Leggero Vento,
registrato presso gli studi Auditoria Records di Fino Mornasco (Como) e
co-prodotto da Simonetta Trognoni, è il quarto album solista di Osvaldo Ardenghi, musicista e comico bergamasco.
Il disco è una piacevole sorpresa e rappresenta una svolta artistica per l’autore
poiché vira decisamente verso il rhythm & blues, distanziandosi dal tipico
andamento rock che ha contraddistinto le sue precedenti composizioni.
Come
egli stesso afferma: “E’ un disco lontano dai miei usuali canoni rock, ma comunque
fortemente intriso di blues e, per la prima volta, realizzato con l’ausilio di
una sezione fiati (un sogno che cullavo da molto tempo - confidenza fatta
all’autore della presente recensione). Sono dieci canzoni molto diverse per
contenuti e ispirazione, ma riflettono pienamente una vasta parte del mio
background musicale. C’è rhythm & blues, swing, qualche profumo reggae e
perfino qualche tentazione funky, una varietà di colori resi possibili grazie
agli straordinari musicisti che hanno partecipato al progetto. Non era il caso
che io aggiungessi alcunché, per cui, per la prima volta ho scelto di
concentrarmi esclusivamente su un’interpretazione vocale che fosse degna di
cotanti illustri musicisti”.
La
presenza dei fiati, che campeggiano anche sulla cover come diademi su un
bellissimo volto femminile dallo sguardo malinconico, è senz’altro la qualità
più premiante di Leggero Vento che, in un certo senso, esprime una sorta di
ritorno alle origini per un musicista da sempre affascinato dal blues (ci tiene
a precisare che è grande ammiratore del compianto chitarrista irlandese Rory
Gallagher). I magistrali arrangiamenti sono stati curati dal Direttore
Artistico Roberto Martinelli (già con Giorgio Gaslini, Gino Paoli, Alberto
Fortis, Zucchero), Paolo Tomelleri (clarinetto), Marco Brioschi (tromba),
Alessio Nava (trombone), Maurizio Signorino (sassofoni), Piero Orsini (basso),
Emilio Foglio (chitarre), Valerio Baggio (tastiere), Filippo Acquaviva
(batteria) e Susanna Dubaz (cori). La musica proposta si manifesta corposa
nell’ambito di un songwriting di livello e possiede sfumature variegate
sconfinando in generi differenti. L’inconfondibile ugola di Osvaldo impreziosisce
un lavoro che, in alcuni frangenti, fa riferimento allo stile di illustri personaggi
del calibro di Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci. Non è di certo un caso visto che
l’autore ha rivelato una spiccata propensione per la recitazione e per il
cabaret ed è approdato alla scuola di Jannacci con il quale, dal 1994, ha
collaborato in numerosi spettacoli teatrali e televisivi. Il disco, per la gioia di Ardenghi
che lo desiderava ardentemente, è stato presentato al Teatro Serassi di
Villa D'Almè in provincia di Bergamo.
Delle dieci godibili
tracce citiamo l’ottima opener Mi sento un po’ strano, la coinvolgente
title track, la ritmica reggae di Sì che lo sai, la malinconica Alla sera,
la
stravagante Bip (già realizzata precedentemente ma priva dei
fiati), Rio Dolce, dedicata al fiume avvelenato nello stato di
Minas Gerais in Brasile, e la conclusiva La musica, un atto d’amore nei
confronti di una delle forme d’arte più affascinanti.
Continua, a distanza di soli tre anni
da “Re: Psychle”, il percorso “pazzerello” dei Tautologic di Ethan Sellers (voce e
tastiere) e Patrick Buzby (batteria), i due soci fondatori di questo ensemble
davvero particolare ed eccentrico.
Ai boss si aggiungono Emily
Albright (violino, voce), Chris Greene (sax), Nathan Britsch
(basso) e Jay Montana (chitarra elettrica) oltre ad altri vari ospiti al
violoncello, al trombone e alla tromba.
“Wheels
fall off” è nato durante il periodo più acuto della pandemia
negli States, anche se una buona metà era già stata elaborata nel 2014 con
delle prove in studio.
Il gruppo, attivo già da una ventina
d’anni, fa della contaminazione, a 360°, la propria cifra stilistica
principale, senza compromessi. Dopo i trenta secondi scarsi della intro “Wheels
fall off” si entra nel vivo dell’album con “That’s what I hear”, con
il refrain orecchiabile e fiati in evidenza.
“Memo to yourself” ci porta in
ambito ska, con il solito ritornello scanzonato a condurre… le danze.
“Rocket surgery”, uno dei
brani migliori e più “tradizionali”, nasce quasi come una ballata celtica per
poi aprirsi in un arioso strumentale in cui il violino di Emily Albright
“gioca” a rincorrersi con il sax di Greene e le tastiere di Sellers. Dalla metà
in poi, invece, il brano diventa uno splendido ed ispirato jazz-rock.
