Diciamo
che la "mamma dei cretini è sempre incinta...", che cambiano le
generazioni ma di bigotti, fanatici, esaltati, siamo sempre pieni!
Questo a
ricordare quella che fu definita la "notte
dei cristalli" per i Beatles.
Il 29
luglio 1966 la
rivista americana "Datebook", ripubblica la famosa intervista che John Lennon aveva rilasciato a marzo dello stesso anno al
quotidiano inglese "Evening Standard". “Osò” dichiarare che il
cattolicesimo era allo sbando… "Destinato a svanire. Chi vivrà vedrà se ho ragione o no. I Beatles sono
più popolari di Gesù Cristo adesso. Non so chi morirà per primo, se il
cristianesimo o il rock'n'roll. Gesù era nel giusto ma i suoi discepoli non lo
erano altrettanto".
Apriti
cielo… i cristiani americani, più i "soliti idioti" (incoraggiati da
molte radio locali) organizzarono dei "Beatle Bonfire",
punti di raccolta dove bruciare i vinili dei Beatles, addirittura li compravano
per bruciarli, pensate che coglioni!
Oltre ad
aumentare le vendite dei vinili… a livello collezionistico, hanno
"bruciato" migliaia di dollari!
Credo che
oggi vedremmo le stesse scene se qualcuno nominasse, Allah, Buddha,
Totti, Donnarumma, Maradona...
Per non
dimenticare… e possibilmente non ripetere!
Seconda puntata del progetto Fufluns con protagonisti Simone Cecchini
(voce, chitarra acustica, armonica, charango), Alfio Costa (tastiere
assortite), Guglielmo Mariotti (basso, mandola elettrica, chitarra 12
corde), Marco Freddi (batteria) e Simone Coloretti (chitarra
elettrica).
Come per il precedente “Spaventapasseri”,
uscito nel 2016, anche per il nuovo “Refusés”,
la gestazione è stata lunga e travagliata. Oltre tre anni e mezzo dai primi
incontri, nell’ottobre 2017, alle registrazioni finali, nel dicembre 2020, fino
alla pubblicazione ai primi di luglio di quest’anno.
Il fil rouge che lega le nove
composizioni dell’album (uscito anche in vinile a tiratura limitata) sono le
sculture in terracotta, stoffa e acrilico i refusés appunto, eseguite da Beppe
Corna, le cui maschere e forme grottesche hanno ispirato la band che ha
descritto i suoi “esclusi”, i suoi “sfruttati”, i suoi “sconfitti”.
I testi, al solito, sono appannaggio
della sensibilità di Simone Cecchini, mentre le musiche vedono coinvolta
praticamente tutta la band. Liriche quanto mai fondamentali per apprezzare
appieno il lavoro. Si denuncia lo sfruttamento infantile nelle miniere di
diamante in Sierra Leone, si condanna la guerra ricordando la distruzione del
ponte di Mostar o riportando alla memoria le combattenti curde contro l’Isis o
le stragi di bimbi in Siria, senza dimenticare le persecuzioni degli
omosessuali in Cecenia. Insomma, argomenti a tinte forti che vengono affrontati
con grande rispetto e senza banalizzarli.
Il lavoro si apre con “Sierra
Leone”, brano ficcante con sezione ritmica ben centrata, hammond a go-go,
chitarra pungente e la voce coinvolgente ed “arrabbiata” di Cecchini a “tinteggiare”
il dramma delle liriche. Il finale, introdotto dal pianoforte di Costa, è di
struggente malinconia.
Colpisce il contrasto elettro-acustico
che cadenza le strofe di “Martirio d’un falegname”: ruvido
l’inizio, lirico l’estratto centrale, poi ancora ritmo sostenuto e chiusura in
grande mestizia con Cecchini a scandire l’ultima strofa su una base di
pianoforte e chitarra “sanguinante”.
In “Canzone per Iris” (pseudonimo
di Italia Donati “costretta” al suicidio per le accuse infamanti che dovette
subire) vibra la 12 corde di Mariotti, ma non mancano i momenti più tirati dai
quali emerge la “rabbia” delle liriche. “Desaparecido italiano” è
un “sano” hard rock molto seventies che si fa apprezzare anche per lo splendido
inserto “sudamericano” dettato dal charango e per un energico “solo” di
Coloretti.
“Il tuffatore dello Stari Most”
(ottime le linee di basso di Mariotti) è meno avventurosa dal punto di vista
strumentale, prediligendo, per una volta, le tinte color pastello. Comunque,
apprezzabile.
In “Rosa del deserto”
esce l’anima cantautoriale di Cecchini, soprattutto nella prima metà.
Successivamente, il brano si increspa con un bel “guitar-solo” per ritornare
poi nel pacato alveo iniziale.
“Blu oltremare” è il
sentito omaggio a Fra Claudio Canali che da rocker è divenuto frate. Pure qui
brano a “marce basse” nelle sezioni cantate e dirompenti in quelle strumentali
con il synth di Costa che si lascia andare ad un pregevole intervento.
Acceleratore a tavoletta per l’inizio di “Telefonata a Putin” con
hammond protagonista e ritmica decisa. Non basta una parentesi di quiete per
dissolvere l’energia che il brano porta avanti fino al termine.
Chiusura con “Canto dei bambini
senza voce” dove emerge la versatilità di Costa tra mellotron, hammond,
synth e piano, meno convincente, invece, l’aspetto melodico… ma proprio se
vogliamo cercare il classico pelo nell’uovo.
Un lavoro, “Refusés”
che ci ha lasciato completamente soddisfatti, con liriche intense e musica di
qualità e certamente un passo avanti rispetto al, già più che buono, “Spaventapasseri”
di qualche anno fa.
