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venerdì 11 ottobre 2024

Van der Graaf Generator: nell'ottobre del 1975 usciva "Godbluff"

Nuovo album - “Godbluff” - e tour in UK per i Van der Graaf Generator, nell’ottobre del 1975.

Di tutto un Pop…

Wazza

Estate 1975: eravamo a Londra quando ci capitò di leggere della ricostituzione della formazione originale di uno dei nostri gruppi preferiti in assoluto, i Van Der Graaf Generator. E non solo: il quartetto stava effettuando alcuni concerti sul Continente. Si immagini la nostra sorpresa quando scoprimmo che giusto in quel momento il gruppo era impegnato a fare concerti... in Italia! (E visto che parliamo di tempismo: quell'estate fu l'unica volta in cui gli Henry Cow suonarono nella nostra città - ovviamente mentre noi eravamo altrove.) Cercammo (invano) di superare il nostro disappunto. In effetti questo riformarsi appariva alquanto strano - esattamente allo stesso modo in cui aveva destato sorpresa la notizia che il gruppo era sul punto di sciogliersi, tre anni prima: cioè a dire nel momento in cui un seguito devoto, concerti entusiasmanti e una progressione brillante di eccellenti album di studio - The Least We Can Do Is Wave At Each Other ('70), H To He, Who Am The Only One ('70) e Pawn Hearts ('71) - sembravano annunciare un'imminente esplosione commerciale.

Ma fummo fortunati: assistemmo infatti al concerto londinese tenutosi al New Victoria Theatre il 30 agosto. Conosciuto per il suo procedere non ortodosso, il gruppo iniziò il concerto nella quasi totale oscurità, con un sottile e solitario flauto a scandire l'introduzione di The Undercover Man, brano d'apertura di un album ancora non pubblicato, Godbluff. Se ben ricordiamo il nuovo album fu eseguito nella sua interezza, con solo pochi tra i vecchi cavalli di battaglia in scaletta (Lemmings e Man-Erg) accanto ad alcuni brani provenienti dalla produzione solista di Peter Hammill (Forsaken Gardens, In The Black Room e A Louse Is Not A Home).

Godbluff fu pubblicato nell'ottobre del '75. L'ascolto mostrò che il gruppo aveva sensibilmente modificato la propria estetica, abbandonando il lavoro di produzione meticoloso con tonnellate di sovraincisioni in favore di un approccio più diretto, snello e "live" dove le radici soul, jazz e r&b dei musicisti emergevano con facilità. Il che non voleva certo dire che la musica fosse ora più semplice o commerciale che in passato; tutto l'opposto; e c'era un nuovo senso di urgenza, una superficie nervosa, più dura.

Godbluff si rivelò essere l'album preferito di chi scrive tra quelli dei Van Der Graaf Generator di quel periodo (sebbene ottimo nei suoi termini, l'album del 1977 intitolato The Quite Zone, The Pleasure Dome è opera di un gruppo molto diverso). E lo è ancora, dato che il successivo Still Life ('76) offriva picchi più elevati ma anche cose meno riuscite (a nostro parere, naturalmente); mentre le quattro lunghe tracce di Godbluff - The Undercover Man, Scorched Earth, Arrow, The Sleepwalkers - mostravano un'unità di ispirazione che rendeva il disco fortemente unitario.

Abbiamo deciso di acquistare la nuova edizione rimasterizzata in digitale di Godbluff. Le edizioni rimasterizzate in digitale ci lasciano di solito decisamente scontenti: troppe frequenze alte, pochi bassi, poco "calore", un suono complessivo stancante dove i colpi di piatto costituiscono una minaccia per l'udito. Siamo quindi lieti di poter dire che l'album suona molto bene - decisamente meglio, a nostro avviso, dei brani apparsi alcuni anni fa sul box quadruplo del gruppo intitolato The Box. 

Qui non c'è niente di veramente "nuovo", ma i pedali di basso su The Undercover Man, il lavoro di clavinet su Scorched Earth e Arrow, il basso elettrico su The Sleepwalkers sono apprezzabili con facilità, mentre i piatti non fanno mai "fi-zz...". Due brani dal suono orribile registrati dal vivo in quel periodo - Forsaken Gardens e A Louse Is Not A Home - completano il tutto.