“Fat, dumb and happy” è un
divertente e disinvolto pezzo che la band inserisce subito dopo, mentre la
successiva “Covered in grit” è “funkeggiante” con tromba e trombone (un
po' à la Chicago” in primo piano con la voce della Albright.
Notevole anche un altro strumentale,
“Exit strategy”, in cui emergono le doti del chitarrista Jay Montana su
un tessuto jazz-rock.
Sempre altissima la qualità pure in “Summer,
1995”, la traccia più lunga del cd, che si muove inizialmente languida,
assecondando la voce della Albright, tra sax soffuso e ritmica appena accennata,
per poi crescere in una sorta di jam collettiva di gran gusto. Carina, nulla di
più, “High school reunion” con un, comunque, pregevole assolo di sax.
L’album termina, poi, con la piacevole title track.
Al solito, i Tautologic ci regalano
un lavoro decisamente coinvolgente, intrigante, vario e sorprendente… non
possiamo fare a meno di riascoltarlo…
Prosegue
l’opera di riscoperta dei lavori del grande Ciro
Perrino, impegnato in prima persona in questo importante e imponente
lavorazione, per ridar loro lustro e nuova luce. Oggi parliamo del progetto St. Tropez, le cui registrazioni risalgono al
periodo fra 1977 e 1978, effettuate presso lo studio Ortica di Sanremo (città di
origine e residenza di Ciro).
Il disco
fu pubblicato solo nel 1992 ad opera della benemerita Mellow Records, quindi ovviamente
postumo al loro scioglimento, e fu intitolato “Icarus”.
Il 13 maggio
2021 arriva il rilancio sulla piattaforma Bandcamp, ormai a tutti gli effetti
la vetrina delle vetrine per gli artisti del pianeta Terra. E forse non solo.
La rimasterizzazione è stata curata dal suo amico Marco Canepa (con il
quale Perrino collabora dai tempi di “Moon in the Water” del 1994), musicista e
sound designer.
Alle
tracce originariamente presenti nell’album sono state aggiunte tre canzoni fin
qui inedite.
Andando
per ordine, vi porgo la loro storia narrata dallo stesso Ciro: “Prima di St.
Tropez vi fu una parentesi musicale sfociata in una band durata davvero lo
spazio di un mattino. Il gruppo in questione si chiamava S.N.C. e prendeva le
mosse da una mia intuizione, ove per l’occasione mi celai dietro lo pseudonimo
di Monsieur de Mirvel. In questo nuovo progetto gli accompagnatori erano
Monsieur de Curval e Madam de Mistival, rispettivamente alla chitarra acustica,
alla chitarra elettrica e voce il primo e pianoforte elettrico, percussione e
voce la seconda. Per la prima volta mi dedicai totalmente alle tastiere e ai
sintetizzatori. L’idea di base era quella di iniziare a costruire i brani
partendo da un background elettronico, utilizzando principalmente batterie e
generatori di ritmo sintetici. Si era ancora lontani dal poter programmare una
sequenza alternando differenti pattern e conferire così alle composizioni un
susseguirsi di atmosfere prima ritmiche e successivamente più rarefatte. Per cui
si doveva lavorare sopra un’unica cellula di ritmo che spesso risultava
ossessiva ed ossessionante. L’unica possibilità di interrompere la ripetitività
era costituita da un piccolo pedale, o switch, con il quale si interrompeva,
preferibilmente a tempo, lo sviluppo della sequenza, per riattivarla nel
momento nel quale si decideva di riprendere il ritmo. Altra idea era quella di
realizzare un suono profondo, magmatico sul quale poi poggiare le voci, i canti
e le melodie mantenendo costantemente un’atmosfera onirica e leggermente psichedelica.
Io utilizzavo l’Eminent come tastiera di base con la quale realizzavo tappeti e
continui, affiancando al Mini Moog, all’ARP 2600 ed al EMS Synthi AKS anche
l’uso discreto di flauti dolci e piccole percussioni. La creazione dei primi
loop e sequenze ripetitive ottenute con il Synthi AKS mi consentiva per brevi
momenti di avere le mani libere per poter suonare un altro strumento, cosicché
mentre si sentiva il reiterarsi di una scala ascendente e discendente,
contemporaneamente si poteva avvertire una melodia eseguita con un flauto
dolce. L’uso dell’italianissimo Echorec Binson 2 dava la possibilità,
soprattutto al chitarrista, di sovrapporre più motivi e piccoli riff creando
effetti e un senso di profonde spirali sonore, sopra le quali si dipanavano
voci eteree e canti suonati con timbriche tipiche del sempre presente Mini Moog
e del più sofisticato ARP 2600. Di questa esperienza resta la registrazione di
uno dei rarissimi concerti che furono tenuti dalla formazione e che si intitola
“Assalto alle nuvole” ed è datato 15 settembre 1977 (pubblicato dall’etichetta
Mellow Records), poco tempo prima dell’inizio del nuovo viaggio musicale con i
St. Tropez.
