluti da
George Martin! Greg era arrivato prima di mezzanotte con due amici e subito si
era tuffato con noi sulla consolle (all’epoca la tecnologia total recall nei mixer ovviamente
non esisteva e si missava a 4-6-8 mani, una specie di polpo gigante con 3 o 4
teste a governare switches, fader, potenziometri), velocissimo, aveva
inquadrato perfettamente il brano ed il suo arrangiamento spalmato su decine di
canali, ma il brano non girava: sconforto; eravamo come al solito in ritardo. Improvvisamente:
”Proviamo così”… fulmineo spegne il canale del basso e lascia passare
tutta la prima strofa. “Ma non si fa!”, penso sconcertato, “che ha in testa?”. Poi sull’attacco della seconda strofa commuta al volo il canale
del basso con un volume sostenuto - un’ondata di frequenze basse irrompe nel mix ed il
fraseggio del basso mette il turbo all’arrangiamento: il brano decolla come un missile! Brindisi, abbracci, ormai è l’anno nuovo e il disco è finito.
A volte sottraendo si aggiunge molto di più, una grande lezione che ancora mi
arricchisce, nelle cose di musica e non solo.
Ora c’è che sono
stanco di piangere grandi persone che se ne vanno, ho deciso di pensare solo
alla bellezza che ci lasciano. A Natale mi faccio un regalo: riascolto tutta la
Musica che ci hai regalato insieme ai tuoi incredibili compagni di viaggio.
Grazie Gregory. Riposa in pace.
“Le parole di Sinfield sono un
puzzle, un geniale rompicapo, un bellissimo mosaico di saggezza in cui ogni
tassello va girato e rigirato come in un cubo di Rubik”
Compie gli anni oggi, 27 dicembre,
Pete Sinfield,il
poeta del Prog, ma anche "acuto" produttore.
Il nome di Sinfield è generalmente
associato, innanzitutto, a quello dei King Crimson di Robert Fripp e Greg Lake.
Sinfield collaborò con il gruppo dal 1969 (anno dell'album di debutto “In the
Court of the Crimson King”) fino a tutto il 1971 (Islands), apparendo come
produttore, membro ufficiale del gruppo e autore dei testi.
In seguito, Fripp chiese a Sinfield
di lasciare i King Crimson.
Tra le varie collaborazioni, da ricordare
quella con la Premiata Forneria Marconi.
Happy Birthday Pete!
Wazza
(dalla rete)
Se consideriamo la storia travagliata
del gruppo nei suoi primi anni, è evidente come l’elemento unificante, la vera
guida dei King Crimson, non sia stato tanto Robert Fripp, che spesso all’epoca
sembra vittima passiva degli eventi, quanto Pete (Peter) Sinfield.
Un compito ben gravoso per chi si è
assunto l’onere di scrivere i testi, provvedere all’impianto luci, sedere al
mixer, curare la grafica delle copertine e perfino, all’occorrenza, caricare e
scaricare il pesantissimo Mellotron dal furgone.
ROBERT
FRIPP and PETE SINFIELD from Ciao 2001, february 1972
Diversamente da Fripp – nato in
provincia, nel Dorset, da una famiglia modesta – Peter Sinfield era il classico
esponente della swinging London, un giovane hippy innamorato dei poeti beat, di
Bob Dylan e di Donovan. Figlio di una militante di sinistra bohémienne e bisessuale
che lo porta giovanissimo alle marce della pace, ha come governante una celebre
artista circense, Maria Wallenda.
Le sue frequentazioni preferite sono
i romanzi di fantascienza, i drammi di Shakespeare, il Signore degli anelli di
Tolkien, le canzoni di Simon & Garfunkel, e ancora le canne, le mostre
d’arte, la prima musica psichedelica: è questo il disordinato ed esaltante
percorso di formazione del giovane Peter.
Strimpellando malamente la sua
chitarra ha già imbastito, ispirandosi a Dylan ma con l’orecchio attento al
“celtico” Donovan, due ballate sull’alienazione, il dominio totale di anonimi e
potenti burattinai, i rischi della guerra nucleare dell’inquinamento, quando
incontra Ian McDonald, un brillante polistrumentista che si è fatto le ossa suonando
in banda durante il servizio militare e che si offre di sviluppare quelle idee
appena abbozzate.
Mel
Collins & Pete Sinfield with PFM
From L to R: Keith Emerson, Pete
Sinfield (lyricist for ELP, King
Crimson, etc), H.R. Giger, Carl Palmer, and Greg Lake
Dicembre 1975, il Banco del Mutuo Soccorso torna in
Inghilterra per il primo tour "promozionale" di Banco IV, uscito per
l'etichetta Manticore di EL&P. Il Banco aveva registrato il disco nel mese
di febbraio 1975, presso gli "Advision Studios" di Londra, uno degli
studi di registrazione dotato di impianti più moderni. Il resto della band
torna a Roma, mentre i fratelli Nocenzi si intrattengono ancora per qualche
giorno per mettere a punto le "complesse partiture tastieristiche".
