www.mat2020.com

www.mat2020.com
Cliccare sull’immagine per accedere a MAT2020

sabato 31 luglio 2021

Il compleanno di Tiziano Ricci

Compie gli anni oggi, 31 luglio, Tiziano (Professor) Ricci, bassista, violoncellista, arrangiatore...

Dal 1984 al 2015 "cuore pulsante" della sezione ritmica del Banco del Mutuo Soccorso.

Grande musicista, splendida persona...

Happy Birthday Professore!

Wazza












 

giovedì 29 luglio 2021

Accadde il 29 luglio del 1966, di Wazza


Diciamo che la "mamma dei cretini è sempre incinta...", che cambiano le generazioni ma di bigotti, fanatici, esaltati, siamo sempre pieni!
Questo a ricordare quella che fu definita la "notte dei cristalli" per i Beatles.
Il 29 luglio 1966 la rivista americana "Datebook", ripubblica la famosa intervista che John Lennon aveva rilasciato a marzo dello stesso anno al quotidiano inglese "Evening Standard". “Osò” dichiarare che il cattolicesimo era allo sbando… "Destinato a svanire. Chi vivrà vedrà se ho ragione o no. I Beatles sono più popolari di Gesù Cristo adesso. Non so chi morirà per primo, se il cristianesimo o il rock'n'roll. Gesù era nel giusto ma i suoi discepoli non lo erano altrettanto".

Apriti cielo… i cristiani americani, più i "soliti idioti" (incoraggiati da molte radio locali) organizzarono dei "Beatle Bonfire", punti di raccolta dove bruciare i vinili dei Beatles, addirittura li compravano per bruciarli, pensate che coglioni!
Oltre ad aumentare le vendite dei vinili… a livello collezionistico, hanno "bruciato" migliaia di dollari!
Credo che oggi vedremmo le stesse scene se qualcuno nominasse, Allah, Buddha, Totti, Donnarumma, Maradona...
Per non dimenticare… e possibilmente non ripetere!
Wazza




mercoledì 28 luglio 2021

FUFLUNS: Refusés, di Valentino Butti

 


FUFLUNS: Refusés

Maracash Records - 2021-ITA

Di Valentino Butti


Seconda puntata del progetto Fufluns con protagonisti Simone Cecchini (voce, chitarra acustica, armonica, charango), Alfio Costa (tastiere assortite), Guglielmo Mariotti (basso, mandola elettrica, chitarra 12 corde), Marco Freddi (batteria) e Simone Coloretti (chitarra elettrica).

Come per il precedente “Spaventapasseri”, uscito nel 2016, anche per il nuovo “Refusés”, la gestazione è stata lunga e travagliata. Oltre tre anni e mezzo dai primi incontri, nell’ottobre 2017, alle registrazioni finali, nel dicembre 2020, fino alla pubblicazione ai primi di luglio di quest’anno.

Il fil rouge che lega le nove composizioni dell’album (uscito anche in vinile a tiratura limitata) sono le sculture in terracotta, stoffa e acrilico i refusés appunto, eseguite da Beppe Corna, le cui maschere e forme grottesche hanno ispirato la band che ha descritto i suoi “esclusi”, i suoi “sfruttati”, i suoi “sconfitti”.

I testi, al solito, sono appannaggio della sensibilità di Simone Cecchini, mentre le musiche vedono coinvolta praticamente tutta la band. Liriche quanto mai fondamentali per apprezzare appieno il lavoro. Si denuncia lo sfruttamento infantile nelle miniere di diamante in Sierra Leone, si condanna la guerra ricordando la distruzione del ponte di Mostar o riportando alla memoria le combattenti curde contro l’Isis o le stragi di bimbi in Siria, senza dimenticare le persecuzioni degli omosessuali in Cecenia. Insomma, argomenti a tinte forti che vengono affrontati con grande rispetto e senza banalizzarli.

Il lavoro si apre con “Sierra Leone”, brano ficcante con sezione ritmica ben centrata, hammond a go-go, chitarra pungente e la voce coinvolgente ed “arrabbiata” di Cecchini a “tinteggiare” il dramma delle liriche. Il finale, introdotto dal pianoforte di Costa, è di struggente malinconia.

Colpisce il contrasto elettro-acustico che cadenza le strofe di “Martirio d’un falegname”: ruvido l’inizio, lirico l’estratto centrale, poi ancora ritmo sostenuto e chiusura in grande mestizia con Cecchini a scandire l’ultima strofa su una base di pianoforte e chitarra “sanguinante”.

In “Canzone per Iris” (pseudonimo di Italia Donati “costretta” al suicidio per le accuse infamanti che dovette subire) vibra la 12 corde di Mariotti, ma non mancano i momenti più tirati dai quali emerge la “rabbia” delle liriche. “Desaparecido italiano” è un “sano” hard rock molto seventies che si fa apprezzare anche per lo splendido inserto “sudamericano” dettato dal charango e per un energico “solo” di Coloretti.

Il tuffatore dello Stari Most” (ottime le linee di basso di Mariotti) è meno avventurosa dal punto di vista strumentale, prediligendo, per una volta, le tinte color pastello. Comunque, apprezzabile.

In “Rosa del deserto” esce l’anima cantautoriale di Cecchini, soprattutto nella prima metà. Successivamente, il brano si increspa con un bel “guitar-solo” per ritornare poi nel pacato alveo iniziale.

Blu oltremare” è il sentito omaggio a Fra Claudio Canali che da rocker è divenuto frate. Pure qui brano a “marce basse” nelle sezioni cantate e dirompenti in quelle strumentali con il synth di Costa che si lascia andare ad un pregevole intervento. Acceleratore a tavoletta per l’inizio di “Telefonata a Putin” con hammond protagonista e ritmica decisa. Non basta una parentesi di quiete per dissolvere l’energia che il brano porta avanti fino al termine.

