Compie gli anni oggi, 31
luglio, Tiziano Ricci, bassista,
violoncellista, dal 1988 al 2014 motore ritmico del Banco Del Mutuo Soccorso.
Diplomato al
conservatorio di Perugia, inizia giovanissimo in vari gruppi locali; nel 1977
con la sua band i "Bingo", apre il concerto dei Gentle Giant
all'Altro Mondo di Rimini.
Il
"professore", oltre che con il Banco, ha collaborato anche con
Umberto Bindi, Ornella Vanoni, Fabio Concato.
Dal 1997 è
violoncellista dell'orchestra sinfonica della Repubblica di San Marino.
Happy Birthday Tiziano!
Wazza
Mexico city 2000
San Salvo Marina, 5/08/1993, Francesco Di Giacomo, Vittorio Nocenzi, Tiziano Ricci
Il Banco del Mutuo Soccorso, o semplicemente
"Banco", tra le tante iniziative culturali intraprese, é stato tra i
primi a portare sul palco una compagnia teatrale, con tanto di attori, mimi e
saltimbanchi.
Accadeva negli anni '80 e la compagnia
teatrale si chiamava "Assemblea Teatro".
Erano dei concerti incredibili, un
connubio tra musica e teatro di altissimo livello.
Per chi non ha mai avuto la fortuna di
vederli, ci sono 2 DVD che immortalano queste performance: "Banco Live
1980" e "Live Avigliana 1989".
In allegato articolo preso dal sito di
“Assemblea Teatro” e alcune foto di Quirino Zangrilli, sempre prese in
rete.
Wazza
Il Banco del
Mutuo Soccorso e Assemblea Teatro
Chi all’inizio degli anni ’80 ha visto
le performance di Assemblea Teatro colBanco del Mutuo Soccorso ricorderà un’immagine straordinaria che
prendeva forma nei palasport d’Italia alla fine del concerto. Partivano le note
di pianoforte di Traccia II e Paolino, issato su altissimi trampoli,
completamente vestito di bianco, giungeva in platea con una bacchetta da
direttore d’orchestra dirigendo il crescendo della musica. Stessa cosa, di
spalle al pubblico, faceva Francesco sul palco nel turbinio generale
dell’emozione che quel brano riusciva a scatenare in tutti i presenti.
Questa immagine rimane indelebile
nella memoria perché quel raddoppio visualizzava l’identità di intenzioni e la
totale fiducia che da subito scattarono tra di noi. Un modo di concepire il
lavoro che ben esplicitava Francesco Di Giacomo:
“Nella musica del Banco la
componente ritmica è basilare. Nell’interpretazione dei testi spesso ho
spostato gli accenti per dare alle parole un’espressività e un’enfasi maggiore.
Purtroppo, si diffonde un ascolto della musica sempre più distratto e quindi
certe sfumature le colgono in pochi. Ma non mi importa: io continuerò a cantare
cercando melodie, armonie, timbro e soprattutto coesione tra voce e musica.
L’ho sempre detto e continuerò a
sostenerlo: non sono un cantante accademico, credo nella spontaneità e nei
sentimenti. Forse se avessi studiato di più avrei faticato meno sul palco ma ho
preferito imparare a catturare l’ispirazione e a lavorare sui segni che, come
cantante e come autore, colgo nell’aria e porto nelle canzoni”.
Live
Report della terza giornata del “SolDoFa Fest” organizzato dal Circolo Qualude:
Foto e video dei concerti di Labyrinth, Ashen Fields e Tornado
Un (altro) festival musicale all’aperto a
Genova nell’estate del COVID? Yes, we can! Sicuramente una stupenda sorpresa,
se poi si aggiunge il fatto che gli headliner della giornata di chiusura sono i
Labyrinth, band che mi riporta ai primi anni in cui scoprivo l’heavy metal, in
piena esplosione power, e che avrebbero già dovuto suonare a Genova a inizio
marzo ma si sa com’è andata… Un evento, ancora una volta, da non perdere.
Parliamo della tre giorni di SolDoFa Festival,
organizzato dal Quaalude Club, CIV Sarzano Sant’Agostino, con il patrocinio di
M.I.G. (Musicisti Indipendenti Genova) e da LocaLive. Il fest si svolge in una
Piazza Sarzano praticamente trasformata dall’ultima volta che l’avevo vista,
senza macchine e col palco davanti alla chiesa.