Quel
che più conta è che questa, seppur breve, sperimentazione consentì di preparare
l’avvio e l’inizio di una ricerca più approfondita nel campo sia del suono che
delle soluzioni che si ritroveranno in seguito. Sicuramente certe atmosfere,
qui ancora a livello embrionale, andranno a creare più avanti i presupposti per
i miei primi lavori solisti a partire da “Solare” del 1980.
Ma torniamo agli ultimi bagliori del
cammino degli S.N.C. Uno dei soliti personaggi oscuri e poco credibili che
popolavano ed ancora popolano gli ambienti musicali, proprio dopo il concerto
di quel 15 settembre, propose al gruppo un tour a dir poco gigantesco in
territorio francese. Era però necessario possedere un furgone, uno staff
tecnico per i supporti logistici, un buon ingegnere del suono ed un impianto
audio e luci all’altezza della situazione. Ci adoperammo per trovare vari
sponsor, finanziatori e ragazzi di buona volontà che desiderassero
intraprendere con noi questa avventura. Sull’onda di un entusiasmo genuino
riuscimmo a trovare le risorse sia umane che materiali, coagulando intorno a
noi un insieme di persone pronte ad affrontare questa bellissima sfida. Alcuni
amici si indebitarono per acquistare uno stupendo furgone Mercedes di colore
bianco adatto per trasportare strumenti ed impianti audio e luci e,
all’occorrenza, anche ad essere trasformato in temporaneo luogo di relax e
disimpegno. Una specie di motorhome ante litteram. Altri iniziarono ad
attrezzarsi per poter garantire una buona resa sonora, andando a seguire un
corso per aspiranti fonici, che in quei giorni era stato indetto presso un
negozio di strumenti musicali nella vicina Nizza. Tutto sembrava procedere per
il meglio. Già qualcuno sognava, magari quanto prima, una volta in terra di
Francia, di poter far da supporter ai Gong, a Steve Hillage e alla sua band
oppure a David Allen. Niente di tutto questo. Quando ormai i preparativi erano
giunti al culmine con il repertorio provato e riprovato, il suono studiato e
preciso, lo spettacolo con le luci anch’esso provato e riprovato, arrivò la
triste sorpresa. L’organizzatore era scomparso nel nulla senza lasciare
traccia. Detto per inciso alcuni anni più tardi in occasione di un fortuito
incontro, parlando con me, il sedicente manager ammise di non aver mai avuto
nessun contatto e che aveva solo scherzato. Quell’evento del tutto inatteso e
assolutamente non prevedibile provocò un brusco scossone, ma non intaccò la
determinazione ad andare avanti. Riunii i membri del gruppo ed indicai quelle
che erano le mie intenzioni: continuare comunque senza curarsi troppo di
quell’ultima delusione. L’idea principale fu quella di ricostituire un insieme
ritmico introducendo nuovamente nell’organico basso elettrico e batteria. Fu
per questo che vennero ricontattati Giorgio Battaglia, già bassista in Celeste
prima e seconda formazione e Francesco “Bat” Dimasi, anch’egli batterista con
Celeste ma soltanto nella seconda formazione, quella più rock e meno onirica e
sognante. Furono anche reclutati altri elementi provenienti dalla scena
musicale della vicina Ventimiglia, terra da sempre molto feconda e ricca di
musicisti di razza. Anche in questo caso gli ex S.N.C., ormai a tutti gli
effetti St. Tropez, optarono per un duo già formato ed affiatato, sulla
falsariga della coppia Giorgio e Francesco. Per cui vennero reclutati Silvano
Cecchini, bassista e amico di vecchia data, e Mimmo De Leo, giovanissimo
batterista però già padrone di una tecnica ineccepibile che si esplicava in un
drumming robusto e preciso. Fu inoltre data l’opportunità ad un altrettanto
giovanissimo batterista, ma questa volta dell’area sanremese, di poter entrare
per la prima volta in una sala di incisione per registrare alcune tracce del
nuovo repertorio del gruppo. Enzo Cioffi, questo il suo nome (vi suona
nuovo?), all’epoca appena quindicenne, fu il primo ad iniziare il nuovo corso
dei St. Tropez e fece coppia con Stefano Minutolo alla chitarra elettrica,
altro talentuoso musicista purtroppo prematuramente scomparso, e che sarà
presente, pochi anni dopo, anche in una delle tracce di “Solare”, mio primo
vero album solo: suo lo splendido contributo nel brano intitolato Terra. Enzo e
Stefano provarono e quindi registrarono in quell’occasione quella che poteva
essere considerata la mia prima vera composizione, intesa come canzone. Si era
ormai lontani dalle esperienze di Sistema e Celeste, anche se erano trascorsi
pochi anni, ma un nuovo tipo di consapevolezza e tanta curiosità mi avevano
spinto ad esplorare nuovi territori. I mesi degli anni che vanno dal tardo 1977
fino a quasi tutto il 1978 furono dedicati alla registrazione di numerosi brani
che prima avevano il sapore di semplici provini, ma poi via via che si
affinavano nelle strutture e negli arrangiamenti, divenivano a tutti gli
effetti testimonianze definitive del nuovo corso che andava delineandosi. Una
volta ultimate le registrazioni di quasi tutti i brani, pensai di iniziare a
proporre quanto prodotto alle case discografiche. Riuscii a procurarmi diversi
appuntamenti presso alcune etichette, prima fra tutte la Phonogram, come si
chiamava in quegli anni l’attuale Universal, e poi vi fu anche un incontro con
la Cramps di Gianni Sassi. L’interesse per le composizioni fu incoraggiante, ma
non si arrivò mai a definire un accordo che potesse far presagire un’uscita
discografica. Tuttavia, questa prima esposizione fu importante, in quanto mi
consentì di intrecciare importanti relazioni che poi sarebbero state utilissime
per intraprendere la mia carriera solistica. Incontrai infatti proprio alla
Phonogram quel Giorgio Pertici, direttore artistico molto attento e preparato,
che due anni dopo al momento di costituire la Ciao Records, mi chiamerà
offrendomi la possibilità di firmare il mio primo contratto e di pubblicare “Solare”.”