Chiusura con “Canto dei bambini senza voce” dove emerge la versatilità di Costa tra mellotron, hammond, synth e piano, meno convincente, invece, l’aspetto melodico… ma proprio se vogliamo cercare il classico pelo nell’uovo.

Un lavoro, “Refusés” che ci ha lasciato completamente soddisfatti, con liriche intense e musica di qualità e certamente un passo avanti rispetto al, già più che buono, “Spaventapasseri” di qualche anno fa.




martedì 27 luglio 2021

Riprendiamoci la musica: nell'articolo il download di un docu significativo dei primi seventies

“Documento della controcultura riguardante la musica nel tentativo di togliere dalle mani dei "padroni" uno strumento mostruoso di corruzione che, oltre al vergognoso guadagno, era usato nell'ottica del tempo per uccidere e castrare la fantasia, la rabbia, la creatività, i desideri di felicità e di socialismo di milioni di giovani. “

Editore: Savelli, Roma, 1974, Prima Edizione

--------------------

Il 1974 credo fu l’anno delle contestazioni più dure, da parte dei collettivi di sinistra, contro i “padroni della musica”. Nello stesso anno uscì un “Vademecum” dal titolo “Riprendiamoci la musica”: ce n’è per tutti!

A rileggerlo oggi si prova un misto di tenerezza e rabbia, ma la cosa va collocata in quelli anni dove tutto veniva contestato. Anche io adottavo la mia controcultura con lo “scavalco”, ma perché figlio della classe operaia, medio bassa, non potevo permettermi tutti qui concerti (e negli anni ’70 ce ne erano per tutti i gusti). Peccato che gli articoli non fossero “firmati”, magari erano scritti da qualche compagno “figlio di papà”, che si divertiva a fare l’alternativo, con “Lotta continua” bello in mostra, piegato nel taschino posteriore dei jeans, e mai letto! Magari è lo stesso che oggi paga 200€ per Gilmour a Pompei, o qualche altro musicista che contestava negli anni ’70.

Aldilà delle mie considerazioni, cliccate il link e leggete, soprattutto quelli che non hanno vissuto quegli anni!

Di tutto un Pop…

Wazza

DOWNLOAD 

https://www.inventati.org/apm/archivio/P5/03/P503_110.pdf



Metamorfosi in concerto: video e commento

Spettacolare concerto dei Metamorfosi, dopo quattro anni di assenza dal vivo, nella splendida cornice delle “Cave di Peperino” di Marino, ormai diventato luogo “cult” per il prog, dopo i concerti di Gianni Nocenzi e Banco del Mutuo Soccorso.

Allego breve filmato e commento pubblicati dalla pagina facebook del Comune di Marino.

Per i grandi critici della tastiera, sempre presenti in rete e sempre assenti fisicamente… ma capaci di scrivere libri, saggi e fare programmi specializzati… che grande immaginazione avete, beati voi!

Wazza

https://www.facebook.com/ComuneMarino/videos/224459039548972

 

DANTE SUPERSTAR AL RITMO ROCK PROGRESSIVE

 DELLA BAND "METAMORFOSI”

 

Sabato 24.07.2021

Inferno, Purgatorio e Paradiso: tutto sotto il teatro che ha per tetto il cielo delle Cave di Peperino di Marino, impareggiabile ambiente naturalistico per imprimere la giusta atmosfera al terzo live dopo quello di Gianni Nocenzi che ha tenuto a battesimo questa impareggiabile location, il mitico Banco del Mutuo Soccorso e, sabato 24 luglio 2021, un’altra storica band rock progressive: Metamorfosi.

La musica, la storia, la poetica hanno catturato il pubblico e Marino, ancora sotto i riflettori di una notte d’estate.

La singolare rilettura della commedia dantesca, che ha concluso il ciclo di iniziative marinesi dedicate al Sommo Poeta nel VII centenario della sua scomparsa, è stata proposta dalla band romana, formatasi alla fine del 1969, “Metamorfosi”, e organizzata dall’Associazione La Terzina, in partenariato con il Comune di Marino e il patrocinio di Città Metropolitana di Roma Capitale - Adi (Associazione degli Italianisti - GRUPPO DANTE).

Sul palco i musicisti Jimmy Spitaleri (voce), Enrico Olivieri (tastiere), Fabio Moresco (batteria), Leonardo Gallucci (basso e chitarra), con la partecipazione del relatore prof. L. Rino Caputo (ha scritto, tra l’altro, vari saggi su Dante, Petrarca e Manzoni, è direttore della Rivista Internazionale “Dante”) e Mario Alberti (musicista, compositore, Presidente Associazione La Terzina ed esperto di musica antica) che hanno introdotto i brani della trilogia musicale ispirata al Sommo Poeta tra cui i noti brani “Cielo di Marte”, “ L’Angelo nocchiero”.

Il progetto che abbiamo messo in campo grazie agli organizzatori, l’Associazione La Terzina, e agli uffici comunali e all’Assessore Santamaita che si sono spesi fino alla fine per consentire che tutto questo potesse accadere” ha detto il Sindaco Carlo Colizza “è un’esperienza di alto valore riconosciuta soprattutto da quegli istituti che si occupano della diffusione della cultura dantesca in Italia e nel mondo”.

Dare la nota al testo” ha spiegato sul palco il professor L. Rino Caputo “poesia e musica, musica che interviene sulla poesia, è un atto connaturato all’opera di Dante, un’opera appunto fatta per essere tradotta in musica”.

Dante non ha mai entusiasmato tanto” ha detto a caldo Ada Santamaita, Assessore alle Attività Produttive e Gianni Nocenzi, presente al concerto, ha sottolineato come un sogno può uscire dall’utopia quando c’è chi lo sa realizzare concretamente “Quella delle Cave di Peperino " ha detto Gianni Nocenzi "grazie all’amministrazione comunale, quale luogo deputato alla cultura è oggi una realtà e questo mi rende felice”.