Il fest, riporto dalla pagina FB dell’evento,
“si chiama SolDoFa perché sosterrà la campagna di raccolta fondi omonima che il
Circolo (Quaalude) ha promosso lo scorso maggio per sostenere i musicisti e i
circoli dove si fa musica, per evitare che tra le tante vittime del virus ci
siano anche la nostra amata musica, i professionisti che la suonano e i locali
che la ospitano”. Chapeau! Speriamo la rassegna sia servita anche in questo
nobile intento.
Chioschetto con birrette e panuozzi, gelati e
persino arrosticini, buona musica, bellaggente, e si parte. Uniche pecche della
serata: assenza di bagni e un suono non sempre eccellente.
La terza e ultima serata del SolDoFa è
all’insegna del metallo rovente, infatti quando arrivo in cima alla collina
(Run to the Hills?) di Sarzano i Tornado stanno ancora facendo il soundcheck e
il tutto mi ricorda le rassegne studentesche e i vari concerti a cui ho
partecipato, sia sul palco che sotto, e le atroci ore in cui il sole è ancora
bello alto nel cielo, e le band di apertura si preparano per il loro set tra un
“alza la chitarra in spia” e il rischio accecamento + ustione… massima
solidarietà, ragazzi!
Tornado
I “Tornado - Tribute to the best metal bands”
sono ormai abituè dei palchi dei (pochi) locali genovesi, sono in attività da
ben 10 anni e la band è composta da: Luca D’Angelo (chitarra e voce, mi ha
ricordato a più riprese il mitico John Gallagher dei Raven, che però è
bassista, ma sono entrambi fan del microfono stile “pilota dell’elicottero” e
degli strumenti a corde dalla forma spigolosi), Davide Curreli (chitarra),
Dennis Madden (basso) e Luca Barone (batteria). I nostri hanno la giusta carica
e si vede che sono dei veri metalheads. Sia la scelta delle canzoni che la
riproposizione sono sempre convincenti.
Il loro repertorio è composto sia da canzoni
che conoscono anche le pietre (fatto che rimarcano con ironia, sempre
apprezzatissima, loro stessi dal palco) che da alcune chicche per veri nerd del
metallo, come la fotonica “Metal Thrashing Mad” degli Anthrax o, andando a
scavare ancora più a fondo, “Stonewall” degli Annihilator e “Snakebite” dei
Racer-X, band del mostruoso chitarrista Paul Gilbert.
Il resto è un susseguirsi di “Aces High”,
“Symphony of Destruction”, “A touch of Evil”, “Enter Sandman”, “Tornado of
Souls” e altre canzoni da “Best of” dell’heavy metal, proprio come recita il
nome della band.
Di solito trovo le cover band “generiche”
insopportabili (niente di personale, ne ho fatto parte per molti anni) ma qui
mi permetto di fare alcuni distinguo: la fame di musica dal vivo era TANTA, e
alcune delle corde toccate con alcune canzoni suonate sono state quelle che ti
accendono la fiamma quando sei davvero piccolo, cose che non si dimenticano. I
Tornado sono simpatici e non spocchiosi, si divertono sul palco e si vede, e
questa “presa bene” è effettivamente contagiosa. Bello vedere anche tante
persone di tutte le età scatenarsi sotto il palco.
In ultima analisi apprezzo l’intento di voler
scavare un po’ più a fondo da parte dei Tornado e farci ascoltare alcuni brani
che, effettivamente, neanche le band “originali” suonano più da tanto. Volendo
andare a spaccare il capello, anche le canzoni “famose” che vengono riproposte
stasera, in alcuni casi, non sono un po’ più da “fan incalliti”, e meno da
“best of”. To the next one!
Cambio palco, il sole ormai è quasi calato e
l’atmosfera si fa più “dark” per un’altra formazione genovese, gli Ashen
Fields. Nell’evento FB della serata vengono descritti come “originali” per cui
c’è una certa curiosità. Non li ho cercati prima di andare al concerto per cui
la sensazione è un po’ quella, ormai sempre più rara dato che tutto è a portata
di click, di essere a un passo dallo scoprire qualcosa di nuovo.
