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lunedì 20 maggio 2024

Joe Cocker: Antonio Cocco racconta un suo incontro

Nasceva il 20 maggio del 1944 a Sheffield (Inghilterra), Joe Cocker.


Per ricordarlo utilizzo un aneddoto vissuto in prima persona da Antonio Cocco, che nel 1972 era responsabile dell’etichetta Polydor, e in quel ruolo ebbe la possibilità di vivere un momento particolare che racconta così…

Ero a Londra e un venerdì tardo pomeriggio, per ricambiare la sua visita a Milano, andai nell’ufficio del direttore di una etichetta discografica che aveva come artista Joe Cocker. Parlavamo tranquillamente del più e del meno quando entrò senza preavviso proprio Joe.
Senza nemmeno salutare si rivolse al direttore e mostrando un assegno gli disse che aveva disperatamente bisogno di cambiarlo.
Il mio amico guardò l’assegno, lesse la cifra e lo guardò stupito.
Gli disse che non aveva quella somma in cassa e che bisognava rivolgersi alla banca, ma che essendo tardi, le banche erano chiuse al pubblico.

I desperately need this money now! So do all you can but I NEED IT!” (Ho disperatamente  bisogno di quel danaro fai tutto quello puoi ma ne ho bisogno!)
Il mio amico mi guardò e capii che doveva trattarsi di una soma non indifferente.
Provò a chiamare una banca, poi un'altra e un’altra ancora senza esito!
Allora chiamò dei suoi amici, ma niente. Ogni volta che chiudeva il telefono e diceva che non aveva risolto Joe ripeteva il mantra: “I NEED THIS MONEY!”.
Per farla breve, dopo innumerevoli tentavi e continue spiegazioni, gli disse che non poteva proprio far nulla!

Joe credo abbia “saraccato” nel suo dialetto e ripetuto che di quella somma aveva assoluto bisogno; alla fine si calmò e gli chiese: "… Insomma quanti soldi cash hai con te?”. Il mio amico gli spiegò che non portava mai troppi contanti perché usava carte di credito, ma Joe lo interruppe dicendo che non voleva sapere delle sue carte, ma quanto cash aveva!
Il mio amico aprì il portafogli e gli mostrò 10 sterline, lui le prese, ci salutò e siccome stavamo uscendo anche noi si unì! Poi ci salutò ancora e finalmente mi disse: “ Is there any chance to come over Italy?”.Ma certo”, gli dissi, e sarebbe stato per me un enorme piacere!
Un paio di anni dopo ci siamo rivisti proprio a Milano Hotel Principe e Savoia.
Press Conference.




Il ritratto di Ray Manzarek, di Gianni Sapia



Gianni Sapia ci aiuta a ricordare Ray Manzarek


Ray è morto, ormai da undici anni... lunga vita a Ray! I sudditi del rock hanno pianto la morte di un altro leggendario cavaliere. Ray Manzarek è andato ad incontrare Jim per la seconda volta, dopo quella a Venice Beach, dove tutto ebbe inizio. Raccontare quello che è stato Ray Manzarek, i Doors, raccontare gli incredibili avvenimenti di quegli anni è un po’ come giocare a nascondino con la retorica, da cui è difficile sfuggire. Devo essere più furbo, devo distrarla. Mi nasconderò dietro i miei ricordi, per gettarle fumo negli occhi. 

Il mio primo disco dei Doors è stato Absolutely Live. Li avevo scoperti grazie a un mio cugino più grande di me, che, in una cassetta mista, tra Deep Purle, Eagles e Black Sabbath, aveva messo anche i Doors. La canzone ovviamente era Light My Fire ed era già Manzarek-mania, prima ancora di Morrison-mania. Perché se Jim era il personaggio, la follia del genio, il poeta, Ray era il musicista. Le universali note dell’inizio di Light My Fire mi avevano catturato e dovevo saperne di più. All’epoca pensavo che solo ascoltando un gruppo dal vivo avrei capito se mi piacevano davvero o se era solo un’infatuazione del momento. Poi ho scoperto che non è proprio così, che un conto e vedere un concerto e un altro e ascoltarlo e che solo mettendo insieme le due cose puoi sentirlo. Ma allora vivevo di convinzioni adolescenziali, madri di inevitabili delusioni e comprai il disco dal vivo. Che non fu affatto una delusione. Ce l’ho ancora, bello, nelle sue tonalità di viola e d’azzurro. È un doppio, di quelli che si aprono in due. Fronte e retro di copertina sono un’immagine unica. Si vede Jim in primo piano con i suoi pantaloni di pelle, dietro di lui un’ombra, è Robby. In mezzo, di spalle, John, e defilato sulla sinistra l’architetto del suono dei Doors, come lui stesso amava definirsi, Ray Manzarek, naturalmente durante un’esibizione assolutamente dal vivo. La puntina del mio giradischi imparò a memoria la strada tra i solchi di quei due elleppì. Da Who Do You Love a Soul Kitchen, passando per Close To You, cantata da Ray, non passava giorno in casa mia in cui non si sentisse l’inconfondibile suono del Vox Continental di Manzarek. Già, perché prima di imparare a conoscere e quindi innamorarmi dell’encefalica sensualità di Jim Morrison, mi innamorai della musica di Ray. 