Riascoltando Godbluff - album che conosciamo praticamente a memoria e che non ascoltavamo più da moltissimo tempo - riflettevamo su come a quei tempi quel tipo di qualità, quel concetto di "stirare la canzone", fossero dati per scontati. Mentre oggi Godbluff suona come il precursore di una musica che non è mai arrivata. Il che è decisamente strano.

Beppe Colli







giovedì 10 ottobre 2024

King Crimson: il 10 ottobre del '69 usciva "In the Court Of Crimson King"




Il 10 ottobre del 1969 usciva per la Island Records “In the Court of the Crimson King”, primo album in studio dei King Crimson.

È generalmente considerato uno dei più grandi album del rock progressivo: la musica in esso contenuta travalica, secondo i critici, i confini del rock e attinge dal jazz e dalla musica classica, costituendo comunque un ponte tra generi diversi.

Qualcuno ha scritto che l’album “… potrebbe essere l'album di rock progressivo più influente mai pubblicato…”.












mercoledì 9 ottobre 2024

The Who su "POP" nell'ottobre del 1972


Nel numero di ottobre del 1972 della rivista “Pop”, copertina ed intervista ai The Who

Di tutto un Pop…
Wazza




martedì 8 ottobre 2024

Il grande ritorno degli ALPHATAURUS commentato da Alberto Sgarlato

 


Alphataurus – “2084: viaggio nel nulla”

AMS Records | BTF Vinyl Magic

(6 tracce | 41 min.)

AMS Records pubblica il nuovo album di una delle leggendarie band del rock progressivo italiano. Un affascinante prog-concept distopico e fantascientifico in cd papersleeve e vinile gatefold, dedicato alla memoria di tre membri fondatori scomparsi. 

Formati:

LP Vinile nero 180gr. / Inserto 60x30cm / Copertina gatefold a tre ante

CD / Copertina mini-LP papersleeve a tre ante / Libretto di 16 pagine

Commento di Alberto Sgarlato


Chi ha vissuto con sincera passione la Grande Epopea del rock progressivo italiano sta assistendo con dolore, in questo nuovo millennio, a un vero e proprio Götterdämmerung, un “crepuscolo degli idoli”; le band più leggendarie, infatti, hanno accusato una serie di lutti che ne hanno segnato la storia recente.

Francesco Di Giacomo e Rodolfo Maltese del Banco, Joe Vescovi e Wegg Andersen dei Trip, Maurizio Zarrillo e Giampiero Artegiani dei Semiramis, Alberto Gaviglio della Locanda delle Fate, Frate Claudio Canali (ex-frontman del Biglietto per l’Inferno, poi ritiratosi a vita monastica), Bruno Govone del Cerchio d’Oro, Sergio Lattuada dei Maxophone, Danilo Rustici degli Osanna, Vittorio De Scalzi dei New Trolls, Antonio Lorandi dei Phoenix Again… Solo per citare alcuni “nomi storici”, nel pieno rispetto e con sentite scuse per chi eventualmente fosse stato dimenticato e non menzionato ma che ha comunque giocato un ruolo di primo piano in questa scena musicale meravigliosa e indimenticabile chiamata rock progressivo italiano.

In questo scenario, i lombardi Alphataurus sono stati nei decenni tra le band più ambite e ricercate dai collezionisti, più attese e desiderate nel loro ritorno sulle scene e, purtroppo, anche più colpite da tutta una serie di gravi perdite. Guido Wassermann (chitarre e tastiere), Alfonso Oliva (basso) e Michele Bavaro (voce solista) sono purtroppo scomparsi nell’arco di poco tempo. Per questo motivo il nuovo album, dal titolo “2084: viaggio nel nulla” assume un ancor più forte significato per i fans.

Della formazione storica, il tastierista Pietro Pellegrini è ancora impegnato a tenere alto il nome; Wassermann ha fatto in tempo a prendere parte alle registrazioni del disco. La line-up è completata da Franco Giaffreda (voce, chitarre e flauto), Andrea Guizzetti (pianoforte, sintetizzatori e cori), Tony Alemanno (basso) e Diego Mariani (batteria, glockenspiel, cori).