“Documento della controcultura
riguardante la musica nel tentativo di togliere dalle mani dei
"padroni" uno strumento mostruoso di corruzione che, oltre al
vergognoso guadagno, era usato nell'ottica del tempo per uccidere e castrare la
fantasia, la rabbia, la creatività, i desideri di felicità e di socialismo di
milioni di giovani. “
Editore: Savelli, Roma, 1974, Prima
Edizione
--------------------
Il 1974 credo fu l’anno delle
contestazioni più dure, da parte dei collettivi di sinistra, contro i “padroni
della musica”. Nello stesso anno uscì un “Vademecum” dal titolo “Riprendiamoci
la musica”: ce n’è per tutti!
A rileggerlo oggi si prova un misto
di tenerezza e rabbia, ma la cosa va collocata in quelli anni dove tutto veniva
contestato. Anche io adottavo la mia controcultura con lo “scavalco”, ma perché
figlio della classe operaia, medio bassa, non potevo permettermi tutti qui
concerti (e negli anni ’70 ce ne erano per tutti i gusti). Peccato che gli
articoli non fossero “firmati”, magari erano scritti da qualche compagno
“figlio di papà”, che si divertiva a fare l’alternativo, con “Lotta continua” bello
in mostra, piegato nel taschino posteriore dei jeans, e mai letto! Magari è lo
stesso che oggi paga 200€ per Gilmour a Pompei, o qualche altro musicista che
contestava negli anni ’70.
Aldilà delle mie considerazioni,
cliccate il link e leggete, soprattutto quelli che non hanno vissuto quegli anni!
Spettacolare concerto dei Metamorfosi, dopo quattro anni di assenza dal vivo,
nella splendida cornice delle “Cave di Peperino” di Marino, ormai
diventato luogo “cult” per il prog, dopo i concerti di Gianni Nocenzi e Banco
del Mutuo Soccorso.
Allego breve filmato e commento
pubblicati dalla pagina facebook del Comune di Marino.
Per i grandi critici della tastiera,
sempre presenti in rete e sempre assenti fisicamente… ma capaci di scrivere
libri, saggi e fare programmi specializzati… che grande immaginazione avete,
beati voi!
Inferno, Purgatorio e Paradiso: tutto
sotto il teatro che ha per tetto il cielo delle Cave di Peperino di Marino,
impareggiabile ambiente naturalistico per imprimere la giusta atmosfera al
terzo live dopo quello di Gianni Nocenzi che ha tenuto a battesimo questa
impareggiabile location, il mitico Banco del Mutuo Soccorso e, sabato 24 luglio
2021, un’altra storica band rock progressive: Metamorfosi.
La musica, la storia, la poetica
hanno catturato il pubblico e Marino, ancora sotto i riflettori di una notte
d’estate.
La singolare rilettura della commedia
dantesca, che ha concluso il ciclo di iniziative marinesi dedicate al Sommo
Poeta nel VII centenario della sua scomparsa, è stata proposta dalla band
romana, formatasi alla fine del 1969, “Metamorfosi”, e organizzata
dall’Associazione La Terzina, in partenariato con il Comune di Marino e il
patrocinio di Città Metropolitana di Roma Capitale - Adi (Associazione degli
Italianisti - GRUPPO DANTE).
Sul palco i musicisti Jimmy Spitaleri
(voce), Enrico Olivieri (tastiere), Fabio Moresco (batteria), Leonardo Gallucci
(basso e chitarra), con la partecipazione del relatore prof. L. Rino Caputo (ha
scritto, tra l’altro, vari saggi su Dante, Petrarca e Manzoni, è direttore
della Rivista Internazionale “Dante”) e Mario Alberti (musicista, compositore,
Presidente Associazione La Terzina ed esperto di musica antica) che hanno
introdotto i brani della trilogia musicale ispirata al Sommo Poeta tra cui i
noti brani “Cielo di Marte”, “ L’Angelo nocchiero”.
“Il progetto che abbiamo messo in
campo grazie agli organizzatori, l’Associazione La Terzina, e agli uffici
comunali e all’Assessore Santamaita che si sono spesi fino alla fine per
consentire che tutto questo potesse accadere” ha detto il Sindaco Carlo Colizza
“è un’esperienza di alto valore riconosciuta soprattutto da quegli istituti che
si occupano della diffusione della cultura dantesca in Italia e nel mondo”.
“Dare la nota al testo” ha
spiegato sul palco il professor L. Rino Caputo “poesia e musica, musica che
interviene sulla poesia, è un atto connaturato all’opera di Dante, un’opera
appunto fatta per essere tradotta in musica”.
“Dante non ha mai entusiasmato
tanto” ha detto a caldo Ada Santamaita, Assessore alle Attività Produttive
e Gianni Nocenzi, presente al concerto, ha sottolineato come un sogno può
uscire dall’utopia quando c’è chi lo sa realizzare concretamente “Quella delle
Cave di Peperino " ha detto Gianni Nocenzi "grazie
all’amministrazione comunale, quale luogo deputato alla cultura è oggi una
realtà e questo mi rende felice”.
Queste le altre date dove potrete
vedere i Metamorfosi dal vivo:
05 agosto 2021
Trieste Summer Rock Festival
21 agosto 2021 Castiglione del Lago,
Rocca del Leone
“La classe operaia va in paradiso…
però si è rotto l’ascensore e deve andare a piedi”
(Francesco di Giacomo)
21 luglio
Ci sarai sempre. Buon viaggio
Capitano!
Wazza
Il ricordo di “Pince Faster”
Sandrino Pigozzi, in arte "Prince Faster",
noto speaker della capitale, Radio Rock, Radio Popolare…
Francesco di Giacomo
In questi mesi ho provato un paio di
volte a mettermi davanti alla tastiera e scrivere di lui, di come l’ho
conosciuto, scrivere e raccontare un uomo.