Vittorio ricorda che
durante queste prove lui ed Emerson si "lanciarono" in un duetto di
tastiere durato circa 40', in perfetto “stile Banco”: naturalmente non esistono
registrazioni audio/video/foto!
Il tour durerà due
settimane, toccando Manchester, Nottingham, Dorchester, Liverpool e Londra,
riscuotendo consensi positivi nonostante la "diffidenza" inglese verso
i gruppi italiani.
A Manchester aprirono
ai "Curved Air", ma il responso del pubblico invertì la scena,
arrivando a considerare idealmente il gruppo di Sonja Kristina "spalla"
del Banco. A Dorchester Rodolfo (complice la nebbia) si perse per le strade
della città, e salì sul palco a concerto iniziato. A Londra tennero due
concerti alla Roundhouse, e l'8 dicembre 1975, ultima data del tour, al
"mitico" Marquee.
Al loro arrivo i ragazzi rimasero delusi nel vedere
che si trattava di un locale di "modeste dimensioni", ma poi vedendo
appese all'interno del locale le foto di Jimi Hendrix, Rolling Stones, ed altri
"mostri sacri" che avevano "calpestato" quel palco, si
resero conto che stavano suonando in uno dei locali più prestigiosi al mondo.
Il concerto fu un successo, Greg Lake si complimentò con loro inviando un
telegramma di congratulazioni …
Francesco apre ricordando
agli inglesi: "Per favore, smettemola
cò sti spaghetti-rock", frecciatina a certa stampa che etichettava
così i gruppi italiani! Attaccano poi con la loro classe e potenza. Al pubblico
londinese, attonito ed a bocca aperta, non rimane che fare dei lunghi appalusi.
Tra il pubblico, tutti i giornalisti delle più grandi testate musicali e i
"colleghi" dei Soft Machine, che si complimenteranno con loro a fine
concerto!
Ladies & Gentleman, are proud to present... Banco!
WK
NOTA:
Edito anche per il
mercato internazionale dall'etichetta Manticore Records di Greg Lake e Keith
Emerson, Banco, noto anche come Banco IV ripropone una scelta di
brani dal primo e dal terzo album del gruppo tradotti in inglese dalla
musicista statunitense Marva Jan Marrow. Viene tralasciato completamente il
secondo album, Darwin!, l'unico inedito, con testi in italiano, è L'albero del
pane. Tutti brani sono stati registrati per l'occasione con nuovi
arrangiamenti, eccetto il brano conclusivo Traccia
II che viene riproposto identico all'incisione originale.
Tutti gli appassionati di prog
ricorderanno Sergio Caleca come tastierista della band milanese Ad
Maiora con la quale ha inciso due ottimi album, “Ad Maiora” del 2014
e “Repetita Iuvant” del 2016.
Nel frattempo, esattamente nel 2013,
esce il primo disco “Qwerty”, parte del suo nuovo progetto denominato Habelard2 nel quale si occupa di suonare tutti gli
strumenti delle sue composizioni facendo uso anche dell’elettronica.
Oggi, per festeggiare i 10 anni di
quel disco, Sergio Caleca ha voluto dargli nuovo smalto eliminando tutti gli
interludi presenti (che spezzavano un po’ la tensione) nel lavoro originale e
sostituendo le parti di basso campionato con quelle di basso elettrico, cambiando
anche qualche strumento ed alcuni suoni e, ovviamente, mettendo mano agli
arrangiamenti ed al mixaggio. Il risultato si chiama Qwerty 2023remix.
Inquesta nuova versione del
disco Caleca si è occupato di suonare tutte le tastiere, il basso
elettrico, le chitarre e la batteria programmata.
Chiaramente le tastiere la fanno da
padrone in questo lavoro che si muove su più fronti come il prog, l’ambient, il
jazz e la musica elettronica, risultando un disco vario e pieno di
contaminazioni.
Le undici tracce che lo compongono
sono tutte di qualità, e Caleca dimostra ottime doti compositive e strumentali.
I brani che più hanno colpito chi
scrive sono l’iniziale “Another Bishop”, che vede il protagonista -impegnato al basso elettrico e alle tastiere
- creare un sound pieno d’inventiva che naviga tra le correnti del prog
sinfonico e del jazz per la presenza del piano elettrico.
