RocKalendario del secolo scorso – Giugno
Di Riccardo Storti
1955
– Il 18 giugno in Germania a
Baden Baden, nella prestigiosa cornice del Festival della Società
Internazionale della Musica Contemporanea, si tiene la prima esecuzione
assoluta di Le Marteau sans maître di Pierre Boulez, una delle pagine
più note dell’avanguardia musicale del Novecento.
E qui c’entra Zappa perché
questa composizione ha avuto un'influenza significativa sulla sua musica. Pensate
che Zappa aveva acquistato da ragazzino una copia della registrazione di Le
Marteau sans maître, accoppiata a Zeitmasse di Stockhausen sull'altro lato
del vinile (due piccioni con una fava). In un articolo pubblicato su Hit
Parader nel 1967, lo stesso Zappa dichiarò che l’opera lo aveva colpito in
maniera totale. E se date una scorsa alle note di copertina di Freak Out,
vi accorgerete che tra gli ispiratori del disco vi è anche Pierre Boulez.
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1965 – Mattina del 14 giugno. Paul si alzò con quella
musica in testa che non voleva andare via. Andò in cucina per preparare la
colazione. Uova strapazzate con il bacon: ci sta. Canticchia il motivetto:
“Scramble eggs…”. Ci sta anche questo. Bisogna sbrigarsi e vedere subito che
accordi ci vogliono per questa melodia: il Fa maggiore suona bene. I piatti e
le tazze sporche le avrebbe lavate in un altro momento. “Ciao, Jane… a più
tardi.” In un attimo è al cospetto dell’amico George Martin per fagli ascoltare
quell’idea. “Non sarebbe male un quartetto d’archi alla Schubert.” Intanto nel
frattempo è arrivato anche un bel testo malinconico, quasi autunnale:
“Yesterday, all my troubles seemed so far away…”.
Così
nacque una delle canzoni più famose della storia della popular music (e anche
la leggenda intorno alla sua genesi, che mi sono divertito a tratteggiare).
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1975 – “Era il 5 giugno del 1975. Ricordo che mi trovavo
nei pressi degli Abbey Road Studios, così, senza pensarci troppo, entrai. Non
era programmato. Mi attirava qualcosa lì dentro, un’energia familiare… o forse
era solo la mia curiosità.
Quando
sono entrato nella sala, c’erano i ragazzi — quelli con cui avevo iniziato a
strimpellare — intenti a lavorare su un brano. Non so se mi riconobbero subito.
Avevo la testa rasata, niente sopracciglia… e il corpo, beh, non era più quello
di un tempo, avevo preso qualche chilo. Potevo sembrare chiunque. Credo che
all’inizio mi abbiano scambiato per un tecnico o un tizio della casa
discografica, forse un impiegato.
Stavano
ascoltando un pezzo — qualcosa di lungo, ipnotico, malinconico. Mi sedetti lì
in silenzio, senza dire molto. Non capii subito che quel brano parlava di me. Shine
On You Crazy Diamond, lo chiamavano. Ironico, no? Essere presente, ma al
contempo completamente altrove.
Più
tardi quel giorno, mi feci vedere anche al ricevimento di nozze di David. Un
po’ di musica, qualche volto sorridente… ma le parole mi sembravano lontane,
come se arrivassero ovattate. Rimasi poco. Non serviva dire nulla. Quella fu,
per molti di loro, l’ultima volta che mi videro. Ma per me, in un certo senso,
ero già sparito da tempo.” (apocrifo barrettiano)
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1985 – «Credevo totalmente negli Style Council. Nei primi
anni ne ero ossessionato. Ci vivevo dentro, respiravo ogni cosa. Ogni parola la
intendevo davvero, ogni gesto lo sentivo profondamente. Our Favourite Shop
ne è stata la realizzazione.» Così parlò Paul Weller. E quell’album – uscito
l’8 giugno - fu veramente un capolavoro firmato insieme all’altro sodale della
band, Mick Talbot. Chi, come me, all’epoca sedicenne, guardava con diffidenza
al soul, al funky e al R’n’B, ormai veicolati dal pop elettronico, dovette
ricredersi, perché in quel loro negozio preferito, già dalla copertina si
capiva tutto. Tra le carabattole si scorgeva un mondo mod lontano quasi due
decenni e quei visi, quelle icone, quei simboli erano un richiamo verso tale
tradizione, senza perdersi troppo in preconcetti ideologico-musicali. Poi, appena posai
il disco sul piatto, per tutta la stanza sprizzò un caleidoscopio musicale di
variegati elementi: easy listening (Homebreakers), Motown (Come to
Milton Keynes, Luck e Walls Come Tumbling Down!), ritmi
latini (All Gone Away e With Everything to Lose), pop (Boy Who
Cried Wolf e A Man Of Great Promise), funk/punk (Internationalists),
waltz jazz (Down In The Seine), acid jazz (la title track), soul disco (The
Lodgers (Or She Was Only a Shopkeeper's Daughter)) e ballad
dall’accompagnamento cameristico (A Stones Throw Away).

Un bel frullato che, però, manteneva inalterato un
sapore squisitamente british. I testi, inoltre, denunciavano ciò che non andava,
avvallando la necessità di credere in qualcosa di nuovo e più profondo,
nonostante un decennio troppo easy. Di lì in avanti non abbandonai mai più The
Modfather e, in men che non si dica, scoprii pure gli Who. Che strana vita era
quella di un adolescente post-beatlesiano a metà degli anni Ottanta!
Ah,
per la cronaca, in quel giugno del 1985 uscirono anche: Misplaced Childhood
dei Marillion, Fables of the Recostruction dei R.E.M., The Dream of
the Blue Turtles di Sting e Steve McQueen dei Prefab Sprout.
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1995 – In un decennio dominato da chitarre grunge, britpop
e contaminazioni elettroniche mainstream, Björk pubblica Post, un album
che suona come un messaggio dal futuro. Se il suo debutto solista (Debut,
1993) aveva già mostrato la voglia di rompere con le convenzioni del pop, Post
è il momento in cui l’islandese si libera completamente da ogni forma
predefinita, costruendo un mondo musicale stratificato, sorprendente e
personale. L’album è una miscela sorprendente di elettronica, trip-hop,
industrial, jazz e orchestrazioni, resa possibile grazie alla collaborazione
con produttori come Tricky, Howie B e Nellee Hooper.
Ogni brano è un piccolo
universo sonoro: è un’esperienza unica quella di partire da Hyperballad
(sospesa tra beats elettronici e malinconia) per arrivare ad un personale
omaggio al jazz orchestrale con It’s So Quiet. Ancora oggi, Post
resta uno dei manifesti più audaci degli anni ’90: un album che non si limita a
seguire le mode, ma le crea (magari nella nicchia).
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