Raccontare anche quello che
rappresentava per me Francesco Di Giacomo musicista; non ci sono mai riuscito,
qualunque cosa abbia tentato di scrivere mi sembrava banale e priva di
significato, vuota, inutile.
Ci riprovo oggi sperando di scrivere
qualcosa di vagamente leggibile e sensato, ma non è facile per niente.
Il primo concerto del Banco che vidi
fu quello al convento occupato che stava alla fine di via Cavour, erano gli
anni Settanta.
Il primo disco lo comprai con tanti
sacrifici quando ero ancora un ragazzino, mi mettevo i soldi da parte come un
carbonaro, era il 1972 o 73 non ricordo con precisione, ma Darwin mi cambiò la
vita, e chi ha la passione per la musica sa esattamente di cosa parlo, certo
assieme a quel disco così pieno di musica ascoltavo anche Jimi Hendrix, i Pink
Floyd e tutte le “fermate” musicali che un adolescente faceva all’epoca.
Lo chiamavano Big perchè era
veramente Grande, lui, immerso in quella tuta che faceva parte di lui. Li vidi
tante volte dal vivo, anche a Villa Ada con l’orchestra e i ballerini, non
avevo mai visto uno spettacolo del genere, e in quanto ragazzino qualunque cosa
mi incuriosiva, mi entusiasmava, e quello spettacolo mi è rimasto piantato nel
cuore come una saetta.
Ma la vita ogni tanto ti riserva le
“sue” belle sorprese; iniziai a fare radio e iniziai a vivere il mondo della
musica più da vicino, finchè un giorno la mia vita, e la vita del Banco si
incrociarono dentro una radio e davanti ad un microfono. Credo di averli
travolti di domande, restammo un paio d’ore in diretta a parlare di musica;
c’era Vittorio, Francesco, e Rodolfo, penso di avergli chiesto qualunque cosa,
ma loro se ne stavano li tranquilli e sereni a rispondere alle domande di un
ragazzetto matto che straparlava. Grandi professionisti.
Poi un giorno di molti anni dopo, di
molte interviste e molti concerti, li incontrai per caso in un paesino della
Toscana, fu proprio lì che conobbi l’uomo Francesco Di Giacomo. Un uomo
innamorato dell’arte, un appassionato di tutto e con tanta voglia di “sapere”,
era uno che guardava la scena complessiva e si innamorava dei particolari. Ma
era anche un compagnone, uno di quelli che quando “raccontava” si faceva
ascoltare, ma era anche uno che ascoltava molto, ti guardava e rideva nascosto
dietro quella sua barba eterna.
I “dopo concerto” erano dei triclini,
nonostante suonassero in media 2/3 ore, alla fine di ogni concerto uscivano e
si mettevano a chiacchierare con tutti, saluti da una parte, abbracci
dall’altra, “che mi firmi questo disco? che ti fai una foto? ” e loro li pronti
e sempre disponibili, Francesco era il più fracassone di tutti, rideva e
scherzava come un ragazzino al primo giorno di scuola (chi è stato ai loro
concerti mi è buon testimone), mai una parola fuori posto verso il suo pubblico
(eppure, “noi” pubblico siamo dei veri rompicoglioni diciamocelo) che poi alla
fine, molti di quelli che andavano ai loro concerti erano diventati quasi “di
famiglia”.
Ho avuto occasione di conoscerlo
anche più profondamente Francesco, in uno studio di registrazione alle prese
con un disco, sono stato li per degli interi pomeriggi mentre il Banco scriveva
“13″ e sono riuscito ad apprezzarlo anche in quei frangenti così complicati e
quasi “mistici” mentre con un pezzetto di carta e una matita, appoggiato ad uno
spigolo del tavolino di fronte ad una vetrata, scriveva i testi del disco, e
poi se li rileggeva, poi se li cantava nella testa, e poi li cantava veramente,
e di tanto in tanto si girava e diceva… “a Vittò che dici te piace?!” “a
Rodò, prova un pò a mettece na chitaretta”.
Ecco, lui era fatto così, era uno
leggero perché tutto gli scorreva lieve, e anche un disco che è una cosa
davvero impegnativa, gli scorreva lieve addosso, gironzolava per le stanze,
alzava gli occhi, si fermava, ripartiva, cantava, ti guardava… “a Sandrì che
dici pò annà!?!?” e io gli rispondevo- a Francè, ma io… ma che ne so, mica
faccio il musicista” e lui dietro la sua barbona se la rideva pacifico e sereno
come una laguna.
So per certo, che tanta gente che lo
ha conosciuto potrebbe raccontarvi altrettanti aneddoti, altrettanti momenti di
vita, potrebbe raccontarvi più e meglio di me quell’essere umano che viveva
forte dentro i suoi occhi.
Aveva quegli occhi che ti
spiazzavano, perché erano pieni di musica, pieni di gesti accennati, di sorrisi
quasi nascosti per la tanta timidezza che esprimevano, e tutti se lo
coccolavano come fosse uno di famiglia, perché lui ti ci faceva sentire uno di
famiglia, anche solo se ti incrociava con un semplice sguardo, e solo le
persone molto pulite riescono in questo difficilissimo gesto.
Mi piaceva quell’uomo, perché era uno
che veleggiava.