Mariani è anche autore di una splendida copertina che nulla ha di meno rispetto alle grafiche dei capolavori progressivi italiani degli anni ‘70 e che ha la sua massima valorizzazione nell’edizione apribile a tre ante concepita per il vinile. Ovviamente l’album è disponibile anche in CD, anch’esso arricchito da una confezione elegante e curata.

Ma veniamo all’aspetto più importante, cioè la musica: ci troviamo di fronte a un’inquietante e tenebroso concept-album fantascientifico nel quale l’umanità deve confrontarsi con nuovi scenari apocalittici.

I 9 minuti di “Pista 6”, che apre il disco, si aprono con un “mood” vicino al new-prog dei Marillion del periodo “Misplaced Childhood” o “Clutching at straws”, per via delle chitarre arpeggiate molto riverberate e pulite, sorrette da tappeti di synth dai suoni cupi e da poche note del pianoforte. Su tutto svetta una splendida interpretazione vocale. Ma dopo la breve intro, il groove del basso e il calore dell’Hammond ci portano su territori più jazzati. L’umanità sta sfuggendo a un pianeta ormai privo di atmosfera e invivibile a causa di un mix di inquinamento e catastrofi nucleari, alla ricerca di nuovi pianeti da colonizzare. Il brano cresce via via verso sonorità sempre più sinfoniche, con percussioni maestose, tra timpani e campanelli, tastiere che simulano ottoni e l’impagabile, insostituibile tappeto di archi del Mellotron, verso un finale nel quale chitarra ed Hammond duettano creando sapori quasi floydiani.

Viaggio nel nulla”, con i suoi cinque minuti, è la traccia più stringata tra le sei che compongono l’album. E dopo una partenza affidata al Moog, diventa anche uno dei momenti più hard-rock del disco, tra massicci riff di chitarra e di Hammond ed eccellenti armonie vocali, il tutto condito da emozionanti aperture sinfoniche affidate ancora al Moog.

Flashback (Apocalisse) nelle atmosfere è la traccia più vicina al classico dark-prog italiano; stacchi nervosi di chitarre e di tastiere fanno da sublime contraltare a un testo interpretato con enfasi nel quale viene descritto il mondo nel 2073, tra riscaldamento globale, oceani inquinati, permafrost che si scioglie e altre mostruosità. La band, solida e compatta, offre una prova di straordinaria perizia strumentale passando con disinvoltura dall’hard al jazz-rock sempre con classe ed eleganza. Gli inserti recitati esprimono impietosa denuncia verso chi ha rovinato il Pianeta. E purtroppo non è fantascienza, ma tragica quotidianità.

Wormhole” è una vera e propria suite che supera i 10 minuti di durata e nella quale la formazione esprime un vero e proprio compendio delle proprie capacità, tra rock progressivo moderno ad alto tasso di elettronica, arpeggiatori tumultuosi, un pianismo percussivo figlio della lezione di Emerson e del Banco, chitarre ora più aggressive, ora impegnate in delicati arpeggi acustici e una sempre sanguigna sezione ritmica sulla quale svetta, ancora una volta, un cantato intenso e convincente, fino a un finale al profumo di bolero, dominato dal flauto e dal Mellotron. L’alternarsi di momenti hard, sinfonici e intimisti fa di questo brano, forse, il picco qualitativo in un album di per sé tutto ottimo.

La barocca “Metà e metà” è giocata su un grandissimo lavoro di tastiere, con Hammond, Clavinet e Moog in primo piano, ma con la chitarra mai relegata al ruolo di condimento, semmai di co-protagonista.

E arriviamo al finale con “E= mc2”, commovente, struggente ballad orchestrale alla quale è affidata la degna chiosa di un album tanto emozionante e coinvolgente. Si conclude l’ascolto con qualche inevitabile, inesorabile lacrima che scende.

Tanta gioia si ha nell’assaporare un lavoro così bello, tanta amarezza si prova al pensiero che Wassermann, Oliva e Bavaro non sono più tra noi. A loro è dedicato questo ottimo album che la band ha consegnato alle stampe. E anche questa recensione.


