Luci spente a Sanremo
ovvero,
la farsa di chi vuole raccontarci
che la bellezza non è un martello ma uno specchio.
C'è passato chiunque. Direttamente da altri lidi e con esibizioni
non meno che memorabili, tanto in positivo che in negativo: Louis Armstrong,
Ray Charles, Madonna, Peter Gabriel, David Bowie, Antony, Kula Shaker, Skunk
Anansie, Rufus Wanwright, Dee Dee Bridgewater, Whitney Houston, Cat Stevens,
Placebo, Elton John con Ru Paul (!), Phil Collins, Jamiroquai, Rod Stewart,
Bruce Springsteen, i Blur, Jimmy Page & Robert Plant, i R.E.M.. Ma ancora
Dire Straits, Queen, Kiss, Van Halen, Depeche Mode, Paul McCartney, Def
Leppard, George Harrison, INXS, Joe Cocker, Paul Simon, The Smiths, Barry
White, Grace Jones, Asaf Avidan, Caetano Veloso, Marianne Faithfull, Shirley
Bassey, Dionne Warwick e qualcuno di loro si è persino prestato al gioco della
“gara” (Graham Nash in gara con gli Hollies...). Contrariamente a quanto si è sempre
raccontato, i cantautori, non ne sono stati poi così distanti: Dalla, Battisti,
Battiato, Modugno, Paoli, Tenco, Gazzè, Samuele Bersani, Finardi, Avion Travel,
Roberto Murolo, Cocciante, Jannacci, Rino Gaetano e laddove non sono arrivati i
piedi è arrivato l'inchiostro: De Gregori, Fossati, Conte, solo per fare qualche
esempio, oppure la più serena possibilità d'essere ospiti: Bennato, Baglioni,
Venditti, Luciano Ligabue.
Ennio Morricone c'è transitato
trasversalmente come arrangiatore.
Si sa, ci sono state le grandi voci,
soprattutto: Mina, Milva, Mia Martini, Alice, Giuni Russo, Elisa, Petra Magoni,
Antonella Ruggiero, Giorgia ma anche i timbri “di carattere”: Carmen Consoli,
Patty Pravo, Mannoia, Vanoni, Amalia Grè, Malika Ayane, Loredana Bertè, Rossana
Casale.
Platea per il beat nostrano (Ribelli,
Equipe 84, Rokes, Giganti), è stato campo di battaglia per urlatori: Al Bano,
Claudio Villa, Renga, Anna Oxa, Fausto Leali, ma anche per l'art rock:
Elio e le Storie Tese, Quintorigo, Le Orme, Delirium e per il post punk dei
Decibel e Denovo.
Certo poi ci sono stati i “fenomeni di
massa”: Celentano, Zucchero, Vasco Rossi, Ramazzotti, Pausini (e tra gli ospiti
Duran Duran Vs Spandau Ballet, Thake That Vs Spice Girls) ma per arrivare a un
pubblico più esteso hanno avvicinato quel palco anche Afterhours, Marlene
Kuntz, Bluvertigo (assieme a tutta la scena electro pop dei '90, dai Soerba a
La Sintesi ai Subsonica) e poi il jazz con Stefano Di Battista, ma se
includiamo anche gli ospiti, Bollani, Danilo Rea...
Cos'è oggi questa mostruosità nei riguardi
della quale Enzo Biagi e Pier Paolo Pasolini hanno lanciato anatemi? Cos'è
questa cosa attorno a cui girano milioni di euro in tempi in cui “un giorno
dopo l'altro” arrivano notizie di suicidi per crolli economici? Questa cosa
dove ci si gioca la carriera, dove si va per dimostrare che si sopravvive, in
politica, in spettacolo, in qualche modo... Una cosa assai seria. E seriamente
ne tratterò.