 

Queste le altre date dove potrete vedere i Metamorfosi dal vivo:

 

05 agosto 2021

 Trieste Summer Rock Festival

 

21 agosto 2021 Castiglione del Lago, Rocca del Leone

Trasimeno Prog

 

03 settembre 2021 Veruno (Novara)

 2DAYS PROG +1



 

mercoledì 21 luglio 2021

Il giorno 21 dedicato a Big Francesco

Foto di @Maria Antonella Cosco

La classe operaia va in paradiso… però si è rotto l’ascensore e deve andare a piedi

(Francesco di Giacomo)


21 luglio

Ci sarai sempre. Buon viaggio Capitano!

Wazza


Il ricordo di “Pince Faster”

 

Sandrino Pigozzi, in arte "Prince Faster", noto speaker della capitale, Radio Rock, Radio Popolare…

 

Francesco di Giacomo

 

In questi mesi ho provato un paio di volte a mettermi davanti alla tastiera e scrivere di lui, di come l’ho conosciuto, scrivere e raccontare un uomo.

Raccontare anche quello che rappresentava per me Francesco Di Giacomo musicista; non ci sono mai riuscito, qualunque cosa abbia tentato di scrivere mi sembrava banale e priva di significato, vuota, inutile.

Ci riprovo oggi sperando di scrivere qualcosa di vagamente leggibile e sensato, ma non è facile per niente.

Il primo concerto del Banco che vidi fu quello al convento occupato che stava alla fine di via Cavour, erano gli anni Settanta.

Il primo disco lo comprai con tanti sacrifici quando ero ancora un ragazzino, mi mettevo i soldi da parte come un carbonaro, era il 1972 o 73 non ricordo con precisione, ma Darwin mi cambiò la vita, e chi ha la passione per la musica sa esattamente di cosa parlo, certo assieme a quel disco così pieno di musica ascoltavo anche Jimi Hendrix, i Pink Floyd e tutte le “fermate” musicali che un adolescente faceva all’epoca.

Lo chiamavano Big perchè era veramente Grande, lui, immerso in quella tuta che faceva parte di lui. Li vidi tante volte dal vivo, anche a Villa Ada con l’orchestra e i ballerini, non avevo mai visto uno spettacolo del genere, e in quanto ragazzino qualunque cosa mi incuriosiva, mi entusiasmava, e quello spettacolo mi è rimasto piantato nel cuore come una saetta.

Ma la vita ogni tanto ti riserva le “sue” belle sorprese; iniziai a fare radio e iniziai a vivere il mondo della musica più da vicino, finchè un giorno la mia vita, e la vita del Banco si incrociarono dentro una radio e davanti ad un microfono. Credo di averli travolti di domande, restammo un paio d’ore in diretta a parlare di musica; c’era Vittorio, Francesco, e Rodolfo, penso di avergli chiesto qualunque cosa, ma loro se ne stavano li tranquilli e sereni a rispondere alle domande di un ragazzetto matto che straparlava. Grandi professionisti.

Poi un giorno di molti anni dopo, di molte interviste e molti concerti, li incontrai per caso in un paesino della Toscana, fu proprio lì che conobbi l’uomo Francesco Di Giacomo. Un uomo innamorato dell’arte, un appassionato di tutto e con tanta voglia di “sapere”, era uno che guardava la scena complessiva e si innamorava dei particolari. Ma era anche un compagnone, uno di quelli che quando “raccontava” si faceva ascoltare, ma era anche uno che ascoltava molto, ti guardava e rideva nascosto dietro quella sua barba eterna.

I “dopo concerto” erano dei triclini, nonostante suonassero in media 2/3 ore, alla fine di ogni concerto uscivano e si mettevano a chiacchierare con tutti, saluti da una parte, abbracci dall’altra, “che mi firmi questo disco? che ti fai una foto? ” e loro li pronti e sempre disponibili, Francesco era il più fracassone di tutti, rideva e scherzava come un ragazzino al primo giorno di scuola (chi è stato ai loro concerti mi è buon testimone), mai una parola fuori posto verso il suo pubblico (eppure, “noi” pubblico siamo dei veri rompicoglioni diciamocelo) che poi alla fine, molti di quelli che andavano ai loro concerti erano diventati quasi “di famiglia”.

Ho avuto occasione di conoscerlo anche più profondamente Francesco, in uno studio di registrazione alle prese con un disco, sono stato li per degli interi pomeriggi mentre il Banco scriveva “13″ e sono riuscito ad apprezzarlo anche in quei frangenti così complicati e quasi “mistici” mentre con un pezzetto di carta e una matita, appoggiato ad uno spigolo del tavolino di fronte ad una vetrata, scriveva i testi del disco, e poi se li rileggeva, poi se li cantava nella testa, e poi li cantava veramente, e di tanto in tanto si girava e diceva… “a Vittò che dici te piace?!” “a Rodò, prova un pò a mettece na chitaretta”.

Ecco, lui era fatto così, era uno leggero perché tutto gli scorreva lieve, e anche un disco che è una cosa davvero impegnativa, gli scorreva lieve addosso, gironzolava per le stanze, alzava gli occhi, si fermava, ripartiva, cantava, ti guardava… “a Sandrì che dici pò annà!?!?” e io gli rispondevo- a Francè, ma io… ma che ne so, mica faccio il musicista” e lui dietro la sua barbona se la rideva pacifico e sereno come una laguna.

So per certo, che tanta gente che lo ha conosciuto potrebbe raccontarvi altrettanti aneddoti, altrettanti momenti di vita, potrebbe raccontarvi più e meglio di me quell’essere umano che viveva forte dentro i suoi occhi.

Aveva quegli occhi che ti spiazzavano, perché erano pieni di musica, pieni di gesti accennati, di sorrisi quasi nascosti per la tanta timidezza che esprimevano, e tutti se lo coccolavano come fosse uno di famiglia, perché lui ti ci faceva sentire uno di famiglia, anche solo se ti incrociava con un semplice sguardo, e solo le persone molto pulite riescono in questo difficilissimo gesto.