-Segnale limpido: squarciata dalla verità,
spaziale, metronomica.
-Il laghetto del cigno: ludica, azzurra,
chitarristica.
-Una necessità di espandere: controtempistica,
d’altrove, eretta.
-Nella cascata: naturalistica, green,
rilassante.
-Tu sei il pianeta: lirica, speranza ovunque,
tastieristica.
-Bollito misto: progressive, luccicante,
gioiosa.
-Icarus: sognante, d’impatto, lampante.
-Re del deserto: ’80, vogliosa, profondamente
suite.
-Verdure saltate: rockeggiante, amante per
amanti MAT2020, vegetariana.
-Luna in Vergine: batteristica, cinemascope,
inalienabile.
-Il lato sconosciuto: run everywhere, forte,
decisa ma decisamente dolce.
-
Questa l’inside cover del cd datato
1992, con note del “faraone” Mauro Moroni, socio di Perrino nella Mellow
Records e collezionista-conoscitore (fra i primi al mondo) del Progressive a
360°:
Compie gli
anni oggi, 24 giugno,Patrick Moraz, tastierista diplomato al
conservatorio di Losanna che, dopo varie esperienze giovanili, nel 1973 si
trasferisce in Inghilterra ed entra nei Refugee, ex Nice, orfani di Emerson.
Dopo appena un anno arriva
la grande occasione e viene chiamato a sostituire Rick Wakeman negli Yes, con
cui incide l'abum "Relayer",
e intraprende un tour mondiale.
Mentre Wakeman riprende il suo posto negli Yes, Moraz incide dischi
solisti ed entra nei Moody Blues, e contemporaneamente realizza altri numerosi
progetti, suonando anche per Chick Corea e Bill Bruford... svizzero? Sì
Moraz!
Happy Birthday Patrick !
Wazza
English progressive
rock group Yes, United Kingdom, 1975. Left to right: singer Jon Anderson, Swiss
keyboard player Patrick Moraz, drummer Alan White, bassist Chris Squire and
guitarist Steve Howe. (Photo
by Michael Putland/Getty Images)
Un album un po' perso
nella nebbia ma che merita certamente una rivalutazione quando si parla di Joe
Zawinul, il papà dei Weather Report, qui alle prese con il bis della
sua nuova incarnazione bandistica ovvero The Zawinul
Syndacate.
Fine anni Ottanta, Peter
Gabriel sta mettendo su la sua officina dei sogni e dei suoni dal mondo (la
Real World). Zawinul, pur da un altro emisfero sonoro, si muove più o meno
sulla stessa strada, fissando con questo album una via ethno per la fusion, una
sorta di jazz-rock panmusicale, rispettoso di qualsiasi tradizione musicale,
meglio se meno nota o lontana dal mainstream. Lo si era già visto in Immigrants del 1988 e, ancora prima, nel
suo secondo solista Di-a-lects.
Con Black Water,
la ricetta non cambia: una bella selva di tastiere avveniristiche dotate delle
prime campionature digitali (quindi frutto di ricerche non solo tecnologiche,
ma anche etnomusicali) che si affiancano ad un parterre percussionistico da
paura e vocalist di pregio. A completare il microcosmo zawinuliano Scott
Henderson alla chitarra e Gerald Veasley al basso.
Si parte con il
ripescaggio della vecchia Carnavalito
(qui dal vivo e già presente in Di-a-lects
del 1986) poi c'è l'Africa particolare di Black
Water, resa ancora più vivace da un comparto corale degno dei contemporanei
Manhattan Trasfert. In Familial (da
un testo di Prévert) Zawinul combina l'elettronica con un'idea musicale
totalmente etnofonica: lo stesso uso del vocoder è spiazzante ma non stride,
così come il controcanto ipercinetico di una tastiera che sembra imitare una
zanza (strumento africano).