Guido Wassermann: chitarre elettriche e acustiche, synth, campionatore e cori

Pietro Pellegrini: organo Hammond, synth e campionatore

Franco Giaffreda: voce, chitarra elettrica, chitarra acustica, flauto

Andrea Guizzetti: pianoforte, synth, cori

Diego Mariani: batteria, glockenspiel, cori

Tony Alemanno: basso

 





È ripartita l'Ormata Brancaleone (la prima post COVID)


Incontro tra Vittorio Nocenzi e gli "amici" del Banco

 

Incontro, caffè, camminata, pranzo e finale allo studio ad ascoltare in anteprima qualche brano del nuovo lavoro che uscirà a febbraio/marzo del 2025, tutto nel segno della convivialità ed amicizia.


Erano presenti Michelangelo Nocenzi e Dario Esposito del Banco.

Ci ha raggiunto per un saluto anche Gianni Nocenzi.

(Genzano 6 ottobre 2024)

Wazza










lunedì 7 ottobre 2024

Beautiful Loser – “Stars 4 a Nite” , commento di Alberto Sgarlato

 

Beautiful Loser – “Stars 4 a Nite” 

(5 settembre 2024) 

di Alberto Sgarlato


Il cantante e chitarrista genovese Paolo Cintolesi è un rocker genuino e sincero, uno di quelli che hanno saputo macinare una solida, autentica gavetta nei pub. Ama le chitarre Gibson, le vecchie automobili Alfa Romeo (quando erano fatte bene, con tutti i crismi) e le moto Harley Davidson.

Musicalmente parlando, le sue coordinate si focalizzano sulla grande epopea hard’n’heavy degli anni ‘80, ma non è affatto esagerato dire che la sua cultura musicale è vastissima, capace di spaziare da Elvis ai Beatles, dal sofisticato prog dei Rush a tantissima musica italiana.

Assieme all’amico di una vita Paolo Pesce alla batteria, compare di tante scorribande su e giù per l’Italia al grido di “Anche oggi, qui, ci scappa del rock”, ha dato vita a questo recente progetto chiamato Beautiful Loser. Completano alla perfezione la line-up, con grande coesione di sound e di intenti, Andrea Laurino alla chitarra e Fabio Tassara al basso.

A questo punto, viste le premesse, chi si aspetta una partenza col botto, di quelle capaci di far tintinnare i vetri delle finestre di casa, resterà spiazzato: i ben 6 minuti della opener “Scarred for life”, infatti, si aprono con un incipit di tastiere rarefatto, degno della più nobile tradizione AOR. Ma il riff di chitarra arriva e il brano cresce, cresce, fino a deflagrare in uno di quei ritornelli che canteresti a squarciagola mille e mille volte. La voce del frontman, amministrata con sapienza, è un godibile mix tra la grinta di un Bon Jovi, la morbidezza vellutata di un Michael Bolton, la rabbia di un Sammy Hagar.

La seconda traccia, la title-track “Stars 4 a Nite”, cattura l’attenzione con stop-and-go di chitarra scanditi dall’incedere del cowbell, capaci di evocare persino i Blue Oyster Cult, altra band celebre per fondere grinta da stadio e melodie di classe.

In questo genere può forse mancare la ballad? “Time to say goodbye” è di una dolcezza infinita, con le note lunghe della chitarra e la “cremosità” di un caldo organo Hammond a fare da legante al tutto; chi ha amato Journey e Foreigner non potrà fare a meno di provare un sussulto.

Wings of butterfly” è a metà strada tra quanto sentito finora: melodica ma potente, delicata ed energica insieme, condita da un bel lavoro di tastiere dal sapore sinfonico.

Il tema chitarristico che introduce “Borderline” è davvero azzeccato. Qui siamo al cospetto di un hard rock più old-school, persino con echi di certi David Bowie ed Alice Cooper degli esordi, quando erano nella loro fase più glam, ma ancora una volta con uno di quei ritornelli da cantare tutti insieme sotto il palco.

Una virata verso il grande metal con “Kiss me or kill me”, che evoca nella sua estetica i Guns N’ Roses, altro brano caratterizzato dalla sua spiccata “cantabilità”, non solo nei ritornelli ma anche nei temi delle chitarre.