Mi piaceva quell’uomo, perché era uno che veleggiava.

Prince Faster

 

 

 


lunedì 19 luglio 2021

"Jethro Tull 1968-1978 - The Golden Years", di Giuseppe Scaravilli-commento di Fabio Rossi

Libro: Jethro Tull 1968-1978 - The Golden Years (Europa Edizioni - 2018)

di Giuseppe Scaravilli

Recensione a cura di Fabio Rossi

 

I veri cultori del rock progressivo nostrano conoscono molto bene Giuseppe Scaravilli per essere da oltre trent’anni il leader dei siciliani Malibran, una band con in attivo la bellezza di dieci album e che ha saputo ritagliarsi uno spazio significativo nell'ambito di questo affascinante genere musicale. Purtroppo, Giuseppe dal 2012 combatte contro una grave patologia che ne ha ridotto la capacità di deambulazione. Proprio per questo motivo ha cominciato a dedicarsi alla scrittura con “Crossroads, gli incroci del Rock” (Passim Editore - 2017) e, a distanza di un anno, ha poi sfornato “Jethro Tull 1968-1978 - The Golden Years” (Europa Edizioni), dimostrando una profonda conoscenza della musica degli anni Settanta.

La sua seconda opera letteraria riveste un’importanza peculiare atteso che, sebbene i Jethro Tull siano stati una delle band più originali e influenti della storia del rock, paradossalmente in Italia nessuno si è peritato di scrivere libri su di loro (ad eccezione degli introvabili “Il Flauto nella Roccia” di Giovanni Zito - Geronimo Edizioni - 1997 - e di “Jethro Tull” di Michele Manzotti - Editori Riuniti - 2003). “Jethro Tull 1968-1978 - The Golden Years” è uscito in occasione del cinquantesimo anniversario della compagine guidata dall’istrionico Ian Anderson, un bel tributo alla gloriosa carriera del combo britannico. Il libro si focalizza sui primi dieci anni di attività, quelli più rilevanti sotto il profilo artistico, narrando con dovizia di particolari le vicissitudini della formazione.

Lo stile è scorrevole, semplice, sintetico, nonché privo di quella presuntuosità e saccenteria che inflazionano la critica musicale italiana: non posso che condividere tale aspetto in quanto anche il mio modo di scrivere ricalca tali caratteristiche.

Corredato di splendide fotografie, è suddiviso in capitoli incentrati su ciascun album a partire da This Was fino al monumentale doppio live “Bursting Out” del settembre 1978.

L’analisi dei dischi, comprese le registrazioni francesi "abortite" del 1972, è approfondita ed evidenzia chiaramente la dedizione di Giuseppe nei confronti dei Jethro Tull.

Il testo segue un meticoloso percorso cronologico nel quale ci si sofferma, tra l’altro, sulle tournée e le relative setlist, sugli abiti di scena indossati e i molteplici cambi della line up, includendo qua e là chicche stuzzicanti che non mancheranno di esaltare gli appassionati.

L’ultima sezione è un’appendice sulle attività del gruppo dal 1978 fino ai giorni nostri ed è essenziale soprattutto per i neofiti più attenti che desiderano conoscere, seppur sinteticamente, anche il resto della loro storia.

L’autore ha affermato: "Io stesso avrei sognato di vederlo sugli scaffali di una libreria…", beh, concordo in pieno e ancora oggi, girovagando per librerie a Roma, mi fa piacere trovare questo saggio e consigliarlo agli interessati.

Concludo ricordando che il 10 marzo 2018, ormai più di tre anni fa, presso il Jailbreak Live Club di Roma il sottoscritto e Aldo “Wazza” Pancotti (esperto matricolato dell’universo “tulliano”) hanno allestito un banco per il merchandising esponendo un congruo quantitativo di copie del libro di Scaravilli e memorabilia di ogni tipo (tra cui spiccava un 45 giri del mitico Bourée (“Nel brano c’è un accordo sbagliato, come farà notare in seguito David Palmer alla band” - pag 39 -… lo sapevate?). Sul palco quella sera si esibivano gli Undertull (una tribute band tra le più conosciute capeggiate da Gianluca De Rossi) per celebrare il decennio d’oro dei Jethro Tull… mancavi solo tu Giuseppe e sarebbe stato davvero tutto perfetto!

Un’anticipazione succosa: Scaravilli mi ha confidato che sta preparando un nuovo libro sui Jethro Tull e non vedo l’ora di leggerlo!   





 

venerdì 16 luglio 2021

Andrea Barricelli: "Dominio", commento di Fabio Rossi

Libro: Dominio

Autore: Andrea Barricelli

Anno: 2018

Casa editrice: Il Seme Bianco

Commento di Fabio Rossi


Andrea Barricelli è un giovane avvocato romano appassionato di letteratura, nonché ex storico redattore del sito http://www.metallized.it/di cui, per cinque anni, ho fatto parte anch’io. Mi aveva confidato che da qualche tempo coltivava il desiderio di pubblicare un suo romanzo e, dopo alcuni tentativi infruttuosi, finalmente la casa editrice capitolina Il Seme Bianco ha trovato intrigante il suo racconto intitolato Dominio, coronando così il sogno dell’autore di vederlo trasformato in un libro.

Uscito nel settembre del 2018, l’opera narrativa è inquadrabile nel genere fantasy con ampi riferimenti a Stephen King (non è un caso che Andrea abbia voluto riportare una frase estrapolata dal romanzo “L’Ultimo Cavaliere”), Dan Brown, Terry Brooks e J.R.R. Tolkien.

Lo stile di scrittura è scorrevole, semplice e privo di superflue divagazioni, consentendo al lettore di rimanere saldamente ancorato all’avvincente trama ricca di colpi di scena.

Nel corso della lettura, mi è tornato in mente il celebre aforisma di Albert Einstein: “Io non so come si combatterà la terza guerra mondiale, ma so che la quarta si combatterà con pietre e bastoni.”