Più d’atmosfera e con la presenza
anche delle chitarre la convincente “De Refrigeriis Jugeri”, abbellita
anche dalla presenza del flauto.
Altro tassello importante del disco è
“Qwerty” (sono le prime lettere della tastiera di un computer),
la traccia che lo intitola, dove le tastiere riprendono il comando per un brano
a tratti epico con la melodia sempre presente … i ricordi volano agli anni ’70
e ’80 dei corrieri cosmici.
Una citazione per “Almanallo”
(crasi delle sigle della Rai “Almanacco del giorno dopo” e “Intervallo”) che
propone suoni attuali evidenziando le ottime doti di arrangiatore di Caleca.
Vorrei citare anche la bella e
melodica “Empty Tree”, che chiude un disco e che aveva già
convinto dieci anni fa quando uscì e che oggi, dopo il lavoro di “restauro” appare
ancora più ricco dal punto di vista dei suoni e sicuramente più attuale.
Un artista che sa osare e proporre
una musica che parte dal passato ma che atterra nel presente e che consiglio a
tutti gli amanti del rock progressivo e di musica elettronica: non perdetevelo
… sarebbe un vero peccato.
Aether, un nome che è già
di per sé un programma, una dichiarazione di intenti. L’etere concepito nella
filosofia greca come “la quintessenza”, materiale cristallino che costituiva
l’universo; Etere come dea greca che simboleggiava l’aria più pura, respirabile
solo dalle divinità e non dai comuni mortali; etereo, aggettivo che nel comune
parlare diventa sinonimo di qualcosa di talmente lieve da essere impalpabile.
Tutte queste coordinate sono perfette per
descrivere appunto la musica degli Aether, che nasce dal jazz-rock per sfociare
nell’ambient e nel minimalismo.
La formazione degli Aether comprende Andrea
Ferrari (chitarre e tastiere), Andrea Grumelli (basso e Chapman
Stick), Andrea Serino (tastiere) e Matteo Ravelli (batteria ed
elettronica). Ma francamente assegnare nomi e ruoli diventa superfluo, visto
che tutti gli strumenti tendono a essere funzionali a questo raggiungimento del
“suono puro”.
E ai primi ascolti vengono in mente gli
esperimenti di Robert Fripp, alla fine degli anni ‘70 con i Frippertronics e
negli anni ‘90 con i più digitali Frippscapes. Tutte tecnologie che questo
chitarrista adoperava per creare echi e loop infiniti, reiterando timbri e
arpeggi.
Oppure si potrebbe pensare ai Japan, che
presero le distanze dal glam-post punk degli esordi, ma anche dall’elegante new
wave della loro fase più matura, e a circa dieci anni dallo scioglimento
ripresero forma come Rain Tree Crow, con un progetto molto più devoto al
nascente post-rock.
Ecco, sì: per gli Aether si potrebbe parlare
anche di quel post-rock che negli anni ‘90 attingeva dalle jam del prog-rock
più elitario e meno barocco/sinfonico dei ‘70 e dalla ricerca sonora della new
wave più sperimentale degli ‘80 per forgiare un linguaggio nuovo. Percorso che
accomuna la band e in seconda istanza il percorso solista del leader David
Sylvian con quello dei Talk Talk e del compianto Mark Hollis, altra band che,
nel termine della sua carriera, potremmo qui prendere in considerazione tra i riferimenti.
Brani globalmente brevi, quelli degli Aether.
Raramente oltre i 4 minuti, eppure densi di “situazioni” sonore al loro
interno.
Alcuni, seppur la band sia totalmente
strumentale, appaiono persino più “cantabili” e melodici. Come “Radiance”,
che evoca quasi suggestioni trip-hop e lounge, tra Air e Massive Attack. Altri
invece decisamente più volti alla ricerca, come la opener “Echo chamber”.
Sensazioni quasi “tribali” ed etniche nel groove avvolgente di “Thin Air”.
La malinconia della dark-wave affiora in “Gray halo”, forse uno
dei momenti più suggestivi dell’opera. Il groove del jazz-rock, tra i Soft
Machine del periodo “Seven” e il Perigeo, regge le dinamiche di “Pressure”,
un altro tra i brani più “cantabili” (se così si può dire di un sound come
quello degli Aether), mentre “A gasp of a wind” parte in modo
estremamente “sottile” per poi affidarsi a un maestoso crescendo. Territori di
sperimentazione sonora sono quelli esplorati in “A yellow tear in a
blue-dyed sky”; mentre “Moving away”, dopo una partenza
affidata quasi alla sola chitarra, cresce pian piano fino a deflagrare in un
efficace e melodiosissimo prog-jazz-rock, a tratti dalle tinte quasi funk nella
sua ritmica pulsante, per poi chiudere il suo percorso con divagazioni ai limiti
del rumorismo tastieristico che, in un successivo crescendo, ci riportano al
tema centrale. “The shores of Bolinas” è un altro viaggio ai
confini dell’ambient. “Crimson fondant” è un chiaro omaggio alla
band di Robert Fripp, con riff su tempi dispari di piano Fender Rhodes e di
chitarre devote alla fase di “Red” e di “Larks’ tongues in aspic” della band di
riferimento. Su tutto ciò si mette in luce in modo particolare il basso, con un
gran lavoro sia di accompagnamento sia, a tratti, di primo piano. E si chiude
con “This bubble i’m floating in”, altro gran lavoro di ricerca
sulle potenzialità espressive dei singoli strumenti, costruito soprattutto su
stratificazioni di arpeggi chitarristici.