Un look à la “Cradle of Filth/band metal
estremo ma con piglio melodico” anni ‘90 (ma senza face painting, che comunque
avrebbe avuto vita brevissima viste le temperature!) non lascia troppo spazio
all’immaginazione, e infatti la proposta musicale è in linea con le coordinate
stilistiche, ma forse è più corretto parlare di un certo “sentire”, che band
quali Dark Tranquillity, In Flames, Cradle of Filth e Paradise Lost (ci metto
anche gli Opeth degli esordi, toh) hanno descritto meravigliosamente ormai più
di 20 anni fa.
Il metal degli Ashen Fields, appropriatamente
definito da loro stessi “Symphonic Death Metal”, è complesso e ricco di cambi
di atmosfera. I richiami alle band e alle sonorità descritte sopra sono
evidenti per chiunque conosca il genere: come detto, i rimandi non sono tanto a
questa o quella band “nello specifico”, ma la loro musica mi ha continuamente
ricordato quelle sonorità.
La band, composta da Julio Rossanigo (voce),
Davide Manzi e Jacopo Ruggero (chitarra), Fabio Mereta (basso) e il turnista
Alessio Fanelli aka Attila (batteria), si dimostra convincente e compatta sul
palco. Le tastiere e orchestrazioni varie, di cui in studio si occupa Davide
Manzi, sono qui riproposte sotto forma di basi musicali, senza nulla togliere
all’impatto e alla carica, anche emotiva, dei brani.
Furiosi passaggi con blast beats, schitarrate
a volte veloci a volte lentissime, si alternano ad aperture melodiche davvero
malinconiche e assoli al limite del neoclassico, il tutto sempre accompagnato
da un cantato a metà strada tra screaming e growl, con occasionali cantati
puliti. Una musica che vi farà sentire come quando avete ascoltato “The
Gallery” dei Dark Tranquillity per la prima volta e vi siete chiesti “come è
possibile unire potenza e tristezza in modo così efficace”?
Gli Ashen Fields, per come li ho intesi io,
pescano a piene mani da quella affascinante tradizione metal, prettamente
europea, che si è sviluppata negli anni ‘90, con un pizzico di personalità. Una
proposta non immediata né di facile assimilazione ma che farà sicuramente
breccia nel cuore di chi ama certe sonorità.
Purtroppo la resa sonora non è delle migliori
e questo sicuramente penalizza i ragazzi. Avendo poi avuto modo di
approfondire, posso comunque confermare le mie ottime impressioni appena
descritte.
Fa davvero molto piacere vedere una band di
ragazzi così giovani prendere la musica in modo così professionale (hanno già
un EP alle spalle e sembrano belli lanciati) e cercare di creare musica
propria.
Ashen Fields
Dopo questo salto carpiato all’indietro nella
Svezia del 1995, è ora del cambio palco “più atteso della giornata” e infatti,
dopo due piacevolissime sorprese (i Tornado e gli Ashen Fields), è ora di
addentrarsi in quel labirinto di paradiso perduto e figli dei fulmini senza
limiti. Che vaneggio è questo? Ma sto ovviamente parlando dei Labyrinth.
Per capire cosa hanno significato i Labyrinth
nel panorama metal italiano e, oso, mondiale, bisogna anche qui fare un bel
passo indietro e ricordarsi di come, nell’Italia di fine anni ‘90, TUTTE le
riviste specializzate (il compianto Metal Shock gestione Borchi, Metal Hammer
con Signorelli, per citare le più famose e rinomate), non facessero altro che
parlare della rinascita del power metal e, di conseguenza, dell’emergere, anche
in Italia, di alcune band clamorose che negli anni successivi avrebbero
letteralmente conquistato tutto il mondo.
I primi erano i Rhapsody (non i Rhapsody of
Fire, i CiccioPasticcio’s Rhapsody o una delle infinite diramazioni, di cui è
difficilissimo seguire le vicende, tutt’oggi esistenti), nella versione
“sbarbatelli” e molto prima che la band implodesse in mille direzioni diverse.
I Rhapsody avrebbero cambiato il modo di intendere il power metal sinfonico di
lì a poco con due capolavori: “Legendary Tales” (1997) e “Symphony of Enchanted
Lands” (1998).