Sanremo è l'ultimo, disperato avamposto
S.I.A.E., una delle poche possibilità per il monopolio di alcune label
di tirare i remi in barca in piena crisi, ma anche e proprio per questo, in una
nazione così pigra come la nostra e disposta esclusivamente a lasciarsi
indottrinare da un suono che attraversa senza (apparentemente) lasciar traccia,
un ritrovo voyeurista attorno ai pochi pregi e ai tanti difetti del
nostro nevrotico e scoraggiante “essere/apparire/sperare d'essere riconosciuti
a guisa di una proiezione ideale di sè”.
Si, perché nulla di nuovo al di fuori di
piccoli ricamini attorno ad una forma canzone secolarizzata è stato fin qui
possibile, se non, grazie anche ad un signore di nome Fabio Fazio che
importanti cortocircuiti rese possibili nelle prime edizioni da lui condotte,
portando sul palco gente come i già citati Avion Travel, Quintorigo e il
contestatissimo Fabrizio Moro di “La Croce”.
A Sanremo, come nel paese del “che rimanga
tra noi”, piccoli cambiamenti sono possibili, purché piccoli siano, ma capaci
di sedimentarsi nelle coscienze (ma quel cortocircuito dell'apparizione
dell'allora band di John De Leo fu grande e pari la vittoria degli Avion Travel
quanto quella “Croce” che si, era out of contest, ma davvero “contro”).
Nell'Accademia di canto dove il sottoscritto ha insegnato a Monza negli scorsi
anni, Antony e Asaf Avidan erano improvvisamente diventate “le” Voci da seguire
e il cui carattere imitare e non certo per via di quello che noi insegnanti
“passavamo” come messaggio ai ragazzi, ma come quello che loro portavano a noi.
Un miracolo di “mamma TV”, ma di quelli benvenuti.
Mi chiedo dunque, quale peso possa avere
un'edizione penosa come quella appena passata.
Per carità, Fazio ha centrato l'obiettivo
appieno portando sul palco dell'Ariston un grandissimo Rufus Wainwright, con
un'esecuzione da brivido di “Cigarettes and chocolate milk”, ma il pubblico
(ridicole contestazioni a parte) non se l'è rifilato di striscio preferendo
alla sua classe e a quella della direzione d'orchestra agilissima di Diego
Matheuz con la Filarmonica della Fenice, un Renzo Arbore da siparietto,
incapace di far ridere, banale, volgare. Ma non era questo Festival un omaggio
alla bellezza?
Il monologo della Littizzetto, quanto
quello di Crozza han fatto luce sulla questione, facendo sorridere, ridere,
riflettere, ma si sa, la commedia imperversa e domina solo laddove gli imperi
si sfaldano e non è certo bastato un Cat Stevens, duro e puro, maudit
illuminato e commovente a riparare l'imbarazzo, trasformato in autentico
terrore, davanti alla performance di una Franca Valeri che grande è stata,
un tempo, ma... tant'è e non ci si può far più niente, duole dirlo.
La bellezza può trasformarsi in cenere, che
onesta è, ma anche in uno specchio impietoso e vedere la Carrà che balla
cantando delle idiozie mai udite prima non è neanche divertente, è terrorismo
puro. Saperla a cavallo di una motocicletta a ricevere il testimone da Piero
Pelù mi toglie il sonno, per favore fermatela! La RAI chiude (apparentemente)
le porte a Mediaset e niente giovani da Amici, per fortuna, ma di fatto X
Factor con la presenza del “giudice” Arisa e Noemi a rappresentare “il
testimone” passatole a sua volta da donna Raffaella (anche l'appello per i
Marò?... E poi?) per The Voice, ha portato un adeguato tasso di
autoreferenzialità e di musica davvero vecchia e brutta. Non solo, questo come
nessuno, è stato il Festival delle voci che si cantano addosso, imbevute di
raucedine come se un cattivo orco fosse passato a seminar polipi sulle corde
vocali vere e a lasciar vive solo le false, spinte all'inverosimile nel
tentativo di imitare, ad esempio, Mia Martini, mentre le dita si rifiutano di
suonare le note giuste di un piano, almeno loro, a dire “Noemi, per carità
fermati anche tu, che non basta un viaggio a Londra a farti interprete”. Ma
mica solo lei, ah no! Si è dovuto
aspettare Gino Paoli per ascoltare un interprete non vero, di più, con un
impagabile Danilo Rea al piano. Per commuoversi, senza urla e merletti appresso
ad una secchissima versione di “Vedrai, vedrai” e una ancora più bella di
Umberto Bindi, “Il nostro Concerto”. Questa è classe che vive ancora, è
bellezza, ma c'è bisogno anche di nuovo, c'è urgenza di nuovo per non affondare
nella difesa della memoria anche quando è diventata stantia, maleodorante.