La fisarmonica è
protagonista di Medicine Man: c'è lo
swing elettrico dei Weather Report ma, talvolta, i pattern ritmici rimandano a
qualcosa di indiano, la stessa chitarra di Henderson si muove su scale
jazz-blues ma con le mosse di un raga. Stupefacente.
Poliritmi e armonie
contrastanti sono gli ingredienti di In
the Same Boat: due melodie vocali simili a canti rituali africani, uno
strano bordone baritonale quasi tibetano, ritmi elettronici ossessivi e
improvvisazioni fusion al sintetizzatore che simula uno strumento a fiato. Il
tempo è in 3/4, ma basta che entri il coro o qualche frammento modulante perché
tutto venga messo felicemente in discussione.
Toccanti ed efficaci i
due omaggi a Monk (Monk's Mood e Littke Rootie Tootie). Chiusura in
bellezza con They Had a Dream (la
chitarra con lo slide chiama America, ma la melodia potrebbe essere un ennesimo
canto di lavoro perpetuo dei soliti sfruttati) e con And So It Goes (percussioni e campionature di kora... sembrano
quasi i titoli di coda di un film che sta finendo).
Black Water è uno di quei lavori di
vero peso nell'evoluzione della fusion, grazie anche ad aperture creative che
rendono onore al genio inesauribile di Zawinul.
Alessandro Casalini-Fedeli Al Vinile-Una Divertente Commedia Umana a 33 giri
(2019)
– ed. Libro/Mania
Di Fabio Rossi
Negli ultimi anni abbiamo assistito a
un gradito, quanto inaspettato, ritorno in auge del vinile. Tra i fattori che
hanno contribuito a questa rinascita vanno citati la crisi endemica in cui è
precipitato il CD e una sensibile attenuazione dell’euforia che aveva colpito
un po’ tutti riguardo il famigerato formato mp3.
C’è chi ha afferrato l’occasione di
tale momento propizio e, armato di coraggio e passione, ha tentato la fortuna
investendo sull’avviamento di un’attività commerciale volta alla rivendita dei vinili,
proprio come quelle che si trovavano fino agli anni Novanta, dove poter
scegliere e acquistare i tanto ambiti 33 e 45 giri.
È ancora prematuro stabilire se il
fenomeno sarà transitorio o se è destinato a crescere, fatto sta che
attualmente il movimento è in evoluzione e di ciò ne siamo ben felici.
Nel periodo in cui esplose la
diffusione del programma Napster numerosi esercenti furono costretti a
malincuore a chiudere i battenti. All’inizio del nuovo millennio gli utenti
prediligevano di gran lunga la musica cosiddetta “smaterializzata” dedicando il
loro tempo a scaricare selvaggiamente sul proprio pc, talvolta illegalmente,
intere discografie di qualsivoglia artista; ormai in pochi spendevano denaro
per i CD e i dischi.
Riferendosi a quel preciso periodo
storico, lo scrittore romagnolo Alessandro Casalini,
già autore di volumi quali ZeroDecibiel (2017) e il Mago del Nulla (2018), ha
pubblicato il romanzo Fedeli al Vinile - Una Divertente
Commedia Umana a 33 giri.
La storia si svolge a Cesenatico
all’interno del piccolo negozio di dischi VinylStuff gestito da Tata e Hi-Fi,
due simpatici e a dir poco bizzarri personaggi. Il locale è paragonabile ad un
Bar dello Sport - solo che lì si parla di calcio e non del mondo delle sette note
- ed è frequentato da soggetti piuttosto stravaganti come Plutarco, che afferma
di aver suonato con i Pink Floyd al concerto di Venezia del 1989, il Professore
un ex insegnante di fisica convinto di essere Einstein e Marione che trova i
suoi vinili preferiti con il suo proverbiale “tocco magico”.
Tata e Hi-Fi, però, rischiano
seriamente di dover gettare la spugna e chiudere il loro amato esercizio perché
impossibilitati a fronteggiare l’astro nascente di Napster e, come si sa, “Senza
soldi non si canta Messa”. Sembrerebbe una situazione senza via d’uscita,
ma sfruttando l’incredibile capacità di Hi-Fi, che consiste nel ricordare ogni
singola uscita su vinile sia inglese che americana degli ultimi cinquant’anni
(album, autore, data registrazione, etichetta, tracklist comprensiva della
durata dei brani e formazione) una chance pare concretizzarsi all’orizzonte;
tuttavia, è un susseguirsi di circostanze che darà una svolta clamorosa alla
vicenda.
Non aggiungiamo altro se non il fatto
che sarà determinante l’entrata in scena di una star del Rock!