Musica indubbiamente di non facile
assimilazione, che non può mai essere relegata a ruolo di sottofondo ma che
impone la massima concentrazione, in un’esperienza di ascolto immersiva e
totalizzante.
La prima presentazione del
libro “1973 – L’anno cruciale della musica
raccontato in 73 dischi leggendari” di Enrile/De Negri/Pintellisi
è tenuta il 17 dicembre a Genova, presso Disco Club, nell’ambito dei festeggiamenti per il 58°
compleanno dello storico negozio di dischi della città.
La struttura all’esterno del locale
ha visto la presenza di un numero di persone interessate all’argomento trattato
dal libro.
Sempre perfetto nel ruolo di
conduttore Riccardo Storti, saggista e divulgatore musicale genovese,
che ha interagito con Angelo De Negri (in rappresentanza dei tre
curatori), Mauro Costa, Antonio Pellegrini e Luca Nappo,
tre degli oltre trenta recensori dei dischi racchiusi nel corposo volume
pubblicato il 24 novembre scorso dalla casa editrice Arcana.
Con in sottofondo le note dell’album
“Selling England by the Pound” che provenivano dal negozio, si è
presentata la genesi del lavoro, la struttura del libro e si è motivato il
perché dell’importanza del 1973 per la musica.
Preziosi gli interventi dei tre
recensori che hanno citato gli album rispettivamente recensiti ed approfondito
uno di questi.
Si è pertanto parlato di ZARATHUSTRA
del Museo Rosenbach (Costa), QUADROPHENIA degli Who (Pellegrini)
ed ATEM dei Tangerine Dream (Nappo).
Piacevole l’intervento del
proprietario di Discoclub, Giancarlo Balduzzi, che rispondendo, come nel
capitolo presente nel libro, alla domanda “Ma tu, dov’eri quando usciva DARK
SIDE” ha descritto l’atmosfera che si viveva in un negozio che all’epoca
aveva otto anni di vita.
Finita la presentazione c’è stato
spazio per una piacevole interazione con il pubblico presente che
dall’argomento trattato nel libro ha spaziato verso parallelismi e convergenze
con la musica classica nati dalla domanda su quali possono essere i modi per
avvicinare i ventenni di oggi alla musica di cinquant’anni fa.
Una bella esperienza di condivisione
ed approfondimento musicale che sarebbe bello ripetere in tutti gli ormai rari
negozi di dischi rimasti nel nostro paese.
Per concludere, un caloroso
ringraziamento a Giancarlo Balduzzi che ha permesso la realizzazione di questo
piacevole evento.
Può esistere “il disco perfetto”?
Forse sì. Come si potrebbe definire un concetto archetipico di “disco
perfetto”?
Un disco è perfetto quando è
prodotto divinamente, quando suona divinamente, quando è cantato divinamente.
Ma, al di sopra di ogni altra cosa, quando pone la scrittura al primo posto.
Si può parlare di “bella
scrittura” quando una canzone arriva direttamente al cuore ma non è banale,
quando cattura l’attenzione ma non è mai “facilona”, quando senti che la mente
e il cuore hanno raggiunto un loro equilibrio, tanto delicato ed impalpabile,
quanto ineccepibile.
Un disco è bello quando ogni sua
canzone ti regala l’emozione di un “ritorno a casa”, eppure al tempo stesso non
sa di già sentito; quando, appena uscito, ti fa venire la tentazione di
ascoltarlo tre volte di fila, nonostante una importante durata di circa 70
minuti, e non ti stanca. Questo grazie anche a una sapiente alternanza di brani
lunghi, finanche lunghissimi, e canzoni più brevi e immediate.
Anzi, quando finisce sei un po’
triste; ti viene voglia di farlo ripartire da capo, perché ti ha lasciato
quelle sensazioni nel cuore che sono un misto di commozione, di euforia, di
entusiasmo, di malinconia, di gioia e di amarezza. Senti tremendamente “tuoi”
tutti quei suoni.