E'invecchiata anche la grande Ruggiero (Battiato scriverà mai qualcosa per lei?
Una vacanza dalla penna ingiallita di Colombo non potrebbe che giovarle
regalando classe su classe). L'ex Matia Bazar, dopo un'esibizione davvero
scadente nella prima serata, terribilmente legata, attenta all'impostazione, si
è saputa ricollegare all'anima e regalare una versione incantevole di “Una
Miniera” dei New Trolls (come dire, tutto in famiglia, appunto...) assieme ai tablet
dei Digiensemble Berlin. Il pezzo che ha portato in finale è cresciuto di sera
in sera, ma l'arrangiamento... Tutto in famiglia ancora con Ron e la sua
versione superba (davvero uno dei picchi dell'edizione) di “Cara” di Lucio
Dalla e ancora tutto in famiglia con Cristiano De Andrè. Nella sua idea di
bellezza sempre più chiara in quanto a “specchio”, Fazio, non ha mai negato la
sua preferenza per un brano del Festival, quell' ”Invisibili” di De Andrè Jr, a
cui è andato, com'era ovvio, il Premio Sergio Bardotti come miglior testo e
anche il Premio Mia Martini, ma che in quanto a musica … (un caso che la sigla
del Festival fosse un brano di mamma Dori Ghezzi, con Wess? Tutto in famiglia,
appunto). Il meglio che Cristiano ha fatto al Festival è stato cantare, alla
stessa maniera del padre, “Verranno a chiederci del nostro Amore”, commovente,
certo, ma davvero poco, anche se nessuno credo gli porterà via un Premio Tenco
quest'anno, al quale, s'è detto, verranno dati più soldi dopo il rischio
chiusura e che ormai dubito questo benedetto specchio di cui continuo a parlare
potrà infrangere. Si, perché non basta “fare” i cantautori per esserlo, non
basta “fare” i cantanti per esserlo, bisogna prima “essere” e il fare arriva
naturalmente e nessuno ci ridarà De Andrè padre, nessuno ci ridarà Tenco, anche
se il Premio a lui dedicato viene dato a “Baccini canta Tenco” (bah...), che
monumento a quello specchio di cui sopra è e rimane. Ma il nuovo, accidenti,
dov'è? Ad ascoltare i cantanti in rassegna sembra di essere ad un programma di
Carlo Conti dove ognuno imita qualcuno e Conti imita sé stesso, ebbene, qui i
cantanti recitano ciascuno il proprio ruolo senza lasciare trasparire un minimo
di emozione vera, questa è imitazione di bellezza, ma la bellezza ha bisogno
solo di manifestarsi, anche quando è buio profondo ed è sgradevole a guardarsi
come un danzatore (Dergin
Tokmak) che
sfida il suo handicap volando sulle stampelle, punto. Ma non bastasse, ebbene
si, ci sono anche gli imitatori di altri! Raphael Gualazzi che a sentirlo
sembra Pino Daniele ad esempio, nonostante il brano portato in finale, sia a
mio avviso il più centrato della rassegna (dopo “1969” di The Niro, comunque
superiore) grazie all'accoppiata con un divertente e capace The Bloody Beetroots a cui molto
auguro in termini di fortuna. Dovendo votare il brano opterei per un sufficienza
piena, notevole arrangiamento e gran coro gospel, bel ritornello, quasi un
Battisti americano in salsa techno. Curiosa la rilettura di “Nel blù dipinto di
Blù” con Betroots, ohps, “Sir Bob Cornelius Rifo”, questo il suo “non
pseudonimo”, (qualcosa mi dice che il ragazzo, di solida formazione classica,
possa conoscere Sir Brian Peter George St. John le Baptiste de la Salle Eno ed
è un bene), felicemente anche alla voce e un Tommy Lee (!! Da non crederci, ma
è Sanremo...) davvero impacciato nel dover tenere uno swing senza dover
sfasciare i piatti (e conseguente occhiataccia di Gualazzi ad un bel solo di