Gli ottimi comprimari dei Rhapsody, e la band che
veniva citata sempre insieme a loro, erano proprio i Labyrinth, che nel 1998
hanno pubblicato per la storica etichetta ameregana Metal Blade un capolavoro
del power metal italiano chiamato “Return to Heaven Denied”.
Labyrinth
Di acqua sotto ai ponti ne è passata tanta ma
in una prima analisi si può già dire che ciò che non è cambiato minimamente è
l’incredibile voce di Roberto Tiranti, oggi eccezionalmente anche in veste di
bassista a sostituire Nik Mazzucconi (a parte per l’iniziale “Moonlight”, dove
al basso ritroviamo Dennis Madden dei Tornado) e alla guida di una band che,
tra alti e bassi, è ancora qui, testimonianza di una passione mai scalfita per
una musica potente, orecchiabile, ricca di spunti e variazioni.
Ad accompagnare Roberto - fu Rob Tyrant -, che
gioca in casa, troviamo alcuni altri componenti della formazione di fine anni
‘90, ossia Olaf Thorsen e Andrea Cantarelli (quest’ultimo sotto il nome,
all’epoca, di Anders Rain). A questi si sono aggiunti negli anni, e quindi
anche stasera sul palco, Oleg Smirnoff alle tastiere e il dinamitardo Matt
Peruzzi alla batteria, quest’ultimo una delizia per gli amanti della doppia
cassa.
Avevo già visto i Labyrinth al compianto
Evolution Fest 2006 e già allora ne rimasi colpito. Questa sera assistiamo a
una carrellata di brani vecchi e nuovi, molti dei quali tratti dal già citato
“Return to Heaven Denied” (inclusa la tamarrissima e techno “Feel”, che scopro
solo oggi essere una cover, in chiave power metal, di una canzone di Cenit X
nel suo remix by Legend B… viva gli anni ‘90). Oltre a sciabolate power/speed
quali “Lady Lost in Time” e “Thunder”, la scaletta pesca a piene mani un po’ da
tutti gli album di Labyrinth, regalandoci un concerto sicuramente vario e
sempre interessante.
Roberto è un vero intrattenitore dalla battuta
sempre pronta e risulta effettivamente divertente ascoltarlo mentre ci porta
tra un brano e l’altro della scaletta. Aneddoti, storielle dell’epoca, botta e
risposta dal pubblico (spesso incentrati sulle frequenti invocazioni al divino
che provengono dalle prime file, il tutto in chiave assolutamente goliardica e
“di cazzeggio”), siparietti: non solo musica sotto il cielo di Genova, insomma.
Per chi non lo sapesse, il power metal, con la
sua doppia cassa “a elicottero” a farla da padrone, è una musica dal ritmo
molto incalzante e regolare, e le grandi aperture melodiche, gli assoli alla
velocità della luce e il tipo di cantato, melodico e con voce pulita, la
portano a volte ad essere assimilabile, per intenzioni e, appunto, ritmicità,
al tipo di musica che potrebbe accompagnare un allenamento in palestra. Questa
è una delle battute “classiche” che si possono sentire negli ambienti metal di
tanto in tanto. Provate voi stessi a mettere “Moonlight” in cuffia a tutto
volume e fare spinning. Risultati garantiti!
Non potevo quindi credere ai miei occhi quando
ho visto un gruppo di ragazzi e ragazze lasciarsi trascinare dalle canzoni dei
Labyrinth e mimare movimenti da allenamento a corpo libero, o come fossero
dentro una vasca per l’acquagym… ovviamente è stato il momento più delirante e
indimenticabile della serata… su le mani! Uno, due, tre, quattro!
Labyrinth-ginnastica
Sicuramente la band più attesa della serata, i
Labyrinth non deludono e ci anticipano che i lavori per il prossimo album sono
appena cominciati. Questo concerto e questa notizia rappresentano per me
un’occasione per riscoprire una band a cui ero molto affezionato “da piccolo” e
che per un motivo o per l’altro ho un po’ perso di vista.
Poco prima delle 11 cala il sipario in una
bellissima serata di musica cazzuta e interessante per gli amanti delle
sonorità più ruvide.