Down to the city” parte affidata al binomio basso/batteria ed è subito cavalcata, qui e là persino con qualche eco di Iron Maiden.

Lady Child”, altra ballad, ma stavolta completamente diversa. Il fine lavoro sull’hi-hat, le chitarre taglienti, massicciamente riverberate, cariche di delay, i tappeti vellutati delle tastiere, ci portano tra i Police, i Rush del periodo “Permanent waves” e “Moving pictures”, mentre nell’interpretazione vocale fa ancora capolino lo spettro di Bowie, ma stavolta quello più a cavallo tra ‘70 e ‘80, tra il periodo detto “berlinese” e “Let’s dance”, per capirci.

Razor sharp (Baby i’m back to you) è un’altra power ballad, raffinata ma veloce, di valido AOR.

Si chiude con il pezzo più energico dell’intero catalogo, “Handful of lies”, un’altra prova debitrice del miglior metal classico, seppur impreziosita da interessanti arpeggi di sintetizzatore.

Concludendo: se siete alla ricerca di un album capace di farvi cantare, urlare a squarciagola, saltare e ballare ma, al tempo stesso, di spiazzarvi a più riprese con trovate raffinate, intelligenti, originali e mai banali, date una chance a questi “Bellissimi perdenti”. Non ne resterete affatto delusi!



Ricordando Augusto Daolio nel giorno della sua scomparsa


Il 7 ottobre del 1992 ci lasciava Augusto Daolio...

Wazza



Nasceva a Novellara (RE), il 18 febbraio 1947, Augusto Daolio, cantante, cofondatore del gruppo musicale Nomadi insieme a Beppe Carletti.
La sua avventura nel mondo della musica comincia da adolescente quando assieme a Carletti fonda il primo gruppo con cui comincia ad ottenere una discreta fama locale, i Monelli. In seguito, nel 1963, con Franco Midili, Leonardo Manfredini, Gualberto Gelmini e Antonio Campari fonda il gruppo dei Nomadi.
Il complesso diventerà uno dei più importanti nella storia della musica italiana. Cantante e leader del gruppo, i testi delle sue canzoni, col passare degli anni, cominciano ad assumere un carattere sempre più politico. È evidente anche il cambio strutturale della voce e dell'intensità dell'espressione col passare degli anni.


Una voce posata e fiscale in studio che tuttavia ribaltava completamente la situazione nei live. Famosa la versione in concerto della canzone “Ala bianca”, originariamente pezzo di Elton John intitolato “Sixty Years On”.
Nel 1972 incide un 45 giri da solista: “Una ragazza come tante”, colonna sonora del film “La ragazza di via Condotti”. Il 1972 è anche l'anno di “Io vagabondo”, canzone simbolo dei Nomadi e del loro leader che amava identificarsi in questa canzone:

«Per me è istintivo alzarmi e cominciare a camminare, cominciare a muovermi. A scuola ad esempio avevo un sacco di problemi, perché non riuscivo a stare fermo e seduto oltre un determinato tempo. Questo è il mio sintomo di evacuazione, di fuga alla ricerca di luoghi migliori...».

Agli inizi del 1992 le sue condizioni di salute iniziano a deteriorarsi, fino ad arrivare al 14 maggio, giorno in cui muore il suo amico e collaboratore Dante Pergreffi. La notizia colpisce Augusto le cui condizioni, a partire dall'estate di quell'anno, si aggravano ulteriormente. Daolio muore il 7 ottobre 1992, a 45 anni, per un cancro ai polmoni.


Daolio è stato anche pittore e scultore autodidatta. I suoi quadri, dopo la prima personale allestita dal 2 giugno al 1º luglio 1991 a Novellara, alla presenza dello stesso artista, vengono spesso esposti ancora oggi in mostre organizzate con il patrocinio dell'associazione “Augusto Per La Vita”, fondata dalla compagna Rosanna Fantuzzi, per utilizzare al meglio le offerte devolute da amici e fans dopo la scomparsa del cantante. La finalità principale è quella di aiutare la ricerca oncologica e la formazione di medici specializzati.