Libro: Jethro Tull 1968-1978 - The Golden
Years (Europa Edizioni - 2018)
di Giuseppe Scaravilli
Recensione a cura di Fabio Rossi
I veri cultori del rock progressivo nostrano conoscono molto bene Giuseppe
Scaravilli per essere da oltre trent’anni il leader dei siciliani Malibran,
una band con in attivo la bellezza di dieci album e che ha saputo ritagliarsi
uno spazio significativo nell'ambito di questo affascinante genere musicale. Purtroppo,
Giuseppe dal 2012 combatte contro una grave patologia che ne ha ridotto la
capacità di deambulazione. Proprio per questo motivo ha cominciato a dedicarsi alla
scrittura con “Crossroads, gli incroci del Rock” (Passim Editore - 2017)
e, a distanza di un anno, ha poi sfornato “Jethro
Tull 1968-1978 - The Golden Years” (Europa Edizioni),
dimostrando una profonda conoscenza della musica degli anni Settanta.
La sua seconda opera letteraria riveste un’importanza peculiare
atteso che, sebbene i Jethro Tull siano stati una delle band più originali e influenti
della storia del rock, paradossalmente in Italia nessuno si è peritato di
scrivere libri su di loro (ad eccezione degli introvabili “Il Flauto nella
Roccia” di Giovanni Zito - Geronimo Edizioni - 1997 - e di “Jethro Tull” di
Michele Manzotti - Editori Riuniti - 2003). “Jethro Tull 1968-1978 - The
Golden Years” è uscito in occasione del cinquantesimo anniversario della
compagine guidata dall’istrionico Ian Anderson, un bel tributo alla gloriosa
carriera del combo britannico. Il libro si focalizza sui primi dieci anni di
attività, quelli più rilevanti sotto il profilo artistico, narrando con dovizia
di particolari le vicissitudini della formazione.
Lo stile è scorrevole, semplice, sintetico, nonché privo di quella
presuntuosità e saccenteria che inflazionano la critica musicale italiana: non
posso che condividere tale aspetto in quanto anche il mio modo di scrivere
ricalca tali caratteristiche.
Corredato di splendide fotografie, è suddiviso in capitoli incentrati
su ciascun album a partire da This Was fino al monumentale doppio live “Bursting
Out” del settembre 1978.
L’analisi dei dischi,
comprese le registrazioni francesi "abortite" del 1972, è
approfondita ed evidenzia chiaramente la dedizione di Giuseppe nei confronti
dei Jethro Tull.
Il testo segue un meticoloso percorso cronologico nel quale ci si
sofferma, tra l’altro, sulle tournée e le relative setlist, sugli abiti di
scena indossati e i molteplici cambi della line up, includendo qua e là chicche
stuzzicanti che non mancheranno di esaltare gli appassionati.
L’ultima sezione è un’appendice sulle attività del gruppo dal 1978
fino ai giorni nostri ed è essenziale soprattutto per i neofiti più attenti che
desiderano conoscere, seppur sinteticamente, anche il resto della loro storia.
L’autore ha affermato: "Io stesso avrei sognato di vederlo
sugli scaffali di una libreria…", beh, concordo in pieno e ancora oggi,
girovagando per librerie a Roma, mi fa piacere trovare questo saggio e
consigliarlo agli interessati.
Concludo ricordando che il 10 marzo 2018, ormai più di tre anni
fa, presso il Jailbreak Live Club di Roma il sottoscritto e Aldo “Wazza” Pancotti
(esperto matricolato dell’universo “tulliano”) hanno allestito un banco per il
merchandising esponendo un congruo quantitativo di copie del libro di
Scaravilli e memorabilia di ogni tipo (tra cui spiccava un 45 giri del mitico
Bourée (“Nel brano c’è un accordo sbagliato, come farà notare in seguito David
Palmer alla band” - pag 39 -… lo sapevate?). Sul palco quella sera si esibivano
gli Undertull (una tribute band tra le più conosciute capeggiate da Gianluca De
Rossi) per celebrare il decennio d’oro dei Jethro Tull… mancavi solo tu
Giuseppe e sarebbe stato davvero tutto perfetto!
Un’anticipazione succosa: Scaravilli mi ha confidato che sta
preparando un nuovo libro sui Jethro Tull e non vedo l’ora di leggerlo!
Andrea Barricelli è un giovane avvocato romano appassionato di
letteratura, nonché ex storico redattore del sito http://www.metallized.it/di cui,
per cinque anni, ho fatto parte anch’io. Mi aveva confidato che da qualche
tempo coltivava il desiderio di pubblicare un suo romanzo e, dopo alcuni tentativi
infruttuosi, finalmente la casa editrice capitolina Il Seme Bianco ha
trovato intrigante il suo racconto intitolato Dominio,
coronando così il sogno dell’autore di vederlo trasformato in un libro.
Uscito nel settembre del 2018, l’opera
narrativa è inquadrabile nel genere fantasy con ampi riferimenti a Stephen King
(non è un caso che Andrea abbia voluto riportare una frase estrapolata dal
romanzo “L’Ultimo Cavaliere”), Dan Brown, Terry Brooks e J.R.R. Tolkien.
Lo stile di scrittura è scorrevole, semplice e
privo di superflue divagazioni, consentendo al lettore di rimanere saldamente
ancorato all’avvincente trama ricca di colpi di scena.
Nel corso della lettura, mi è tornato in mente
il celebre aforisma di Albert Einstein: “Io non so come si combatterà la
terza guerra mondiale, ma so che la quarta si combatterà con pietre e bastoni.”
La vicenda si svolge nel 2031. Il 2 aprile di
dieci anni prima il pianeta terra fu devastato da un conflitto nucleare
provocato dalla contrapposizione di due fazioni, quella del Dominio e quella
della Ribellione. Malgrado le catastrofiche conseguenze, le armate nere dei
dominanti continuano a contrapporsi ostinatamente a quelle rosse dei ribelli.
Si combatte, però, usando le spade, le lance, gli archi e le catapulte;
insomma, l’umanità è miseramente regredita al medioevo, proseguendo un’inutile
carneficina motivata dalla smania di vendetta e dalla brama di potere.