piano). Ma in quanto ad imitatori, non scherza la band di Rossano Lo Mele, il
neo-direttore di Rumore, gloriosa rivista rock (fondata dall'altrettanto
glorioso Vittore Baroni), i navigati Perturbazione che in questa chiave,
sinceramente inedita, sembra emulare alla perfezione (e non è un merito)
l'ironia colta quanto leggera di Max Gazzè, con una voce meno interessante e un
violoncello solo a far scena/specchio. Ovviamente, Premio/specchio della Sala
Stampa... che dire? Che quantomeno la band poteva fare a meno d'ammazzare De
Gregori assieme a Violante Placido. Le band si sciolgono e ci lasciano in
eredità i cantanti, perché così, in tempi di crisi si risparmia a fare un tour
ed eccoci qui, dopo il crollo di Giovanardi dei La Crus nel 2011, eccoci ancora
con l'ex Timoria Renga e il suo birignao (lontani i tempi di “Sangue impazzito”
eh?) a massacrare Bennato con Kekko (si, proprio così) dei Modà a colpi di
urla, mentre Francesco Sarcina (ex le Vibrazioni) non resiste alla tentazione
del “selfie” durante tutte le sue esibizioni... una pippa no? (No non mi
riferisco ad Arisa, per carità!) Sarebbe stato più istruttivo. C'è spazio anche
per Riccardo Sinigallia, in passato strettamente legato ai Tiromancino che
viene eliminato per aver cantato il suo brano in una sagra (ma cos'è? Dietro
Sanremo ci sono anche i Servizi Segreti?). Dolcissimo come sempre, l'autore
porta brani assai intimi, quasi respingenti, che sarebbe il caso di tornare ad
ascoltare anche in merito ad un coraggiosa rielaborazione di “Ho visto anche
Zingari Felici” del grande Claudio Lolli, con al seguito Marina Rei e Paola
Turci. Ma comunque vi prego, qualcosa di nuovo... E questo qualcosa non è la
pur piacevole leggerezza di Giuliano Palma, nè tantomeno il celebrato Renzo
Rubino. Un mix tra l'ironia svenevole di Denovo (che probabilmente non sa
neanche chi siano), con un cantato nazional popolare desunto dal maestro elettivo
Modugno. Comico il modo di aggredire pianoforte, corde vocali e brani quasi a
voler superare l'inconsistenza dei pezzi. Ecco lui, pur nella mancanza di
riferimenti culturali che non siano istituzionali e nell'essere così “povero”,
sembra abbastanza vero da poter durare e diventare una star italiota, ma non
chiedetemi di riascoltarlo, per favore. Centra appieno e con eleganza assieme a
Simona Molinari “Non arrossire” di Gaber. I giovani? Rocco Hunt e “a Gennar
cc' avut 'o criaturo” e pescivendoli assortiti, mamme e papà in lacrime? Ma
vaff... Il premio della critica a Zibba, in virtù di che non s'è capito? C'era,
l'ho anticipato prima, un pezzo che ad
ascoltarlo davvero, lontano dal carrozzone avrebbe ben figurato, ma che nessuno
ha neanche avvicinato. Quel “1969” di The Niro, che ha portato una coraggiosa
ventata baroque pop, con arrangiamento di gran classe, per niente
scontato (la cosa migliore ascoltata in assoluto e un bel 7'5 pieno), testo
d'interesse e bella voce da controtenore appena offuscata da una presenza
scenica non felicissima in un mondo dove l'immagine è tutto. Per lui dov'erano la “Giuria di qualità” e la “Sala Stampa”? La struttura
davvero semplice dei pezzi di questa edizione, la mancanza di sostanza che li
ha accompagnati, l'ossessiva ricerca del “ritornello felice e della personalità
rimarcata a pieni sottotitoli” (Stromae incluso), pur con confezioni
sonore spesso di gran prestigio ha rimandato agli anni '60, ma in un periodo
storico in cui l'intrattenimento leggero sembra un paradosso.