Ringrazio di cuore tutti coloro che hanno
messo su questa manifestazione di cui c’era davvero tanto bisogno dopo questi
mesi di “stecchetto” e spero vivamente che la raccolta fondi sia andata bene.
È stato uno dei
chitarristi più influenti e amati del rock anni ‘60 e ‘70. Peter Green, co-fondatore dei Fleetwood Mac
e poi leggendario solista, è morto a 73 anni: la notizia è stata data dalla sua
famiglia, che ha fatto sapere che il musicista si è spento "pacificamente
nel sonno".
Green, il cui vero
nome era Peter Allen Greenbaum, era nato a Londra nel 1946. Salì alla ribalta
nel 1966, quando fu chiamato a sostituire (prima temporaneamente, poi a titolo
definitivo) Eric Clapton nei Bluesbreakers di John Mayall, la blues band
inglese più celebre degli anni 60. Insieme a Mick Fleetwood e John McVie, anche
loro nella band di Mayall, e al chitarrista Jeremy Spencer decise di formare un
nuovo gruppo destinato a fare la storia. I Fleetwood Mac entrarono in scena
imponendo uno stile fortemente legato al blues, firmando brani celeberrimi come
Black magic woman, poi ripresa da Carlos Santana, e Albatross, ma nel
giro di un paio d'anni Green decise di abbandonare la band per divergenze
personali e artistiche: il 20 maggio del 1970 tenne il suo ultimo concerto con
la band.
Il chitarrista, alle
prese con problemi di instabilità mentale (gli fu diagnosticata una forma di
schizofrenia) decise di intraprendere una carriera solista e di abbandonare la
strada del blues per dedicarsi a una forma musicale inedita e totalmente
d'avanguardia: il suo esordio solista, The end of the game, resta uno
dei dischi più coraggiosi e sperimentali dell'intera storia del rock. Una sorta
di free rock lisergico, oscuro e inquietante ma estremamente moderno.
In quella riuscita
miscela sonora, Green aveva probabilmente proiettato i suoi fantasmi. Dopo
quell'album, i suoi problemi mentali lo trascinarono in un vortice che lo portò
a sparire dalle scene per tutto il decennio: anni in cui si liberò di tutti i
suoi averi, perfino della sua chitarra (acquistata da Gary Moore, altro gigante
del rock blues).
Dopo ricoveri e
degenze, che spinsero la stampa britannica a definirlo "il Syd Barrett del
blues inglese", Green tornò sulle scene nel 1979 con l'album In the
skies: un disco rilassato, godibile, ma lontano parente del frenetico e
visionario suono di dieci anni prima.
Dal suo rientro,
arrivato dopo una sorta di eremitaggio misterioso, Green pubblicò una serie di
dischi di morbido blues privi di grande ispirazione. Dopo una nuova pausa,
durata più di dieci anni, Green si ripresentò sulle scene nel 1997 con una
nuova band, The Splinter Group, che riuniva vecchie glorie della scena inglese
come Nigel Watson e Cozy Powell.
Dopo l'album omonimo,
con gli Splinter pubblicò altri sette dischi, restando nel solco di un blues
gradevole ma privo di grinta, in cui però il Robert Johnson Songbook restituì
dignità a una stella che si è spenta troppo presto.
Nel 1988 entrò a far parte della Rock And Roll Hall Of Fame insieme ai
Fleetwood Mac. Di lui
B.B.King aveva detto: "E' l'unico chitarrista che mi fa sudare freddo".
In quest’infausto anno dominato
dalla paura e dal coraggio, c’è chi non si è mai fermato. È il caso della Dark
Companion Records, i cui lavori prodotti sono da sempre sinonimo di altissima
qualità. Il 10 luglio, infatti, è stato pubblicato “Passage Du Nord Ouest”
di John Greaves, concerto registrato a
Parigi il 22 novembre 1993 e riportato ad antico splendore dall’ottimo lavoro
di Alberto Callegari, dell’Elfo Studios di Tavernago (PC).
Max Marchini, deus ex-machina
dell’etichetta, aggiunge così un nuovo importante tassello al proprio catalogo
di gioielli musicali, qui per la collana Ephemerals, che a ben vedere ha ben
pochi rivali a livello europeo.