Il protagonista, Kyle Celaphon, è uno dei leader
dei Ribelli e rammenta l’intraprendente Professor Langdon, che i fan di Dan
Brown conoscono molto bene, quando intraprende la ricerca del Potere della
Terra, una sorta di Santo Graal che potrebbe essere la chiave per raggiungere
la tanto agognata pace. Kyle finirà per portare con sé il pesante fardello
della verità sulla distruzione del mondo imputabile, nella sua fase iniziale,
alla fazione di cui fa parte: sarà una delle rivelazioni del Potere della Terra
trovato in una grotta sotto la Basilica di San Pietro. Dominio è anche la
storia della profonda amicizia tra Kyle e Kevin che condividono il dolore di
aver perso i genitori a causa della guerra. Non poteva mancare, poi, il tema
dell’amore che riveste un ruolo apparentemente secondario, ma che in realtà costituirà
la forza propulsiva che consentirà a Kyle di impegnarsi con tutto sé stesso nei
combattimenti cruciali.
Alice, la sua donna, è anche la speranza per
un futuro luminoso e lontano dalle armi, cercando di ricostruire insieme quello
che la follia umana ha distrutto. Le descrizioni delle battaglie sono accuratamente
dettagliate e trovano palese ispirazione in quelle contenute nell’immortale Il
Signore degli Anelli, senza però scadere nella convenzionalità.
Non intendo approfondire ulteriormente la
trama del romanzo per non “spoilerare” troppo, ma posso affermare che Dominio
è davvero un libro piacevole, senza troppe pretese e con un finale inaspettato
che lascia intendere al lettore un possibile sequel… e, infatti a maggio è
uscito Equilibrio e Cambiamento (CTL – Livorno) … non resta che
procurarselo insieme a Dominio e Ribellione (CTL – Livorno) -
riedizione di Dominio con ben quaranta pagine in più.
Forse non tutti sanno
che... nel 1975Rory Gallagher,
geniale chitarrista irlandese, "rischiò" di entrare nei Rolling
Stones.
Dopo che Mick Taylor
aveva lasciato la band, nel 1975, Keith Richard e Mick Jagger, invitarono
Gallagher a suonare con loro a Rotterdam. Dopo alcuni giorni di jam session,
gli Stones, (nonostante l'esito positivo del manager Marshall Chess),
tentennavano nel dare la risposta. Rory Gallagher in procinto di partire per il
tour giapponese, andò dritto per la sua strada. I Rolling Stones optarono poi
per Ron Wood.
Di tutto un Pop…
Wazza
"Beh, accadde
prima dell’entrata di Ronnie Wood e stavano facendo audizioni a molti artisti.
Ho suonato un po’ con loro e credo che piacessi a Mick Jagger e mi volesse, ma
Keith Richards stava piuttosto male a quel tempo e non ero certo che
rimanessero insieme. C’erano molte incertezze, poi avevo prenotato concerti in
Giappone, così rifiutai e fu l’ultima volta che li sentii. Così doveva andare,
credo."
Rory Gallagher. Il bluesman bianco con la camicia
a quadri
Antonio Pellegrini intervista l'autore, Fabio Rossi
Rory Gallagher è senza dubbio uno degli artisti rock’n’ blues
bianchi tuttora più amati tra i fan.
Nato a Ballyshannon, in Irlanda, nel 1948 e
morto a soli 47 anni per le complicazioni di un trapianto di fegato, il musicista
è ricordato specialmente per gli appassionanti spettacoli dal vivo e per l’esplosivo
sound chitarristico che ha affascinato tante platee durante la sua carriera. Indimenticabili il live all’ “Isle Of Wight
Festival” del 1970, impresso su pellicola per i posteri, e l’album dal vivo “Irish
Tour ‘74”.
Per approfondire la sua figura e capire
qualcosa di più della sua personalità, ho intervistato uno dei maggiori esperti
italiani di Gallagher, Fabio Rossi, autore della biografia “Rory
Gallagher. Il bluesman bianco con la camicia a quadri”.
L'intervista...
A: Ciao Fabio, vista la tua esperienza in
materia, vorrei porti alcune domande per ripercorrere insieme le tappe salienti
della carriera di Gallagher. La prima domanda riguarda la formazione musicale
di Rory.
F: Ciao Antonio e grazie dell’opportunità
concessami! Sia la madre che il padre di Rory possedevano doti artistiche. Il
papà, in particolare, era un musicista di talento. Un’altra influenza su di lui
la ebbe uno zio di nome Jimmy che portò dall’America il catalogo di Jimmie
Rodgers, Hank Snow e tanti altri. Rory, poi, si innamorò presto di Elvis
Presley, Lonnie Donegan (il padre dello skiffle) e soprattutto del mitico Muddy
Waters. Il blues gli era entrato nell’anima per rimanervi per sempre.
A: Parliamo ora del power trio dei Taste,
attivo dal 1966 al 1970. Qual è la rilevanza dei Taste nella storia del blues
rock e quali sono le loro principali imprese da ricordare?
F: La formazione classica dei Taste
(Gallagher alla chitarra e voce, McCracken al basso e Wilson alla batteria) è
stata anche la migliore mai avuta da Rory. Lo stesso Gerry McAvoy, il bassista
che accompagno’ in quasi tutta la sua carriera l’artista nato a Ballyshannon,
sostiene che la migliore sezione ritmica irlandese era all’epoca quella
composta dal duo McCracken/Wilson. La rilevanza del trio nella storia del
rock’n’blus è enorme a fronte dei due soli album in studio pubblicati. Peraltro,
la band stava sperimentando altre vie come l’ascoltatore più attento può
percepire godendosi On The Boards che contiene momenti spiccatamente
inquadrabili nel progressive. La loro memorabile esibizione al Festival dell’Isola
di Wight costituisce l’apice della loro saga.