In qualche caso l'arrangiamento diventa
così “nobile” da far sorridere, c'era proprio bisogno di cercare eleganza con
un clarinetto ad anticipare le strofe del brano di Arisa?
C'è da dire che quando non sostenuti da
ritmi incalzanti non si è distinto un pezzo dall'altro, ma tanto poi saranno le
tante radio figlie delle lobby (ormai in misura più o meno maggiore,
TUTTE, radiozine a parte) a martellarci per un anno con queste miserie
fino a renderle “classici”. Si, perché defunto il Festivalbar, non
rimane altro specchio su cui arrampicarsi e le label con denaro da
investire ben lo sanno, per la gioia della S.I.A.E., dei suoi massimi
contribuenti ed eredi. Si, perché molti lettori non sanno che per ogni disco
venduto, per ogni passaggio televisivo e radiofonico, solo una minima
percentuale entra nelle tasche di autori e arrangiatori, il resto viene diviso
tra quelle dei massimi contribuenti, intesi come “fidelitari” e dunque
Celentano, Mina, Ramazzotti, Pausini, Zucchero, Bocelli, gli eredi di Modugno.
Ogni volta che acquistate un disco dei Deadburger, dei Massimo Volume, di
Kurai, Butcher Mind Collapse, ma anche degli Ulver, di Scott Walker, dei
Current 93, i vostri soldi finiscono
nelle tasche dei signori prima nominati e così è SEMPRE Sanremo, nei
vostri cd dei Metallica c'è un fantasmino della “Signora di Lugano”,
sappiatelo!.
Gentile Fazio, perché tale sei, tu che ti
lamenti del sentirti dare del “buonista” e reagisci dicendo che ti sei “rotto
le palle”, sapessi noi! Vuoi fare un Sanremo che attragga? Fa qualcosa di nuovo
e accetta che partecipino al TUO Festival anche (non dico “solo”) il fenomeno
napoletano strappalacrime, la canzone per le casalinghe e quella per i
bimbiminchia te li lasciamo) i musicisti che non hanno alle spalle etichette
con migliaia di euro a disposizione e che la giuria di “qualità” non sia
composta al 50% da starlette e nella sala stampa figurino webzine
e radiozine attente alla musica a 360 gradi. Su 20-30 canzoni non
potremmo sentirne una di indie non renziano? Una metal (ho
detto una bestemmia)? Una avantgarde (solo una, su! Anche tuoi amati
Beatles, hanno scritto “Tomorrow Never Knows”)? Una di hip hop non
contaminato da populismo da seconda elementare? Una dark, psichedelica,
progressive, punk, elettronica, folk, grunge,
post rock, di jazz vero, baroque pop (grazie ancora
The Niro), dubstep, impro... guarda i generi te li trovi in rete
e se hai bisogno di qualcuno che ti passi dei nomi scrivi al caporedattore di
una webzine a caso, ti farà uscire dal tuo mondo dorato per farti capire
che la bellezza da te tanto decantata è viva e vegeta in Italia quanto nel
mondo e può far veramente male.