Credo, e spero, che mr. John
Greaves non abbia bisogno di presentazioni (in ogni caso ne avevo tracciato un
piccolo profilo riassuntivo all’interno della mia recensione del suo “Life
Size” del 2018, per chi volesse rinfrescarsi la memoria), per cui andiamo
dritti ad immergerci nelle atmosfere parigine, stando comodamente seduti con
cuffie e hi-fi ben sintonizzati su questo “Passage Du Nord Ouest”.
Il nostro, come sempre al basso e
voce ma anche al piano, è qui coadiuvato da una band formata da Paul Rogers al
contrabbasso, François Ovide alla chitarra acustica, David Cunningham alla
chitarra elettrica, kalimba e effetti sonori, Sophia Domancich al piano, e
Peter Kimberley alla seconda voce.
“One Summer”, posta in apertura, delinea
il crescendo dall’intento free, un buon biglietto da visita in divenire che non
fa altro che incuriosire, attuato poi con “The Price We Pay” in una soluzione
di continuità sonora, resa ancor più introspettiva dalla voce inconfondibile di
John. Si prosegue con “The Mirage”, ipnotica e sognante, trascinata da un
grande contrabbasso, poche parole declamate per poi passare a “The Magical
Building”, ricamata e sottolineata da un fiero pianoforte, che apre alla forma
canzone per poi tornare all’immaginifico; una perla di bellezza e cupa luccicanza,
brividi in continuità. “Almost Perfect Lovers”, difficile, complicata, ma
eterea e ricca di intrecci, fa intendere come ci si trovi di fronte a un genio
musicale coadiuvato da un gruppo di talentuosi comprimari, che acquisiscono via
via la centralità del suono. Il pianoforte sembra (farci) volare. “Solitary” è
una marcia RIO di sopraffina meraviglia, con accenti chitarristici sempre
corretti e incisivi. “Dedans (Rose c’est la vie)” condensa in poco più di tre
minuti il messaggio che la vera Musica può e dovrebbe sempre avere nei
confronti degli ascoltatori: portare altrove, spingere oltre, far sognare ad
occhi aperti. Dolcissima, mai stucchevole, giocata in un equilibrio reso
perfetto dalla magia vocale di Greaves. “Deck Of The Moon”, ritmo e gioco,
sorridente e positiva, ci dice che i dettagli sono per pochi; un melting pot
sonoro coinvolgente e innovativo. Si passa a “For Bearings / Silence” dove
piano e voci trovano il punto d’incontro nei toni minori del (quasi) sussurro,
in un vortice di contrappunti. “Kew Rhone” alza l’asticella della circolarità
del suono, scandendo i ritmi imposti dai musicisti, qui impegnati in un
complicato esercizio di qualità sempre maggiore, in cui i riferimenti al jazz
la fanno da padrone. “The World Tonight”, chitarra perfetta nel dosare accenti
e armonia e forza, è qui la protagonista, insieme alle voci dei nostri. Squarci
di luce. “Lullaby” (no, non quella dei Cure…) è una straniante ninna-nanna
(traduzione del titolo, ovviamente) che non vorremmo sentirci cantare, ma che,
tuttavia, riempie la stanza, tant’è densa. “Swelling Valley”, soffusa e
nebbiosa, nel tipico stile di Greaves, traccia la linea di un universo sonoro
mai domo, ma pronto a donare soluzioni mai banali. Qualcuno c’è che non si è
mai lasciato stereotipare, fortunatamente. “How Beautiful You Are”: quanta
meraviglia ci può essere in una sola canzone? Ascoltatela in solitudine e
avrete la facile risposta. Genialità e sensibilità ai massimi livelli. Ma la
versione cantata e suonata insieme ad Annie Barbazza (proprio su “Life Size”)
non ha eguali (thanks Annie). “Karen”, paragonabile a un quadro del miglior
Surrealismo, ha nella propria libertà sonora e interpretativa i suoi picchi.
Certo l’artista John lavora sulla sua interiorità, rendendo visibile e reale
ciò che noi non abbiamo fin qui conosciuto. “The Green Fuse”, in chiusura di
concerto, è corale e unisce per la sua fantasiosa musicalità, dove sembra che
un’alba non possa mai finire. Poetica, dominante, rara.