A: Gallagher ebbe l’onore di suonare anche
nelle “London Sessions” di Muddy Waters. Cosa ci puoi dirci di questa
collaborazione?.
F: Ho accennato a quanto Rory ammirasse
Waters. Per cui collaborarci fu uno dei momenti più belli della sua vita. Lo
riaccompagnò al suo hotel un paio di volte dopo le registrazioni con una Ford
Executive. Ebbene, Rory la parcheggiò davanti alla sua casa a Cork anche se
andava rottamata cadendo letteralmente a pezzi: si soffermava a guardarla
perché lì dentro poteva vedere ancora Muddy sul sedile anteriore mentre fumava
sigari.
A: Veniamo ora al periodo post Taste. Quali
sono le tappe più significative della sua carriera solista?
F: Potrei risponderti semplicemente che
Rory è stato sul palco per tutta la sua vita limitandosi a rari episodi di
riposo e al tempo strettamente necessario per incidere i suoi dischi solisti.
Dava tutto dal vivo, quella era la sua dimensione ed è per questo che non mi
stancherò mai di dire che ogni amante della vera musica non può non avere nella
sua personale collezione i tre live incisi da Gallagher: Live! In Europe, Irish
Tour ’74 e Stage Struck.
A: Da chitarrista quale sono, mi piacerebbe
conoscere qualcosa di più del sound di Rory. Cosa ci puoi raccontare in merito?
F: La sua chitarra preferita era una Fender
Stratocaster Sunburst del 1961 che acquistò di seconda mano nel 1963 per 100
sterline. La suonò talmente tanto che era scrostata all’inverosimile! Da quello
strumento sono nate la maggior parte delle composizioni dell’irlandese. Un
amore durato tutta una vita. Riguardo al sound Rory fonde il rock al blues
includendovi quello spirito celtico che rende la sua proposta unica. Ha
strizzato l’occhio anche all’hard rock facendosi coadiuvare dal produttore
Roger Glover, nonché bassista dei Deep Purple. Chissà cosa avrebbe potuto
ancora fare se non fosse morto così giovane.
A: A
distanza di oltre venticinque anni dalla sua scomparsa, qual è il lascito
artistico di Gallagher?
F: Una sola risposta: enorme. Basti pensare
agli innumerevoli eventi a lui dedicati in tutto il mondo. Penso sempre che se
avesse avuto più pazienza in studio e se fosse stato coadiuvato da
collaboratori di talento forse avrebbe potuto pubblicare quel capolavoro
assoluto che manca nella sua discografia.
A: Dal tuo volume dedicato a Rory, che ho letto
con interesse già dalla prima edizione, si percepisce il tuo amore per questo
artista. Cosa ti lega in particolare a lui?
F: L’ho conosciuto acquistando a scatola
chiusa il 33 giri Live! In Europe. Ero rimasto ipnotizzato dalla copertina e fu
amore a prima vista. Correva l’anno 1982. Non avrei mai pensato che un giorno
avrei pubblicato un libro su di lui... eppure è successo. Rory per me è sul
podio dei migliori chitarristi al mondo con Jimi Hendrix e Duane Allman.
A: Il tuo libro è stato ripubblicato nel luglio
2021 da Officina di Hank. Ci sono differenze rispetto alla prima edizione?
F: Innanzi tutto c’è una nuova prefazione a
cura di Tolo Marton, poi tante notizie in più, migliorie varie e una nuova
splendida copertina. Molte persone che avevano già comprato la prima edizione
hanno preso da me anche la seconda tanto è grande l’amore verso Rory.
A: Un’ultima curiosità su di te. Sei uno
scrittore eclettico, che ha pubblicato saggi musicali su argomenti variegati:
dal prog al metal, passando per il blues di Rory. Quali sono i confini della
tua passione musicale e quali sorprese ci riservi per il futuro?
F: Dopo due libri sul prog, uno sul blues e
uno sul metal il prossimo sarà sul jazz, o sul punk o forse sulla new wave. Non
lo so devo ancora decidere (ride).
A: Grazie mille!
F: Un saluto a tutti i lettori di Mat2020!
Rory On!
Partendo dal presupposto che nulla è iniziato
e niente finirà, ma che il Tutto è soltanto in continua evoluzione (poi
capirete il/i perché), piace dover parlarvi dell’Officina
F.lli Seravalle, gruppo friulano giunto al terzo lavoro dal titolo “Blecs”.
Questi artigiani del saper fare creano musiche
dal deciso sapore psichedelico, in parte sperimentale ma con un forte
ancoraggio nel groove. Musica per la mente e per il corpo quindi, che prende
vita da ogni impressione o stimolo passi nei paraggi dei due musicisti.
È musica eterogenea, mai disposta a riposare
su posizioni acquisite, dallo stile volutamente zigzagante. Niente linee
predefinite qui, ogni impulso all’operare è accolto e trasformato in musica,
ogni sensazione diventa occasione per un viaggio sonoro. È musica officinalis, dotata di proprietà terapeutiche, cura contro
le derive logoranti della vita quotidiana. Non c’è bisogno di chiedersi perché,
basta ascoltarla.
La band prende le mosse dalla pubblicazione da
“Assurdo”, al momento l’ultimo capitolo discografico della storica band
Garden Wall oltre che dalla comune partecipazione al Cd “James Frederick
Willetts” (dell’omonimo progetto in cui i due sono affiancati dal
chitarrista Andrea Massaria e dal filosofo Raoul Kirchmayr).