Il libro, finalista alla seconda
edizione di “Fai Viaggiare La Tua Storia”, è divertente, piacevole alla
lettura ed è una chiara manifestazione di affetto di Alessandro nei confronti
del vinile, come da lui stesso esplicitato nella parte relativa alle note e nei
ringraziamenti. La sua scrittura è semplice, a volte un po’ piccante ma con
gustosa ironia riesce a strappare al lettore più di un sorriso.
L’autore ha pubblicato nel 2020 un
nuovo libro intitolato Febbre da Vinile - Una esilarante avventura ad alta
fedeltà (Libro/Mania), ambientato negli U.S.A., con protagonisti Hi-Fi e
Tata.
“La
testa. C’è chi l’abbassa, chi la nasconde e chi la perde
Io
preferisco chi la usa “
(Rita
Levi Montalcini)
21 giugno
Ci sarai
sempre. Buon viaggio Capitano!
Wazza
Di Antonio
Capitano…
Se la propria
bacheca é anche una sorta di diario allora vorrei annotare un ricordo che
riguarda un gruppo musicale. Siamo negli anni Ottanta e la musica italiana
risentiva di notevoli influenze non sempre positive. L'esplosione delle
emittenti radiofoniche permetteva una notevole fruibilità almeno nella quantità
delle cose da ascoltare. Erano gli anni dell'autoradio estraibile che non
doveva mancare in ogni automobile. Erano anche gli anni dei sistemi Hi Fi
componibili. Con la nostalgia di quel vinile fatto suonare grazie a quella
puntina che ci lasciava in panne proprio quando ci serviva.
In questo
quadro un complesso innovativo si stava facendo strada. Un concerto del Banco
era sempre una piacevole scoperta. Un genere musicale che si distingueva da
quello melenso che riempiva spiagge e stanze. Il Banco era differente. La
tastiera di Vittorio Nocenzi, la chitarra di Rodolfo Maltese e soprattutto la
voce del “folletto” Francesco Di Giacomo permettevano di trascorrere una serata
all'insegna della qualità musicale. Sembravano così lontani, eppure vivevano a
due passi da casa mia. Gente di provincia e al tempo stesso così poco
provinciali. Erano gli anni dei gruppi che sarebbero durati oltre la stagione
dei successi. Le Orme, La PFM, i Nomadi ecc... ma il Banco a mio avviso aveva
una marcia in più proprio grazie alla voce particolare e internazionale di
Francesco. Voce che poteva spaziare in diversi generi con una potenza e
dolcezza al tempo stesso. Il destino, purtroppo, si è accanito su questo gruppo
e allora rimane tutto il ricordo e la nostalgia per quelle serate e anche
quella chiacchierata al Bar Milleluci con quei “ragazzi” capaci di suonare
veramente con passione ed entusiasmo che a distanza di anni… “mi viene da
pensare”.
C’è stato un tempo,
quando ancora non esistevano i "talent", in cui i gruppi dovevano
fare la "gavetta", aprendo i concerti di artisti stranieri o
italiani, molto blasonati.
È quello che successe
alla Premiata Forneria Marconi quando,
nel 1971, introdusse i concerti di un gruppo considerato una icona del
rock mondiale, i Deep Purple.
Nelle righe a seguire Franz
di Cioccio racconta le "paure" del manager Sanavio, titubante
nell’utilizzare un gruppo di giovani sconosciuticome “spalla” per la grande band inglese, nella serata
di Bologna.
Poi si sa come è
andata a finire!
Di tutto un Pop
Wazza
PREMIATA FORNERIA MARCONI 1971
PREMIATA
FORNERIA MARCONI
Bologna
1971 - Supporter ai Deep Purple
Anche fare da
supporter ai gruppi stranieri fu una novità: non c'era nessuna tradizione in
Italia. Cominciarono con i Procol Harum, poi ci furono gli Yes. Dopo queste
prime esperienze da vere e proprie cavie musicali, il ruolo del supporter
cominciò a delinearsi con più precisione anche nella colonia italiana.
Naturalmente bisognava avere caratteristiche artistiche di provata autenticità,
ma soprattutto bisognava distinguersi per faccia tosta. Forse la dote più
richiesta era una attitudine gladiatoria, perché sul palco allora non si sapeva
mai come poteva andare a finire. Il progressivo entusiasmo del pubblico, che
attendeva con ansia la star della serata, poteva anche sfuggire di mano a chi
organizzava i concerti.
E in questi casi al
pubblico potevano sfuggire dalle mani lattine e gelati, quando andava bene,
altrimenti sanpietrini - grandi protagonisti degli scambi di opinione nei
surriscaldati anni '70.
Una bella scuola non
c’è che dire. Erano tempi vitali, ma duri. Chi apriva lo spettacolo poteva
ritenersi fortunato se riusciva a non farsi fischiare dal pubblico e a portare
a casa sani e salvi gli strumenti. Fu in questo clima decisamente burrascoso
che la PFM approdò a una delle svolte cruciali della carriera: il concerto con i
Deep Purple che si svolse a Bologna nel '71.