La vicenda si svolge nel 2031. Il 2 aprile di dieci anni prima il pianeta terra fu devastato da un conflitto nucleare provocato dalla contrapposizione di due fazioni, quella del Dominio e quella della Ribellione. Malgrado le catastrofiche conseguenze, le armate nere dei dominanti continuano a contrapporsi ostinatamente a quelle rosse dei ribelli. Si combatte, però, usando le spade, le lance, gli archi e le catapulte; insomma, l’umanità è miseramente regredita al medioevo, proseguendo un’inutile carneficina motivata dalla smania di vendetta e dalla brama di potere.

Il protagonista, Kyle Celaphon, è uno dei leader dei Ribelli e rammenta l’intraprendente Professor Langdon, che i fan di Dan Brown conoscono molto bene, quando intraprende la ricerca del Potere della Terra, una sorta di Santo Graal che potrebbe essere la chiave per raggiungere la tanto agognata pace. Kyle finirà per portare con sé il pesante fardello della verità sulla distruzione del mondo imputabile, nella sua fase iniziale, alla fazione di cui fa parte: sarà una delle rivelazioni del Potere della Terra trovato in una grotta sotto la Basilica di San Pietro. Dominio è anche la storia della profonda amicizia tra Kyle e Kevin che condividono il dolore di aver perso i genitori a causa della guerra. Non poteva mancare, poi, il tema dell’amore che riveste un ruolo apparentemente secondario, ma che in realtà costituirà la forza propulsiva che consentirà a Kyle di impegnarsi con tutto sé stesso nei combattimenti cruciali.

Alice, la sua donna, è anche la speranza per un futuro luminoso e lontano dalle armi, cercando di ricostruire insieme quello che la follia umana ha distrutto. Le descrizioni delle battaglie sono accuratamente dettagliate e trovano palese ispirazione in quelle contenute nell’immortale Il Signore degli Anelli, senza però scadere nella convenzionalità.

Non intendo approfondire ulteriormente la trama del romanzo per non “spoilerare” troppo, ma posso affermare che Dominio è davvero un libro piacevole, senza troppe pretese e con un finale inaspettato che lascia intendere al lettore un possibile sequel… e, infatti a maggio è uscito Equilibrio e Cambiamento (CTL – Livorno) … non resta che procurarselo insieme a Dominio e Ribellione (CTL – Livorno) - riedizione di Dominio con ben quaranta pagine in più. 








giovedì 15 luglio 2021

Le sliding doors di Rory Gallagher


Forse non tutti sanno che... nel 1975 Rory Gallagher, geniale chitarrista irlandese, "rischiò" di entrare nei Rolling Stones.

Dopo che Mick Taylor aveva lasciato la band, nel 1975, Keith Richard e Mick Jagger, invitarono Gallagher a suonare con loro a Rotterdam. Dopo alcuni giorni di jam session, gli Stones, (nonostante l'esito positivo del manager Marshall Chess), tentennavano nel dare la risposta. Rory Gallagher in procinto di partire per il tour giapponese, andò dritto per la sua strada. I Rolling Stones optarono poi per Ron Wood.

Di tutto un Pop…
Wazza


"Beh, accadde prima dell’entrata di Ronnie Wood e stavano facendo audizioni a molti artisti. Ho suonato un po’ con loro e credo che piacessi a Mick Jagger e mi volesse, ma Keith Richards stava piuttosto male a quel tempo e non ero certo che rimanessero insieme. C’erano molte incertezze, poi avevo prenotato concerti in Giappone, così rifiutai e fu l’ultima volta che li sentii. Così doveva andare, credo."

(Rory Gallagher)








mercoledì 14 luglio 2021

"Rory Gallagher. Il bluesman bianco con la camicia a quadri": Antonio Pellegrini intervista l'autore, Fabio Rossi


Rory Gallagher. Il bluesman bianco con la camicia a quadri

Antonio Pellegrini intervista l'autore, Fabio Rossi

 

Rory Gallagher è senza dubbio uno degli artisti rock’n’ blues bianchi tuttora più amati tra i fan.

Nato a Ballyshannon, in Irlanda, nel 1948 e morto a soli 47 anni per le complicazioni di un trapianto di fegato, il musicista è ricordato specialmente per gli appassionanti spettacoli dal vivo e per l’esplosivo sound chitarristico che ha affascinato tante platee durante la sua carriera.  Indimenticabili il live all’ “Isle Of Wight Festival” del 1970, impresso su pellicola per i posteri, e l’album dal vivo “Irish Tour ‘74”.

Per approfondire la sua figura e capire qualcosa di più della sua personalità, ho intervistato uno dei maggiori esperti italiani di Gallagher, Fabio Rossi, autore della biografia “Rory Gallagher. Il bluesman bianco con la camicia a quadri”.


 L'intervista...


A: Ciao Fabio, vista la tua esperienza in materia, vorrei porti alcune domande per ripercorrere insieme le tappe salienti della carriera di Gallagher. La prima domanda riguarda la formazione musicale di Rory.

F: Ciao Antonio e grazie dell’opportunità concessami! Sia la madre che il padre di Rory possedevano doti artistiche. Il papà, in particolare, era un musicista di talento. Un’altra influenza su di lui la ebbe uno zio di nome Jimmy che portò dall’America il catalogo di Jimmie Rodgers, Hank Snow e tanti altri. Rory, poi, si innamorò presto di Elvis Presley, Lonnie Donegan (il padre dello skiffle) e soprattutto del mitico Muddy Waters. Il blues gli era entrato nell’anima per rimanervi per sempre.  

A: Parliamo ora del power trio dei Taste, attivo dal 1966 al 1970. Qual è la rilevanza dei Taste nella storia del blues rock e quali sono le loro principali imprese da ricordare?