I fratelli cominciano a lavorare come duo nel
2017 e giungono all’esordio discografico, per Zeit Interference, succursale
avantgarde di Lizard records, l’anno successivo con “Ûs frais cros fris fics
secs” che riceve ottime recensioni e suscita un certo interesse presso gli
ascoltatori pronti a mettersi in gioco e animati da curiosità per qualcosa che
vada al di là dei clichè che infestano ormai i generi musicali. L’anno seguente
il duo bissa con “Tajs!”, un’opera che amplia ulteriormente il loro
suono e incrementa il loro seguito.
E ora “Blecs”, per l’appunto. Ogni
azione che abbia a che fare con l’espressione, dunque l’arte in primis, tende a
rammendare le ineludibili falle che si aprono nella parabola di ognuno. La
parola friulana “blec” indica appunto il rattoppo. Si tenta di chiudere le
voragini, le epifanie del caos che alla fine conseguiranno l’inevitabile
vittoria. L’arte come “blec”, qualcosa di intrinsecamente temporaneo, fugace,
caduco, mentre nuove, imprevedibili crepe si aprono nel muro. La musica come
antidetonante, effimera misura di contrasto alla muta esplosione. L’entropia,
verme del tempo che corrode la materia, sbaraglierà ogni futile resistenza, sfonderà
ogni barriera, dilanierà ogni risibile tentativo umano di comporre lo strappo,
di assicurare durata, di superare il tempo. Non ci restano che i “blecs” cui
attaccarci per garantirci ancora il respiro.
Tutte le copertine dei dischi sono quadri del
padre dei due, l’artista Giovanni “Ninos” Seravalle, che apportano una
dimensione visiva alla loro musica.
L’apertura è “Imprevisto cristallo”,
espansione in assenza di gravità, vicina al messaggio di Klaus Schulze,
punteggiata da soffuse gocce di futuro. Ritmo-non-ritmo, tratteggia un’intera
filosofia.
“Shady business”, minacciosa al punto
giusto, è ingrediente e condimento, un’isola dove i contrappunti sono gli
alberi più grandi e rigogliosi. Volutamente sghemba, parte dalla parte oscura
di ognuno di noi, per essere vista come tutt’altro, nella morsa ansiosa della
giostra dagli specchi deformanti.
“Digital panoptikon”, loop vorticoso
dall’infinito groove, messaggio di prigionia al cospetto del grande occhio, noi
(tutti) costantemente controllati, scelti, rimossi, nuovamente aggiunti. Pazzia
d’oggigiorno? No, semplice vita non scelta, col blando pensiero di esserla.
“Luce scettica”, armonia, tregua,
riflessione. Scettica e asettica luce malfidente. Perpetuo orizzonte temporale
dalla spinta propulsiva, che si estingue quando lo si intende come miraggio.
“Doppelganger”, ossia quel fenomeno
esoterico corrispondente all’alter ego che abita in ognuno di noi. Decidiamo di
escluderlo o non possiamo farlo? Possiamo eluderlo oppure ne siamo
inconsciamente succubi? Ci fa paura o ci rafforza? Un pozzo di risposte è lì ad
aspettarv(c)i.
“Posto di blocco”, incubo che fa della
contemporaneità il fulcro del problema. Schedulati e (raf)fermi, camminanti
stando fermi, propagati nell’oggi da un altrove che presto conosceremo. Nulla
inizia, niente finisce (riferimenti d’altrove). “Of rain, elder, crickets
and breaths”, la Natura che esplode nella sua eterna primavera. La nostra
natura che implode nella sua continua distrazione. Note d’orgoglio risibile per
chi si crede invincibile, soffi di opaca gioia indotta.
“Due di notte”, situazionista, sospesa,
eterea. Istantanea d’un attimo ch’è già immagine.
“Angelus novus”, celestialmente
sinistra, sospettosa senza speranza, figlia della decostruzione della materia.
Ringhiante nella sua applicazione. Siamo già angeli, siamo già demoni?
“Exp
221”: difficoltà nel riconoscere la variabile come esponente. Paradigma
d’esistenza, che pone il dover essere sempre più impegnati nel guardarsi le
spalle. E non solo. Quindi, il non vivere, ma il sopravvivere.
“S=k logW”, in opposizione e in
aggiunta a quanto prima dedicato, qui è la costante di Boltzmann ad essere
musicata. È una costante dimensionale che stabilisce la corrispondenza tra
grandezza della meccanica statistica e grandezze della termodinamica. Oggi
questa costante è rappresentata dai “Blecs”, per arginare l’affondamento della
barca in cui siamo stati messi, senza accorgercene. Abile malvagità che alberga
ovunque.
Orbene dunque, non si tratta di un ascolto
semplice, ma nemmeno di un messaggio così negativo. L’Officina F.lli Seravalle,
in quanto arte, segnala, rappresenta, pone. C’è di che riflettere, a patto che
non siate dubbiosi di voi stessi.
ALESSANDRO SERAVALLE electric guitar, baritone electric
guitar, e-bow, guitorgan, fx pedalboard, electronics, lead vocals, objects,
piano, synths, samples.
GIAN PIETRO SERAVALLE rhythms, piano, electric piano, synths,
bass synths, frequency generator, vocal synthesizer,
glitches, “Digital panoptikon” lyrics.
Ospiti:
SIMONE D’EUSANIO electric violin on “Shady
business”.
ANDREA MASSARIA guitar and fx pedalboard
on “ Of rain, elder,
crickets and breaths” and “S=k logW”.
ALESSANDRA
RODARO french horn on “Luce scettica”.
PAOLO
VOLPATO lead guitar on “Posto di blocco”.
MIXED
BY Gian Pietro Seravalle at Gps Studio, Cervignano del Friuli
MASTERED BY Francesco Marzona at Birdland
studios, Udine
Il volto di una riproduzione scultorea del
filosofo Socrate si trasforma in un ghigno mostruoso, deforme e scarabocchiato
utilizzato come sfondo per il desk di uno smartphone nella copertina di “Socrate è morto”, nuova opera di Gianni Venturi.