E allora lo rimetti da capo e a
ogni ascolto ti sembra di scoprire dei dettagli che la volta prima non avevi
notato. Ma non cambiano solamente i dettagli, cambiano anche le emozioni. Ogni
ascolto è un’esperienza diversa e tutta nuova.
I Moon
Safari sono svedesi, ma in questo “Himlabacken,
Vol. 2” non lo dimostrano affatto. La produzione sonora, così
“grossa”, solenne, magniloquente, fa pensare al nuovo prog americano. E infatti
non è un caso che il mixaggio finale sia avvenuto ad opera di Rich Mouser
presso la sua “Mouse House” di Los Angeles, in California, colui che ha
lavorato con nomi del calibro di Spock’s Beard, Dream Theater e Transatlantic.
I Moon Safari celebrano in questo
2023 il ventennale di carriera, essendosi formati appunto nel 2003. Ma in
questo lasso di tempo hanno sfornato solo cinque album e, in particolare, son
passati ben dieci anni esatti dalla pubblicazione del “Vol. 1” con lo stesso
titolo, datato 2013.
Che siano maniacali nel curare
ogni dettaglio si sente. E con questo “Himlabacken, Vol. 2” non hanno
lasciato proprio niente al caso. Tutto è ineccepibile.
Il sound fa pensare, per prima
cosa, agli Yes. Ciò avviene sia per il grandissimo amalgama tra le voci e per
gli abbondanti interventi corali (quasi tutti i componenti sono anche cantanti
solisti), ma anche per un certo modo di far “ruggire” l’organo e “urlare” il
Minimoog. Ma i Moon Safari sono tutt’altro che derivativi. Al contrario: il
loro “cocktail”, complice anche questo suddetto songwriting azzeccatissimo in
ogni canzone, senza cali di tensione e senza riempitivi, si rivela a dir poco
eterogeneo. A partire dall’esplosione di “198X (Heaven Hill)”,
brano dichiaratamente AOR che nei riff di synth e chitarra fa pensare a Van
Halen (sempre “condito” di Yes nelle parti vocali); i circa 11 minuti di “Between
the devil and me” alternano momenti di puro metal-prog con altri più
intimisti e malinconici i cui giri piano/chitarra e le melodie vocali ci
riportano agli anni d’oro dell’Alan Parsons Project, con un pizzico della
“radiofonia” di Journey e Foreigner.
Nei tre minuti del singolo “Emma,
come on” la band condensa cori e virtuosismi tastieristici degni degli
Yes periodo “Going for the one” ma anche delle tracce più ispirate degli Styx
guidati da Dennis Deyoung, ancora in un saporito incontro tra prog e
arena-rock.
“A lifetime to learn how to love” è la classica
“ballad”, più romantica ed intimista, ma con un “monumentale” epico finale che
deflagra come una esplosione; c’è qualcosa di mistico, quasi di sacrale, nei
due minuti di “Beyond the blue”, che in fondo servono quasi
soltanto a introdurre nel miglior modo possibile la successiva “Blood
Moon”. Questa traccia rientra di nuovo nei titoli “cantabili”, un vero
“inno” agli anni ‘80 tra arpeggiatori di tastiere, bass-synth, tamburi filtrati
elettronicamente, chitarre con l’octaver che sembrano sfornate direttamente da
Brian May dei Queen e melodie cantate che evocano Supertramp ed Electric Light
Orchestra.
Tutto ciò è solo un “aperitivo”
che ci porta verso gli oltre venti minuti della suite “Teen Angels meets
the Apocalypse”. E qui c’è dentro tutto: un tema introduttivo di rara
bellezza giocato tra pianoforte, tastiere orchestrali e chitarre, un
indurimento con unisoni di basso e chitarre prog-metal, organi liturgici che
“duellano” con Hammond più rock, dal quinto minuto una coralità vocale
squisitamente “radiofonica” anni ‘80, dagli Eagles ai Chicago, melodie cantate
che richiamano il più nobile cantautorato, quello di Al Stewart, di James
Taylor, di Christopher Cross, preziosismi di chitarra acustica, ma attorno al
nono minuto il pianoforte ossessivo sulle note basse offre la sensazione che
Keith Emerson abbia appena incontrato i Dream Theater sul suo cammino (complice
il gran lavoro della chitarra e della sezione ritmica); e dal tredicesimo
minuto… Arrivano i Beatles! Proprio loro! Potevano mancare a sì ricco
banchetto? Clavicembali psichedelici, coretti cosmici, organi sontuosi, ottoni
barocchi verso un finale orchestrale che mozza letteralmente il respiro in
gola.