F: La formazione classica dei Taste (Gallagher alla chitarra e voce, McCracken al basso e Wilson alla batteria) è stata anche la migliore mai avuta da Rory. Lo stesso Gerry McAvoy, il bassista che accompagno’ in quasi tutta la sua carriera l’artista nato a Ballyshannon, sostiene che la migliore sezione ritmica irlandese era all’epoca quella composta dal duo McCracken/Wilson. La rilevanza del trio nella storia del rock’n’blus è enorme a fronte dei due soli album in studio pubblicati. Peraltro, la band stava sperimentando altre vie come l’ascoltatore più attento può percepire godendosi On The Boards che contiene momenti spiccatamente inquadrabili nel progressive. La loro memorabile esibizione al Festival dell’Isola di Wight costituisce l’apice della loro saga.

A: Gallagher ebbe l’onore di suonare anche nelle “London Sessions” di Muddy Waters. Cosa ci puoi dirci di questa collaborazione?.

F: Ho accennato a quanto Rory ammirasse Waters. Per cui collaborarci fu uno dei momenti più belli della sua vita. Lo riaccompagnò al suo hotel un paio di volte dopo le registrazioni con una Ford Executive. Ebbene, Rory la parcheggiò davanti alla sua casa a Cork anche se andava rottamata cadendo letteralmente a pezzi: si soffermava a guardarla perché lì dentro poteva vedere ancora Muddy sul sedile anteriore mentre fumava sigari.

A: Veniamo ora al periodo post Taste. Quali sono le tappe più significative della sua carriera solista?

F: Potrei risponderti semplicemente che Rory è stato sul palco per tutta la sua vita limitandosi a rari episodi di riposo e al tempo strettamente necessario per incidere i suoi dischi solisti. Dava tutto dal vivo, quella era la sua dimensione ed è per questo che non mi stancherò mai di dire che ogni amante della vera musica non può non avere nella sua personale collezione i tre live incisi da Gallagher: Live! In Europe, Irish Tour ’74 e Stage Struck.

A: Da chitarrista quale sono, mi piacerebbe conoscere qualcosa di più del sound di Rory. Cosa ci puoi raccontare in merito?

F: La sua chitarra preferita era una Fender Stratocaster Sunburst del 1961 che acquistò di seconda mano nel 1963 per 100 sterline. La suonò talmente tanto che era scrostata all’inverosimile! Da quello strumento sono nate la maggior parte delle composizioni dell’irlandese. Un amore durato tutta una vita. Riguardo al sound Rory fonde il rock al blues includendovi quello spirito celtico che rende la sua proposta unica. Ha strizzato l’occhio anche all’hard rock facendosi coadiuvare dal produttore Roger Glover, nonché bassista dei Deep Purple. Chissà cosa avrebbe potuto ancora fare se non fosse morto così giovane.

 A: A distanza di oltre venticinque anni dalla sua scomparsa, qual è il lascito artistico di Gallagher?

F: Una sola risposta: enorme. Basti pensare agli innumerevoli eventi a lui dedicati in tutto il mondo. Penso sempre che se avesse avuto più pazienza in studio e se fosse stato coadiuvato da collaboratori di talento forse avrebbe potuto pubblicare quel capolavoro assoluto che manca nella sua discografia.

A: Dal tuo volume dedicato a Rory, che ho letto con interesse già dalla prima edizione, si percepisce il tuo amore per questo artista. Cosa ti lega in particolare a lui?

F: L’ho conosciuto acquistando a scatola chiusa il 33 giri Live! In Europe. Ero rimasto ipnotizzato dalla copertina e fu amore a prima vista. Correva l’anno 1982. Non avrei mai pensato che un giorno avrei pubblicato un libro su di lui... eppure è successo. Rory per me è sul podio dei migliori chitarristi al mondo con Jimi Hendrix e Duane Allman.

A: Il tuo libro è stato ripubblicato nel luglio 2021 da Officina di Hank. Ci sono differenze rispetto alla prima edizione?

F: Innanzi tutto c’è una nuova prefazione a cura di Tolo Marton, poi tante notizie in più, migliorie varie e una nuova splendida copertina. Molte persone che avevano già comprato la prima edizione hanno preso da me anche la seconda tanto è grande l’amore verso Rory.

A: Un’ultima curiosità su di te. Sei uno scrittore eclettico, che ha pubblicato saggi musicali su argomenti variegati: dal prog al metal, passando per il blues di Rory. Quali sono i confini della tua passione musicale e quali sorprese ci riservi per il futuro?

F: Dopo due libri sul prog, uno sul blues e uno sul metal il prossimo sarà sul jazz, o sul punk o forse sulla new wave. Non lo so devo ancora decidere (ride).

A: Grazie mille!

F: Un saluto a tutti i lettori di Mat2020! Rory On!





martedì 13 luglio 2021

OFFICINA F.LLI SERAVALLE – “BLECS”, di Andrea Pintelli

 


OFFICINA F.LLI SERAVALLE – “BLECS”

Di Andrea Pintelli


Partendo dal presupposto che nulla è iniziato e niente finirà, ma che il Tutto è soltanto in continua evoluzione (poi capirete il/i perché), piace dover parlarvi dell’Officina F.lli Seravalle, gruppo friulano giunto al terzo lavoro dal titolo “Blecs”.

Questi artigiani del saper fare creano musiche dal deciso sapore psichedelico, in parte sperimentale ma con un forte ancoraggio nel groove. Musica per la mente e per il corpo quindi, che prende vita da ogni impressione o stimolo passi nei paraggi dei due musicisti.

È musica eterogenea, mai disposta a riposare su posizioni acquisite, dallo stile volutamente zigzagante. Niente linee predefinite qui, ogni impulso all’operare è accolto e trasformato in musica, ogni sensazione diventa occasione per un viaggio sonoro. È musica officinalis, dotata di proprietà terapeutiche, cura contro le derive logoranti della vita quotidiana. Non c’è bisogno di chiedersi perché, basta ascoltarla.

La band prende le mosse dalla pubblicazione da “Assurdo”, al momento l’ultimo capitolo discografico della storica band Garden Wall oltre che dalla comune partecipazione al Cd “James Frederick Willetts” (dell’omonimo progetto in cui i due sono affiancati dal chitarrista Andrea Massaria e dal filosofo Raoul Kirchmayr).