Dedicato da John Greaves alla
memoria di François Ovide e Michel Pintenet.
Gran concerto, signore e signori.
Gran disco, da avere.
"Chi ha paura
muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola."
(Paolo Borsellino)
Ci sarai sempre. Buon
viaggio Capitano
Wazza
Di Andrea
Pedrinelli
Non fatevi trarre in
inganno dal titolo della canzone. Il titolo è provocazione, certo, ma il testo
somiglia più a poesia: poesia forse necessaria, specie oggi che troppo spesso
ci dimentichiamo di prenderci una pausa dal mondo, dalle sue meschinità, dal suo
assordante frastuono di nulla. E senza prendersi tempo per noi stessi, per il
sogno, per il bambino che ancora si nasconde in noi, si muore dentro. Perciò
allora è giusto pure arrabbiarsi, persino gridare «Non mi rompete», per
poi però cantare: «Non mi svegliate, ve ne prego. Lasciate che io dorma
questo sonno: sia tranquillo da bambino, sia che puzzi del russare da ubriaco.
Perché volete disturbarmi, se forse sto sognando un viaggio alato? Sopra un
carro senza ruote, trascinato dai cavalli del maestrale… …Nel maestrale, in
volo! Non mi svegliate, ve ne prego: lasciate che io dorma questo sonno… C'è
ancora tempo per il giorno, quando gli occhi s'imbevono di pianto… I miei
occhi… Di pianto…».
Sì, forse dovremmo gridarlo tutti il titolo di
questa canzone, poi cantare in coro il testo di questo brano: scritto
dall'indimenticato Francesco Di Giacomo e messo su disco, magnificamente, dal
Banco del Mutuo Soccorso.
Questo è uno dei momenti in cui
"amo i social", che danno la possibilità a dei fans di suonare
"virtualmente" insieme ai loro beniamini i Gentle Giant, questa
versione di "Proclamation" è commovente.
God save the
Gentle Giant!
Wazza
Gentle Giant
1973
I fan di tutto il mondo celebrano il
loro amore per la musica e Gentle Giant con le loro interpretazioni di
"Proclamation" dall'album "The Power & The Glory".
Questo video segna anche la prima volta in 40 anni che tutti i membri di Gentle
Giant compaiono sullo schermo e suonano insieme in una 'riunione virtuale'.
Alcuni importanti collaboratori fanno anche un'apparizione come Jakko Jakszyk
dei King Crimson, Billy Sherwood degli Yes, il bassista ELO Lee Pomeroy, Dan
Reed dei Dan Reed Network, Richard Hilton di Chic e Mikey Heppner of Priestess.
La musica è un linguaggio universale che unisce le persone. Grazie a tutti i
fan di tutto il mondo per aver contribuito a far sì che ciò accada - The Boys
in the Band - Diretto e curato da Noah Shulman Sound Mixing di Ray Shulman www.gentlegiantband.com
A vedere certe
classifiche viene da chiedersi: "Dove abbiamo sbagliato?".
Nell'estate del 1972
in classifica c'era il "trionfo" del Prog Italiano... Le Orme in
prima posizione con "Uomo di Pezza", a seguire il Banco del Mutuo
Soccorso, New Trolls, Osanna, Premiata Forneria Marconi, The Trip... (cosa
impensabile oggi), e per la gioia dei Itullians ben 2 long playng dei Jethro
Tull in classifica.
Dando un'occhiata alle
classifiche del 2109 (sempre con il rispetto dei gusti altrui), viene da
chiedersi cosa sia successo per essere arrivati a questa trasformazione,
arretramento, decadenza, decadimento, declino, involuzione, regresso... basta!
Ai posteri l'ardua
sentenza!
Wazza
A
Jeffry…non ce bisogno della lente...
se
vede bene c'avemo dù dischi in classifica in Italia!
I palermitani Utveggi
arrivano al loro terzo album in cinque anni, “Canzoni
d’umore”. Abbandoniamo per un attimo i termini più attuali e
proviamo a pensare ad un antico… rimirarsi davanti ad uno specchio, con un po' di
autoironia e voglia di libertà espressiva.
Attivi dal 2012, gli Utveggi possono contare su di un
curriculum rilevante, fatto di concerti italiani ed esteri, di apparizioni televisive
e riconoscimenti di peso.