Credete che a questo punto i Moon
Safari abbiano dato tutto? Abbiano dato il massimo? Ancora no. I 10 minuti di “Forever,
for you” commuovono fino alle lacrime. Chitarre acustiche e pianoforti
si rincorrono nel costruire melodie meravigliose, ancora un pizzico di Beatles
nelle voci, fino ai crescendo corali che profumano quasi di musical di
Broadway, e persino un inatteso sax “scippato” ai Supertramp, mentre il
Minimoog e l’Hammond regalano sonorità care a Rick Wakeman.
Fino a giungere così al finale di
“Epilog”, unica traccia in lingua svedese di tutto il disco:
pochissimi tocchi di chitarra classica e di pianoforte giusto per fare da
contorno a un organo da cattedrale e, ancora una volta, a un pazzesco lavoro
corale.
Oggi 8 dicembre 2023 esce Réverie,
album di Markus Stockhausen e Luca Formentini, prodotto dalla sempre ottima
Dark Companion Records di Max Marchini. Ecco, nelle sue parole, la genesi di
questo notabile lavoro:
“Luca e Markus iniziarono a suonare
insieme nel 2005, quando Markus formò un ensemble internazionale per esibirsi
al festival I Suoni delle Dolomiti. Un anno dopo si esibirono in quintetto al
St. Maternus di Colonia, in Germania, registrando un album dal vivo, che avviò
il progetto chiamato "Flowers of Now" (Musica intuitiva a Colonia,
etichetta Horus, 2008). Successivamente Markus suonò in due brani di Luca’s
Tacet (Extreme Records, 2008) e nel doppio album Songs/Signs del progetto Flos
di Luca con Stefano Castagna (Ritmo&Blu, 2018). Seguirono altre esibizioni
dal vivo. Il 9 luglio 2021 Markus fece visita a Luca, mentre era in viaggio per
alcuni concerti nel centro Italia. Si sistemarono nello studio di Luca e
registrarono un set completamente improvvisato, dove nulla era stato
precedentemente arrangiato o concordato. L'intero set è catturato su questo
album: quattro take senza sovraincisioni. La musica riflette l'incontro di due
diverse storie musicali, in cui ogni musicista reagisce all'altro in un continuo
flusso di ispirazione, tensione e rilascio. La loro dedizione all'ascolto
reciproco è tangibile e tuttavia continuano a mantenere la loro presenza
personale: chiamare o rispondere e muoversi insieme in territori sconosciuti.
Puoi quasi afferrarlo il loro stupore per il panorama sonoro in evoluzione,
nonchè imprevedibile. Suoni acustici si intrecciano con parti elettroniche in
costante esplorazione con la spontaneità di una composizione intuitiva. Dalla
musica emergono un profondo senso dello spazio e atmosfere oniriche, le
dimensioni di ampiezza, profondità e il tempo sembra dilatarsi.”
Sostanzialmente ci troviamo al cospetto di un dialogo intimo e
totale fra due mirabili musicisti, in cui sono le anime ad esprimersi tramite i
suoni generati. Un fiume in piena la cui portata va di pari passo coi picchi
emotivi che Markus e Luca riescono a raggiungere insieme. Dream Talk, primo passaggio, riflette in pieno la fotografia di
copertina, in cui il paesaggio si fa soffuso e nebbioso e sospeso, dove nulla è
sinistro, ma piuttosto che emana calma interiore e invita al rilassamento. Le
linee melodiche offerte sono una calda coperta che abbraccia per armonia. Spirits Everywhere, meno accomodante
della traccia precedente, è fatta di tensione e inquietudine; sentori comuni e
normali (ma non normalizzati) quando si è circondati da chi non c’è più
fisicamente, ma che resta ed esiste sotto altra forma. Sta a noi riprendere e
riportare il dialogo con essi, anche grazie all’aiuto di sonorità che emergono
dalle profondità dei due artisti. Walking
in Dream Land, ossia dove l’immaginario e l’irreale trovano casa. Tromba e
chitarra con echi dolci ma al tempo stesso dirompenti, come se il camminare
fosse una condizione troppo terrena e banale da svolgere. Qui si veleggia, più
che altro, in un mondo parallelo fatto di colori vivissimi e dove anche il buio
ha un brivido di luccicanza. Nemmeno gli occhi servono per vedere ciò che
abbiamo in noi (e troppo spesso ce ne dimentichiamo). Night Birds, ultimo passaggio: la Natura non dorme mai, e quando si
riposa una parte di essa, ce n’è sempre un’altra a tenere sveglio il futuro.
Markus e Luca ne ricavano una fotografia dinamica, in cui la convivenza
artistica raggiunge una vetta chiamata unione. Corpi liquefatti a formare
un’entità univoca.