I fratelli cominciano a lavorare come duo nel 2017 e giungono all’esordio discografico, per Zeit Interference, succursale avantgarde di Lizard records, l’anno successivo con “Ûs frais cros fris fics secs” che riceve ottime recensioni e suscita un certo interesse presso gli ascoltatori pronti a mettersi in gioco e animati da curiosità per qualcosa che vada al di là dei clichè che infestano ormai i generi musicali. L’anno seguente il duo bissa con “Tajs!”, un’opera che amplia ulteriormente il loro suono e incrementa il loro seguito.

E ora “Blecs”, per l’appunto. Ogni azione che abbia a che fare con l’espressione, dunque l’arte in primis, tende a rammendare le ineludibili falle che si aprono nella parabola di ognuno. La parola friulana “blec” indica appunto il rattoppo. Si tenta di chiudere le voragini, le epifanie del caos che alla fine conseguiranno l’inevitabile vittoria. L’arte come “blec”, qualcosa di intrinsecamente temporaneo, fugace, caduco, mentre nuove, imprevedibili crepe si aprono nel muro. La musica come antidetonante, effimera misura di contrasto alla muta esplosione. L’entropia, verme del tempo che corrode la materia, sbaraglierà ogni futile resistenza, sfonderà ogni barriera, dilanierà ogni risibile tentativo umano di comporre lo strappo, di assicurare durata, di superare il tempo. Non ci restano che i “blecs” cui attaccarci per garantirci ancora il respiro.

Tutte le copertine dei dischi sono quadri del padre dei due, l’artista Giovanni “Ninos” Seravalle, che apportano una dimensione visiva alla loro musica.

L’apertura è “Imprevisto cristallo”, espansione in assenza di gravità, vicina al messaggio di Klaus Schulze, punteggiata da soffuse gocce di futuro. Ritmo-non-ritmo, tratteggia un’intera filosofia.

Shady business”, minacciosa al punto giusto, è ingrediente e condimento, un’isola dove i contrappunti sono gli alberi più grandi e rigogliosi. Volutamente sghemba, parte dalla parte oscura di ognuno di noi, per essere vista come tutt’altro, nella morsa ansiosa della giostra dagli specchi deformanti.

Digital panoptikon”, loop vorticoso dall’infinito groove, messaggio di prigionia al cospetto del grande occhio, noi (tutti) costantemente controllati, scelti, rimossi, nuovamente aggiunti. Pazzia d’oggigiorno? No, semplice vita non scelta, col blando pensiero di esserla.

Luce scettica”, armonia, tregua, riflessione. Scettica e asettica luce malfidente. Perpetuo orizzonte temporale dalla spinta propulsiva, che si estingue quando lo si intende come miraggio.

Doppelganger”, ossia quel fenomeno esoterico corrispondente all’alter ego che abita in ognuno di noi. Decidiamo di escluderlo o non possiamo farlo? Possiamo eluderlo oppure ne siamo inconsciamente succubi? Ci fa paura o ci rafforza? Un pozzo di risposte è lì ad aspettarv(c)i.

Posto di blocco”, incubo che fa della contemporaneità il fulcro del problema. Schedulati e (raf)fermi, camminanti stando fermi, propagati nell’oggi da un altrove che presto conosceremo. Nulla inizia, niente finisce (riferimenti d’altrove). “Of rain, elder, crickets and breaths”, la Natura che esplode nella sua eterna primavera. La nostra natura che implode nella sua continua distrazione. Note d’orgoglio risibile per chi si crede invincibile, soffi di opaca gioia indotta.

Due di notte”, situazionista, sospesa, eterea. Istantanea d’un attimo ch’è già immagine.

Angelus novus”, celestialmente sinistra, sospettosa senza speranza, figlia della decostruzione della materia. Ringhiante nella sua applicazione. Siamo già angeli, siamo già demoni?

 Exp 221”: difficoltà nel riconoscere la variabile come esponente. Paradigma d’esistenza, che pone il dover essere sempre più impegnati nel guardarsi le spalle. E non solo. Quindi, il non vivere, ma il sopravvivere.

S=k logW”, in opposizione e in aggiunta a quanto prima dedicato, qui è la costante di Boltzmann ad essere musicata. È una costante dimensionale che stabilisce la corrispondenza tra grandezza della meccanica statistica e grandezze della termodinamica. Oggi questa costante è rappresentata dai “Blecs”, per arginare l’affondamento della barca in cui siamo stati messi, senza accorgercene. Abile malvagità che alberga ovunque.

Orbene dunque, non si tratta di un ascolto semplice, ma nemmeno di un messaggio così negativo. L’Officina F.lli Seravalle, in quanto arte, segnala, rappresenta, pone. C’è di che riflettere, a patto che non siate dubbiosi di voi stessi.

 

ALESSANDRO SERAVALLE electric guitar, baritone electric guitar, e-bow, guitorgan, fx pedalboard, electronics, lead vocals, objects, piano, synths, samples.

GIAN PIETRO SERAVALLE rhythms, piano, electric piano, synths, bass synths, frequency generator, vocal synthesizer, glitches, “Digital panoptikon” lyrics.

 

Ospiti:

SIMONE D’EUSANIO electric violin on “Shady business”.

ANDREA MASSARIA guitar and fx pedalboard on “ Of rain, elder,

crickets and breaths” and “S=k logW”.

ALESSANDRA RODARO french horn on “Luce scettica”.

PAOLO VOLPATO lead guitar on “Posto di blocco”.