Racconta Franz Di
Cioccio… C'erano diecimila
persone in spasmodica attesa del grande gruppo di hard rock e noi eravamo lì ad
aspettare che qualcuno ci presentasse. Ma il promoter della serata, Francesco
Sanavio, di fronte a tanta calca, non sapeva che pesci prendere e,
preoccupatissimo, ricadeva nella sua parlata originaria. "Io non esco ad
annunciarve, ciò" diceva. "Prima dei Purple!... Con quel nome
ridicolo! Cosa digo ciò, ecco la Premiata Forneria Marconi? Prima dei Deep Purple...
Me masano, ciò... io non esco. Andate fori così, i’é afari vostri."
Non ci fu nulla da
fare e così un tecnico di buon cuore si addossò la responsabilità di
annunciarci in modo assolutamente casuale, mentre stava provando i livelli dei
microfoni. Il nostro nome, ancora sconosciuto e assolutamente assurdo per
l’epoca, risuonò come una sfida per il pubblico che si era riunito ad attendere
Ian Gillan, Ritchie Blackmore e compagni già dal pomeriggio. Ma noi, convinti
di avere tra le mani una grande occasione - era il primo concerto italiano di
un mito consolidato del rock mondiale - sfoderammo tutta la grinta di cui
eravamo capaci e salimmo come se niente fosse sul palco. Eravamo al buio,
perché nessuno si era preso la briga di accendere le luci.
Ci sbrigammo e in
pochi attimi le note di "21th Century schizoid man" dei King Crimson
esplosero dagli amplificatori avvolgendo la platea in un vortice di suoni che
lasciò tutti senza fiato. Dopo qualche minuto di perplessità tutto filò liscio,
tanto che parecchia gente incominciò a chiedersi quale fosse mai quella nuova e
sconosciuta band inglese che stava aprendo con tanta maestria la serata. Queste
voci giunsero naturalmente a Sanavio che, finalmente rincuorato, alla fine
della nostra performance salì sul palco e sfoderò un tono soddisfatto da
guascone. "Questi sono la Premiata Forneria Marconi" disse al
microfono "sentirete ancora parlare di loro. "Fu buon profeta e
quando diventammo famosi non dimenticammo quel memorabile debutto al buio.
Così, ben consapevoli che quando sei alle prime armi le occasioni e gli spazi
per poterti esibire non bastano mai, siamo sempre stati inclini ad una certa
filantropia nei confronti degli artisti emergenti.
Tra i tanti artisti
che in seguito aprirono i concerti italiani della Premiata Forneria Marconi ci
sono stati: Finardi, Branduardi, Arti e Mestieri, Acqua Fragile, Fortis e
perfino un giovanissimo Roberto Benigni, che si esibì in una serata a Grosseto.
L’unica cosa che i nostri amici raccomandavano ai loro supporter era questa:
"Dovete cavarvela da soli. Noi vi diamo lo spazio ma il resto dovete farlo
voi.
1971 - 28 maggio - Roma - Deep Purple in concerto Palazzo dello Sport
Se è vero quanto appurato tramite WaybackMachine, il 30 marzo 1972 gli Audience si esibirono al Teatro
Alcione di Genova. Quello fu il primo concerto della mia vita.Probabilmente E.L.P. a Genova, il 15
giugno 1972, fu il secondo concerto che ascoltai. Avevo 15 anni e i ricordi
di quei tempi sono vaghi e sfumati. Per fortuna in rete si trovano informazioni
impensabili, anche relative a eventi molto indietro nel tempo.
Emerson, Lake & Palmer esordirono
due anni prima e nel ‘72 in Italia il progressive aveva già preso campo. Allora
tra i ragazzi c’erano diverse fazioni musicali: hard-rock, west-coast,
cantautori, progressive. Però c’erano anche gli appassionati trasversali,
quelli che ascoltavano un po’ di tutto. Appartenevo a quella categoria. Sarebbe
bello già soltanto ricordare come appresi la notizia del concerto. Manifesto?
Carta stampata? Amici? Probabilmente amici, c’era sempre qualcuno più informato
di me.
Per noi, prima dei 18 anni, c’era un
solo modo per raggiungere Genova: il treno. Così ci imbarcammo con largo
anticipo su un locale, presumo, allora gli odierni treni regionali si
chiamavano così, partendo dalla bellissima stazione di Savona Letimbro, demolita
poi dopo il 1977. Il largo anticipo era d’obbligo perché dalla stazione si
doveva raggiungere a piedi il palazzo dello sport alla Fiera di Genova, fare il
biglietto e correre poi dentro nella speranza di trovare una buona posizione da
cui vedere il concerto. Non c’erano sedie, solo duro cemento. Però si vedeva
bene il palco. Non so perché, ma non ho conservato il biglietto.