Un disco, insomma, da mettere in loop nelle vostre giornate
felici, come in quelle tristi. Eleverà le prime e aiuterà a risolvere le seconde.
E questo non ha prezzo.
Tracklist:
1. Dream Talk 10:01
2. Spirits Everywhere 09:49
3. Walking in Dream Land 07:25
4. Night Birds 10:14
Music
composed by Markus Stockhausen and Luca Formentini
Produced
by Max Marchini
Markus Stockhausen: Trumpet, Flugelhorn and Voice
Luca Formentini: Electric Guitar, Synth, Sampler
and processing
Recorded
live on July 9th, 2021 in Selva Capuzza, Desenzano del Garda, Italy
Mixed by
Luca Formentini
Mastered
by Alberto Callegari @Elfo Studio, Tavernago (PC), Italy
Photography:
Franz Soprani, except page 4 by Manuela Esquilli; pages 5-6 by Lia Pironi
Cover graphics by Max Marchini with Markus Stockhausen
Canzoni, nuovo lavoro in
studio del cantautore, poeta e ora anche scrittore (ha appena pubblicato, nel
novembre 2023, il romanzo Una vecchia valigia, NeP Edizioni) Giovanni
Luca Valea,
accende i riflettori su una voce, nell’accezione ampia del termine, veramente
particolare dei nostri tempi. Valea è un cantautore vecchio stampo, se così si
può dire, nel senso che ha la coscienza del peso della parola cantata, lo
sopporta sulle sue spalle come un carico a volte gravoso ma necessario. Amore e
politica, rabbia e vendetta non sono temi facili da affrontare, specie se
sviscerati con lo spessore della mente e vestiti dalla penna fenomenale di
Valea, che è poeta a tutti gli effetti; poeta della responsabilità civile e
sociale, poeta di un’umanità che soffre, si arrabatta, cerca salvezza.
(Dimmi dei tuoi
sogni, dei tuoi capelli lisci, delle stelle che ti cresci, se ancora un po’ ti
vergogni…Sotto la costellazione del cane profughi e campi libici, e ancora un
vento d’amore: le speranze come cimici; soltanto tu con in mano un fiore, il
tuo nome è ciò che rimane sotto la costellazione del cane).
Sicuramente vincenti
le collaborazioni con il compositore Nuccio Corallo e con il musicista e
arrangiatore Salvatore Papotto, che impreziosiscono un album profondo,
autentico (anche in qualche imperfezione vocale, volutamene non corretta) e
controcorrente. Classicismo e contemporaneità sono i due poli opposti entro i
quali Valea oscilla, confezionando canzoni intimiste e sociali, modernamente vintage.
Menzione di merito
per “I mulini del Signore”, una canzone ma anche una lezione di letteratura, e
per la suggestiva “Le navi al tramontare” (musica firmata da un Nuccio Corallo
in grande forma). “La Costellazione del cane”, singolo di lancio, del quale
abbiamo citato sopra alcuni versi, commuove e fa riflettere.
Andrea
Orlando – “La scienza delle stagioni” (2023)
Autoproduzione
Data
di Pubblicazione: 19 Ottobre 2023
di
Alberto Sgarlato
Sono passati ben cinque anni (era
il 2017), quando Andrea Orlando deliziava
le orecchie degli appassionati di rock progressivo con l’eccellente esordio
solista intitolato “Dalla vita autentica”.
In realtà, però, il suo nome era
già ben noto agli appassionati del genere. E non solo quelli italiani, ma anche
a livello internazionale, grazie a diversi tour di successo e alla
partecipazione a festival musicali di rilievo con diversi gruppi.
Infatti, Andrea Orlando ha
militato e milita come batterista in alcune band della “nuova scena
progressiva” genovese, avendo fatto parte in periodi differenti dei Finisterre,
de La Maschera di Cera, de La Coscienza di Zeno, oltre al tributo genesisiano
Real Dream.
Nelle sue opere soliste (stiamo
per andare a prendere in esame la seconda), però, l’Orlando Curioso (Nel senso
di curioso di esplorare sempre nuovi linguaggi musicali) non si districa
soltanto tra fusti, pelli, piatti e percussioni ma si rivela valente tastierista,
oltre che autore di testi e musiche e raffinato assemblatore e arrangiatore del
tutto.
Insomma: abbiamo capito che Andrea
Orlando nel tempo si è fatto apprezzare e “voler bene” come musicista ma anche
come persona e lo dimostra il ricco elenco di musicisti sempre lieti di
collaborare con lui.