 

MIXED BY Gian Pietro Seravalle at Gps Studio, Cervignano del Friuli

MASTERED BY Francesco Marzona at Birdland studios, Udine

PAINTING BY Giovanni “Ninos” Seravalle

ARTWORK AND BAND PHOTO BY Giulio Casagrande




lunedì 12 luglio 2021

Gianni Venturi – "Socrate è morto", di Alberto Sgarlato

Gianni Venturi – Socrate è morto (2021)

Di Alberto Sgarlato


Il volto di una riproduzione scultorea del filosofo Socrate si trasforma in un ghigno mostruoso, deforme e scarabocchiato utilizzato come sfondo per il desk di uno smartphone nella copertina di “Socrate è morto”, nuova opera di Gianni Venturi.

Siamo di fronte a un periodo particolarmente fertile per il cantante e poeta nato sulle colline bolognesi. Era infatti il 2018 quando sul blog di MAT 2020 davamo spazio al suo progetto solista “Mantra informatico”.

Nel frattempo, è tornato alla “casa madre” degli Altare Thotemico, con i quali ha dato alle stampe nel 2020 “Selfie ergo sum”: un prog-rock senza barocchismi leziosi ma, al contrario, teso e nervoso, a supporto di liriche che denunciano questa società sempre più votata a una iperconnessione e un’apparenza (anzi, ancora meglio: un’appariscenza) senza reali contenuti.

E alla fine del 2020 è uscito anche “Qohelet” (testo biblico noto come “L’Ecclesiaste”), album in duo nel quale Venturi ha trovato un suo perfetto contraltare in Alessandro Seravalle. Il chitarrista dell’Officina Fratelli Seravalle, infatti, ha tanti punti di contatto con il poeta bolognese, nella ricerca musicale sempre spinta all’estremo e nell’approccio filosofico/sociologico impietoso verso una società allo sbando.

Ed ecco che arriviamo a questo nuovo “Socrate è morto”: Gianni Venturi è uno di quei personaggi che un tempo sarebbe stato di moda definire “scomodo”; è pienamente compenetrato nel web e nei social, di cui fa largo uso, ma non certo con l’approccio “modaiolo” e commerciale di tanti giovani influencer. Al contrario, in modo spesso schietto, esplicito, severo, stimola costantemente nel lettore la riflessione e la “Consapevolezza” (parola cara agli Area, band che merita una menzione nel novero dei suoi riferimenti stilistici).

In un percorso senza freni, senza schemi e senza filtri, Venturi sul web parla liberamente della Sindrome di Asperger con la quale convive da sempre, dei sacrifici fatti da una famiglia povera e numerosa in un ambiente rurale, delle ansie e dello stress della sua attuale vita di commerciante ambulante tra crisi economica, tasse e burocrazia. E non ha paura di scatenare il dibattito politico, menando fendenti a tutte le fazioni, dalla destra alla sinistra, ma mai in modo qualunquista e superficiale, al contrario sempre arguto e pungente.

E sono questi gli ingredienti che ritroviamo in “Socrate è morto”, nuova opera solista di Venturi. La struttura, sul piano tecnico, è la stessa del precedente “Mantra informatico”, come potenziale nuovo capitolo di una polilogia, ma il risultato è ben diverso perché Venturi non è mai uguale a sé stesso, detesta annoiare e annoiarsi.

Per chi non se lo ricordasse, “Mantra informatico” era stato realizzato filtrando la sola voce del cantante attraverso ausili elettronici di vario tipo, fino a trasformarla, destrutturarla, ricomporla, dandole una nuova identità di strumento. Solo qui e là erano presenti un basso, un sax, una drum machine, a completare il tutto.

Stavolta niente strumenti aggiuntivi. La voce di Gianni è protagonista assoluta e indiscussa. E l’intera opera suona ancora più asciutta, più scarna, più cupa. Il giro di basso di “Buco nero” sembra un didjeridoo; i pattern ritmici della title-track suonano come pezzi di metallo sbattuti gli uni contro gli altri nella eco dei quali si percepiscono urla da un oltretomba straziato; “Like” potrebbe essere generata con i primi bass-synth in auge tra fine ‘70 e inizio ’80; “Ommaya” è un emozionante canto proveniente dai confini del mondo, potrebbero essere sciamani africani o monaci tibetani (in realtà il serbatoio di Ommaya è uno strumento terapeutico che non verrà qui descritto nel dettaglio per non correre il rischio di essere troppo “crudi”); “I am sorry i don’t speak english” sembra quasi una beffarda parodia di certa italo-disco.

E su tutto questo lavoro (fatto con la voce, ricordiamolo), svettano i testi. La “parola parlata”, in contrapposizione alla voce come puro suono, qui è declamata, per non correre il rischio che il contenuto si perda nei vezzi e nei lazzi di una melodia ma, al contrario, che arrivi ben chiaro, scandito. Nelle liriche e nei titoli c’è ancora più rabbia rispetto alle consuetudini dell’impietoso Venturi: “Esseri disumani razzolano tra rifiuti come fossero oro”, canta l’autore in “Like”, “Polvere, tutto sarà polvere, ingranaggi corrosi della macchina uomo” è la denuncia in “Obsolescenza programmata”, brano sulla disumanizzazione, attacco alla vigente economia mondiale per la quale tutto va estratto, prodotto, lavorato, consumato e deve avere una data di scadenza, uomo compreso. “Il gasolio era una foresta, il microchip era nella terra”, ci ricorda l’autore, mentre in sottofondo si snoda un riff di sezioni di sax quasi vandergraffiane (o vander-graffianti) e una melodia di oboe (tutti strumenti fatti rigorosamente con la voce… la voce!). Un titolo come “Ritratto di stronzo allo specchio” è già di per sé programmatico: “Un vecchio che fotte, avrei potuto fare altro, ma fotto e fa bene uguale. Ho fottuto amori, persone, ideali passati”.

Una riflessione conclusiva: Gianni Jonathan Venturi è nato nel 1958, quindi ha passato da qualche anno il giro di boa dei 60. Eppure, ha ancora una voglia di ricercare, di sperimentare, di stupirsi lui per primo, ancor prima che di stupire, che dovrebbe scatenare curiosità, ammirazione e invidia in tanti autori di più giovane generazione.