Siamo di fronte a un periodo particolarmente
fertile per il cantante e poeta nato sulle colline bolognesi. Era infatti il
2018 quando sul blog di MAT 2020 davamo spazio al suo progetto solista “Mantra
informatico”.
Nel frattempo, è tornato alla “casa madre”
degli Altare Thotemico, con i quali ha dato alle stampe nel 2020 “Selfie
ergo sum”: un prog-rock senza barocchismi leziosi ma, al contrario, teso e
nervoso, a supporto di liriche che denunciano questa società sempre più votata
a una iperconnessione e un’apparenza (anzi, ancora meglio: un’appariscenza)
senza reali contenuti.
E alla fine del 2020 è uscito anche “Qohelet”
(testo biblico noto come “L’Ecclesiaste”), album in duo nel quale Venturi ha
trovato un suo perfetto contraltare in Alessandro Seravalle. Il chitarrista
dell’Officina Fratelli Seravalle, infatti, ha tanti punti di contatto con il
poeta bolognese, nella ricerca musicale sempre spinta all’estremo e
nell’approccio filosofico/sociologico impietoso verso una società allo sbando.
Ed ecco che arriviamo a questo nuovo “Socrate
è morto”: Gianni Venturi è uno di quei personaggi che un tempo sarebbe
stato di moda definire “scomodo”; è pienamente compenetrato nel web e nei
social, di cui fa largo uso, ma non certo con l’approccio “modaiolo” e
commerciale di tanti giovani influencer. Al contrario, in modo spesso schietto,
esplicito, severo, stimola costantemente nel lettore la riflessione e la
“Consapevolezza” (parola cara agli Area, band che merita una menzione nel
novero dei suoi riferimenti stilistici).
In un percorso senza freni, senza schemi e
senza filtri, Venturi sul web parla liberamente della Sindrome di Asperger con
la quale convive da sempre, dei sacrifici fatti da una famiglia povera e
numerosa in un ambiente rurale, delle ansie e dello stress della sua attuale
vita di commerciante ambulante tra crisi economica, tasse e burocrazia. E non
ha paura di scatenare il dibattito politico, menando fendenti a tutte le
fazioni, dalla destra alla sinistra, ma mai in modo qualunquista e
superficiale, al contrario sempre arguto e pungente.
E sono questi gli ingredienti che ritroviamo
in “Socrate è morto”, nuova opera solista di Venturi. La struttura, sul
piano tecnico, è la stessa del precedente “Mantra informatico”, come
potenziale nuovo capitolo di una polilogia, ma il risultato è ben diverso
perché Venturi non è mai uguale a sé stesso, detesta annoiare e annoiarsi.
Per chi non se lo ricordasse, “Mantra
informatico” era stato realizzato filtrando la sola voce del cantante
attraverso ausili elettronici di vario tipo, fino a trasformarla,
destrutturarla, ricomporla, dandole una nuova identità di strumento. Solo qui e
là erano presenti un basso, un sax, una drum machine, a completare il tutto.
Stavolta niente strumenti aggiuntivi. La voce
di Gianni è protagonista assoluta e indiscussa. E l’intera opera suona ancora
più asciutta, più scarna, più cupa. Il giro di basso di “Buco nero”
sembra un didjeridoo; i pattern ritmici della title-track suonano come pezzi di
metallo sbattuti gli uni contro gli altri nella eco dei quali si percepiscono
urla da un oltretomba straziato; “Like” potrebbe essere generata con i
primi bass-synth in auge tra fine ‘70 e inizio ’80; “Ommaya” è un
emozionante canto proveniente dai confini del mondo, potrebbero essere sciamani
africani o monaci tibetani (in realtà il serbatoio di Ommaya è uno strumento
terapeutico che non verrà qui descritto nel dettaglio per non correre il
rischio di essere troppo “crudi”); “I am sorry i don’t speak english”
sembra quasi una beffarda parodia di certa italo-disco.
E su tutto questo lavoro (fatto con la voce,
ricordiamolo), svettano i testi. La “parola parlata”, in contrapposizione alla
voce come puro suono, qui è declamata, per non correre il rischio che il contenuto
si perda nei vezzi e nei lazzi di una melodia ma, al contrario, che arrivi ben
chiaro, scandito. Nelle liriche e nei titoli c’è ancora più rabbia rispetto
alle consuetudini dell’impietoso Venturi: “Esseri disumani razzolano tra
rifiuti come fossero oro”, canta l’autore in “Like”, “Polvere,
tutto sarà polvere, ingranaggi corrosi della macchina uomo” è la denuncia
in “Obsolescenza programmata”, brano sulla disumanizzazione, attacco
alla vigente economia mondiale per la quale tutto va estratto, prodotto,
lavorato, consumato e deve avere una data di scadenza, uomo compreso. “Il
gasolio era una foresta, il microchip era nella terra”, ci ricorda
l’autore, mentre in sottofondo si snoda un riff di sezioni di sax quasi
vandergraffiane (o vander-graffianti) e una melodia di oboe (tutti strumenti fatti
rigorosamente con la voce… la voce!). Un titolo come “Ritratto di stronzo
allo specchio” è già di per sé programmatico: “Un vecchio che fotte,
avrei potuto fare altro, ma fotto e fa bene uguale. Ho fottuto amori, persone,
ideali passati”.
Una riflessione conclusiva: Gianni Jonathan
Venturi è nato nel 1958, quindi ha passato da qualche anno il giro di boa dei
60. Eppure, ha ancora una voglia di ricercare, di sperimentare, di stupirsi lui
per primo, ancor prima che di stupire, che dovrebbe scatenare curiosità,
ammirazione e invidia in tanti autori di più giovane generazione.