In questo nuovo “La scienza delle stagioni”, uscito il 19
ottobre, le tracce cantate sono tutte affidate a Meghi Moschino (cantante dei
Quanah Parker e docente di canto); tra gli ospiti troviamo una parte
significativa di esponenti della scena progressiva ligure e non solo: le
chitarre di Stefano Marelli (Finisterre), Pierenzo Alessandria (degli Spectral
Mornings, tributo hackettiano) e Laura Marsano (La Maschera di Cera); il basso
di Pietro Martinelli (jazzista dall’elenco di collaborazioni smisurato); il
Moog di Agostino Macor (La Maschera di Cera); il pianoforte di Luca Scherani
(citeremo solo la Coscienza di Zeno e Hostsonaten, ma siamo nuovamente di
fronte a un artista dal curriculum vastissimo) e quello di Boris Valle
(Finisterre); un ospitata al basso di Fabio Zuffanti (musicista, scrittore,
articolista… Un nome che ormai non ha più alcun bisogno di presentazioni!) e
svariati musicisti classici impegnati agli archi e ai fiati. Su tutto questo,
ovviamente, domina la scena Andrea Orlando tra batteria, percussioni intonate
(glockenspiel), organo, Mellotron, clavicembalo e sintetizzatori.
Orlando cura anche la grafica (con
foto di copertina di Ilaria Paderi) e la produzione (con missaggio e mastering
di Rossano Villa).
Un album frutto di un lungo e
complesso lavoro, quindi: tanti ospiti, arrangiamenti curati in ogni dettaglio
e circa un anno di registrazioni (da novembre 2022 a settembre 2023) in due
studi diversi.
E il risultato è quel prog di alta
classe a cui già Orlando ci aveva abituato.
Nel suo curriculum abbiamo parlato
del prog “neo-classico” de La Maschera di Cera, del sound estremamente
complesso de La Coscienza di Zeno, della sperimentazione tra new-prog e
avanguardie dei Finisterre e del tributo ai Genesis. Quindi possiamo aspettarci
tutte queste influenze nel sound de “La scienza delle stagioni”? Non
proprio. Orlando ci ha ormai abituato a una sua cifra stilistica molto
personale.
A cominciare dalla partenza
energica di “Ancora luce”, che alterna brusche variazioni tra arpeggi
pianistici, tappeti quasi impalpabili e unisoni tra riff chitarristici e
sezione ritmica quasi hard-rock. E lo stesso avviene con le melodie cantate del
brano, ora sorrette da momenti più epici, ora più delicati.
“Tracce” accarezza – seppur
remotamente – il jazz-rock, con splendide linee chitarristiche costruite su un
solido lavoro tra basso in primo piano e armonie di piano elettrico, riservando
al cantato uno spazio minore rispetto ad altri momenti del disco.
“Il sogno di Anastasia” è
un titolo spezzato in due parti, non consecutive ma che vanno a posizionarsi in
momenti diversi del disco. Ed è forse il momento più legato al “vintage prog”
dell’intera opera, tra ricami di organo dal timbro percussivo e momenti
pianistici a ritmi serrati che richiamano al Banco del Mutuo Soccorso e
chitarre arpeggiate al sapor di Pfm. I tocchi del Moog fanno persino pensare a
certe colonne sonore di produzioni cinematografiche e televisive italiane
d’epoca. Tutto fino al massiccio crescendo finale della seconda delle due
parti.
Il prog più “sanguigno” e
“proteico” si rifà nuovamente strada nello strumentale “City 40”, con
duelli tra chitarre, organo, pianoforte e violino in odor di Kansas e di
Pavlov’s Dog.
“Stagione lontana” (con
ospite Zuffanti) è invece il capitolo più vicino al dark-prog, grazie alle
melodie estremamente struggenti costruite dai tappeti di archi e di legni del
Mellotron, fino a vari momenti in crescendo che oscillano tra i King Crimson di
“Starless” e, ancora una volta, atmosfere da colonna sonora.
Come Orlando già ci ha abituato
con il precedente “Dalla vita autentica”, anche in questo caso la traccia
conclusiva, intitolata “La strada del ritorno”, è una suite che supera
il quarto d’ora di durata.
E, in questo caso, grazie a un
significativo dispiegamento di legni, ottoni e archi, è anche il brano
dall’arrangiamento più complesso. L’introduzione pianistica serve ad “aprire la
strada” verso una ricchezza di sfumature sonore ammirevole, tra momenti più
delicati, riff chitarristici e crescendo più drammatici, in una “summa” delle
varie cifre stilistiche incontrate nel disco.
Concludendo: un’opera che
soddisferà chi già aveva apprezzato l’esordio solista di Andrea Orlando ma
anche chi si approccia per la prima volta con questo disco alla scrittura del
polistrumentista genovese.