Ma i risultati positivi non allontanano la band dalla realtà,
e così entra in gioco l’autocritica, messa in campo attraverso un percorso apparentemente
contorto, basato sulla ricerca presso terzi (famosi) del lato canzonatorio,
indagine che andrà poi rovesciata su sé stessi; potrebbe essere questa un’operazione
nata cammin facendo, prendendo coscienza che l’osservazione acuta e critica
della musica altrui conduce ad una sorta di autoanalisi che va riversata sulle
creazioni personali.
Non riesco a definire compiutamente in quale casella inserire
la loro musica, preferendo utilizzare sempre i macro-generi musicali, e in
questa facile e comprensibile scelta pongo gli Utveggi nel settore pop-rock,
convinto che la forte natura cantautorale permetterebbe ai brani contenuti in “Canzoni
d’umore” di essere performati, anche, con il semplice binomio voce/strumento,
ma è fuori dubbio che il vestito confezionato per le nove tracce è molto
trasversale e fruibile per un pubblico vario, per tendenze musicale ed età.
La mera lettura dei titoli potrebbe dare indizi importanti, e
l’impressione iniziale è quella che conduce ad una presa in giro della sacralità
di certo pop storico, ma la ricercatezza dei suoni - con l’apertura alle
contaminazioni - unita all’importanze di certe liriche, fanno pensare allo
scolaro eccellente che fa di tutto per confondersi nel gruppo, senza riuscire a
mascherare qualità eccelse.
L’album è stato anticipato dal video di "Stupido
Otello" (non è difficile immaginare a chi sia rivolto il titolo!), ma preferisco
inserire utilizzare il brano che apre l’album, “Nommene”.
Sarcastici,
intelligenti, acuti e dotati di spirito di autocritica… sono questi gli
Utveggi, tutti da sentire!
Anche Judy Dybleci ha
lasciato, a 71 anni, dopo una lunga malattia.
Cantante inglese,
famosa per aver fatto parte del primo nucleo dei Fairport Convention e
di aver cantato alcuni brani con "Giles Giles & Fripp",
che si evolveranno nei King Crimson.
Ha inciso molti album
da solista e collaborato con molti artisti della scena folk britannica.
Farewell Judy!
Wazza
Judy Dyble, nata a
Londra il 13 febbraio 1949, si unì ai Fairport Convention prima della
realizzazione dell'eponimo album di debutto della band britannica.
Il disco
"Fairport Convention" del 1968 include, tra le altre, la canzone
"Portfolio", scritta dalla cantante - successivamente sostituita da
Sandy Denny.
Nel 1968 Judy Dyble ha
collaborato con il gruppo Giles, Giles & Fripp - il trio che precedette i
King Crimson - con cui ha inciso alcune canzoni come "Make it today"
e le versioni demo di "Under the sky" e "I Talk to the wind”.
Due versioni diverse di quest’ultimo pezzo - una delle quali realizzata dal
trio formato da Peter e Michael Giles e Robert Fripp in collaborazione con Judy
Dyble - sono contenute nella raccolta “The Brondesbury Tapes”, uscita nel 2001.
Un’altra versione di "I Talk to the wind” è inclusa nell’album di debutto
dei King Crimson, “In the Court of the Crimson King”, pubblicato nel 1969.
La rivista musicale
"Muzak", nel lontano 1974 pubblicava un articolo/inchiesta sui
problemi dell'organizzazione di concerti per i gruppi musicali italiani
nell'aera progressiva.
Mancanza di locali,
manager all'altezza, totale disinteresse (all'epoca) di radio e TV...
Un doveroso saluto da
parte del Banco Fan Club al "maestro" Ennio Moricone.
Impegnato su
moltissimi fronti musicali, si è sempre dimostrato disponibile e sensibile con
i giovani.
Aveva partecipato come
membro della "commissione artistica" alle iniziative didattiche di
Vittorio Nocenzi: "Le chiavi segrete" del 2004, "Musica Orienta"
del 2005 , "Ponti e Torri " del 2012.
Inoltre, si era trasformato
in "recensore" del Libro/CD "Sguardi dell'Estremo
Occidente", nel 2011.
Grazie di tutto
maestro l'immortalità ti appartiene!