Ho ancora il biglietto dei Deep
Purple che si esibirono nello stesso posto un anno dopo, ma niente E.L.P. Non
ricordo neanche i miei compagni di avventura, potrei avanzare qualche ipotesi,
ma non ho certezze. L’unica presenza certa era quella di Athos, perché quando
Emerson imbracciò il ribbon, verso la fine del concerto, lui gridò con giovanile
entusiasmo: “Il ribbon!!!”. Scoprii molto più avanti nel tempo che il ribbon,
inteso come device musicale, non è altro che un “sensore tattile per
controllare da remoto un Moog Sinthesizer”. Ma nella nostra mente di
adolescenti era un misterioso strumento utilizzato solo da pochissimi geni
musicali, una sorta di martello degli Dei. Per restare in tema, un po’ come il
theremin usato da Jimmy Page in Whole Lotta Love durante i concerti
live.
Non credo che il concerto fosse
iniziato puntuale, non avveniva quasi mai, ma a un certo punto il boato ed
eccoli lì. Movimenti di assestamento del pubblico e si inizia. Per quanto
riguarda la scaletta mi affido a quanto leggo on line, e quindi dovrebbe
essere: Hoedown, Tarkus, The Endless Enigma, Take A Pebble, Lucky Man, Piano
Improvisations / Take A Pebble, Pictures At An Exhibition, Rondo / America.
La musica? L’acustica del palasport
genovese è sempre stata pessima. La presenza di molte persone, mi sembra
ricordare che fossimo in molti, attenuò un po’ il riverbero e l’esibizione filò
via senza problemi. E.L.P. agli esordi erano grandissimi e con un bel
repertorio. Poi l’entusiasmo giovanile e il mood dei primi anni ’70 fecero il
resto.
Immagino il ritorno a casa denso di
commenti e considerazioni interminabili, pregustando il racconto che avremmo
fatto ai compagni di scuola il giorno dopo. Vorrei fare una sola considerazione,
senza spocchia e scevra di nostalgia. I concerti di quegli anni erano senza
prenotazioni, senza cellulari, no selfie, no logo. Si andava per la musica, da
ascoltare con concentrazione. Certo, Emerson poteva anche infilare un coltello
dentro all’Hammond e strapazzarlo avanti e indietro, ma era un grande musicista
e non aveva un coreografo che gli suggeriva le movenze, né una scenografia
hollywoodiana alle spalle. Era un altro modo di concepire e ascoltare la
musica, irripetibile.
Un solo ultimo ricordo, per spiegare come erano allora i “divi” del prog. Ho trovato,
sulla pagina di seguito linkata yastaradio,
la data di un concerto che i Van der Graaf tennero ad Albenga in un loro tour
italiano: era il 5 agosto 1972. Ovviamente eravamo andati lì un’ora buona prima
dell’inizio o forse più. Peter Hammill aveva piazzato davanti al palco un
tavolino da picnic con due sedie da campeggio. Sul tavolo c’era una scacchiera
ed Hammill sfidava chi se la sentiva per una partita. Era fortissimo,
stracciava tutti. A un certo punto, dopo l’ennesima vittoria, si alzò e dopo
pochi minuti salì sul palco col resto del gruppo e il concerto iniziò. Davvero
altri tempi.
Lui tra “miti
& cavalieri” è sempre stato a suo agio…
Questa volta la
Regina Elisabetta l’ha “insignito” dell’ordine di cavaliere per meriti
artistici.
Sò
soddisfazioni!
Wazza
Il settantaduenne
Rick Wakemanè
stato nominato CBE o Comandante dell'Eccellentissimo Ordine dell'Impero
Britannico, nell'ambito delle celebrazioni per il compleanno della Regina
Elisabetta.
Questo ordine
cavalleresco è stato istituito il 4 giugno 1917 da re Giorgio V e premia i
contributi alle arti e alle scienze, al lavoro con organizzazioni caritative e
assistenziali.
Hello
Ely… aspettavo questa telefonata già da qualche anno!
Dopo avere
appreso la notizia il musicista all'agenzia PA News ha dichiarato:
"Provo
un misto di stordimento e sincero orgoglio. Molto stranamente, il mio primo
pensiero è stato, 'Accidenti, vorrei che mia madre e mio padre fossero qui per
vederlo', poi ho realizzato, ovviamente, che mio padre avrebbe avuto 105 anni e
mia madre 103, quindi le probabilità erano davvero poche. Sono letteralmente stordito
e orgoglioso, è l'unico modo in cui riesco a descriverlo. Gli amici che mi
conoscono sanno che non mi sarei mai aspettato una cosa del genere. Posso solo
dire mille grazie. Sono davvero molto onorato e orgoglioso. Ho sempre
continuato a fare musica, ma a volte mentre fai musica ti chiedi, 'Perché lo
sto facendo? Non se ne vede la fine di quando potremo suonare dal vivo, quando
potremo fare le nostre cose'. Come riconoscimento, per me uscire dal lockdown,
avere ricevuto questo è ancora più speciale".