Non abbiamo nulla da invidiare a nessuno in
questa nazione in quanto a creatività, ma quelli come te sono un'offesa a chi
ogni giorno fa fatiche indicibili in ambito musicale per pagare l'affitto,
perché quello che manca è visibilità e tu hai il POTERE (dichiarato da te
stesso a “Che Tempo che fa”) di darla. Perché tu, ne sei
consapevole, in tempi come questi, non c'è più spazio per chi fa ricerca vera,
quella gente di giorno fa il cameriere e di notte scrive ed è un delitto.
Perché anche l'indie è ormai un “vorrei ma non posso” e un faretto
puntato addosso alle microlabel e le piattaforme di crowdfunding,
certo mostrerebbe che la maggioranza di loro sono associazioni culturali nate
per spillar soldi, che aggirano come possono la S.I.A.E., ma che almeno un po'
di freschezza la porterebbero. Perché dunque, è tristissimo dirlo, ma più passa
il tempo più si assottiglia il margine tra mainstream e musica
“alternativa” in ossequio al Dio Denaro e non si può più relegare il “caso”
Sanremo in un angolino, visto che fra un po' non ci resterà null'altro che
omologazione sonica in questo Paese.
Perché a Sanremo c'è scappato il morto e un
altro stava per arrivarne nel '63, lo stesso che tu hai invitato quest'anno a
celebrare i trappassati per stento, quel Paoli che scrisse “Ogni suicidio è diverso, e privato. È
l'unico modo per scegliere: perché le cose cruciali della vita, l'amore e la
morte, non si scelgono; tu non scegli di nascere, né di amare, né di morire. Il
suicidio è l'unico, arrogante modo dato all'uomo per decidere di sé. Ma io sono
la dimostrazione che neppure così si riesce a decidere davvero.” Beh, quell'uomo poi di scelte ne ha
fatte, dimostra tu di poter decidere di far meglio, piantandola di fare il
verso a Baudo, dal quale tanto diverso non dimostri di essere. Si può ridere
con l'Aria di Leporello cantata (bene, quasi benissimo) da Crozza, ma qui c'è
gente che del “Voi/Germania prendete la Maestosa/Italia, a noi rimane la
Mafiosa/Italia”, non riesce a ridere con compiacimento e darebbe volentieri
indietro l'intero lotto dei presenti all'Ariston, ricchi
spettatori/presenzialisti, giuria “di qualità” e “sala stampa” inclusi.
Non basta raccontare la storia dell'
“omosessuale” Michelangelo per parlare di bellezza, vogliamo vederla sui
palchi, perché la bellezza in arte è una luce che sposta quello che gli altri
hanno tracciato, un passo più in là e può dare anche fastidio, ma se non le si
dà spazio, muore, punto.
Chi come voi Fazio e Littizzetto, ha lo scettro
per decidere a chi dar spazio o no e mostra il vecchio, senza saperlo è complice
diretto di un continuo e vergognoso assassinio del quale volente o no DEVE
rendere atto.
Così come la bellezza, “l'arte non è uno
specchio cui riflettere il mondo, ma un martello con cui scolpirlo” affermò con
convinzione Majakovskij e
ci ricordarono gli Henry Cow di “In Praise of Learning”.
In attesa che si faccia davvero luce su chi ha
passato un lettino di denaro salvagente a proteggere un volo di due operai, che
non ci sarebbe mai stato, ogni risposta è gradita, anche quella di una Luciana
Littizzetto, che, si, dice cose intelligenti e tiene in piedi da sola baracche,
ma ancora non s'è capito da che parte stia.
Ossequi.
Attendo.
Lunedì 24 Febbraio 2014
Claudio Milano