Per la prima volta di un gruppo non adoravo il cantante o il chitarrista solista, amavo il tastierista. Quando poi scoprii che le parti di basso le faceva lui con un Rhodes Piano Bass poggiato sul top piatto dell’organo, allora l’amore diventò devozione e Ray Manzarek fu asceso al cielo, nel mio personale Olimpo degli dei della musica. La melodica ossessione di quel suono colmava tutti i miei sensi. Come una benefica droga scorreva attraverso i canali sanguigni del mio corpo raggiungendo muscoli, reni, polmoni, stomaco, fegato, cervello, cuore, lasciandomi ubriaco di bellezza. Un po’ come la Scimmia di Finardi, “un onda dolce di calore, quasi come nell’amore”. Le emozioni si rincorrevano come libellule, che volano sul filo dell’acqua di un fiume e tutto sembrava potesse accadere in quei momenti, in cui l’eccitazione aveva la meglio sulla ragione, il trascendentale sul reale, in cui il mondo dell’esperienza cessava di esistere per dar spazio al mondo della mia fantasia, per farmi volare tra gli universi esistenziali della mia mente. E tutto questo grazie al sapiente scorrere delle dita delle mani sui tasti bianchi e neri del suo organo, di quel ragazzo biondo, dalle spesse basette e dai grossi occhiali, che sembrava un essere mitologico quando sedeva dietro il suo strumento, metà uomo e metà tastiera. 
Immagine di Glauco Cartocci, grazie a C.M.Schulz che sicuramente avrebbe approvato

Penso a Riders On The Storm, a When The Music’s Over, The Crystal Ship, a Take It As It Comes, Love Street, a Queen Of The Highway e quant’altre ancora e penso a quanto fosse sconfinato il talento musicale di quell’uomo. E quanto capace dovesse essere nell’individuare il talento negli altri. Fu lui quel giorno, sulla spiaggia californiana, a riconoscere le smisurate doti di Jim Morrison mentre canticchiava imbarazzato Moonlight Drive e subito dopo dichiarava di non saperne un accidente di musica. Fu lui che di James Douglas Morrison fece Jim Morrison. O per lo meno fu lui che lo regalò al mondo. Non reclamò mai un posto in primo piano nella band, benché gli competesse, ma lasciò che fosse Jim a prendersi la scena. Non per umiltà, ma per semplice onestà intellettuale. Suonare con Jim Morrison era un privilegio. Attento, la retorica è sempre lì, ti vede. Certo. 

Dopo Absolutely Live dovevo avere gli altri dischi. C’era solo un piccolo problema, non avevo una lira! Allora iniziai a risparmiare sulla miscela, sulla merenda a scuola, sul flipper, ma dovevo comprare gli altri dischi dei Doors, dovevo sentire ancora il calore di quell’organo scorrere dentro di me. Arrivai a pensare di vendere i miei Roy Rogers, ma non ce ne fu bisogno, perché quella santa donna di mia nonna, buonanima, ogni tanto mi elargiva un paio di biglietti da diecimila, che più di una volta finivo per spendere in musica e quella volta li spesi per The Doors. Sulla copertina dominava il viso dionisiaco di Morrison, mentre gli altri tre restavano in secondo piano, ma sul retro, metà della faccia di Ray era proprio in primo piano! Contento come sa essere contento un bambino, misi il disco sul piatto del giradischi e con cautela appoggiai la puntina su di esso. L’eccitante gracchiare dei primi solchi vuoti fu improvvisamente interrotto dal ritmo di John, seguito subito dall’organo di Ray, la chitarra di Robby e poi Jim: “You know the day destroys the nigt/Night divides the day/Tried to run/Tried to hide/Break on through to the other side/ Break on through to the other side/ Break on through to the other side, yeah”.

Queste sono state le mie prime percezioni dei Doors, forse il primo gruppo che ho amato tanto da comprarmi anche dei poster, che ovviamente sono ancora oggi appesi alle pareti di casa mia. Gruppo che amo perché prima il rock e il blues, poi il resto. Gruppo che amo perché Jim Morrison non puoi non amarlo. Gruppo che amo perché le canzoni le firmavano The Doors, non Morrison/Manzarek o Morrison/Krieger. Gruppo che amo perché si coprivano le spalle, come una famiglia. Gruppo che amo perché The End è un capolavoro! Gruppo che amo perché in una settimana hanno fatto il loro primo disco. Gruppo che amo perché dopo quarant’anni il suono dei Doors è ancora il suono dei Doors. Gruppo che amo perché John Densmore e Robby Krieger sono dei grandi musicisti. Perché Jim Morrison era un genio assoluto. Gruppo che amo perché Ray Manzarek era una brava persona. Ray non c'è più, lunga vita a Ray!




domenica 19 maggio 2024

Dire Straits: il 19 maggio 1978 veniva pubblicato "Sultans Of Swings"



Era il 19 maggio 1978 quando i Dire Straits pubblicarono il loro primo singolo con un grande etichetta: "Sultans Of Swings".

Il pezzo fu scritto da Mark Knopfler in un momento in cui le cose per la band  non giravano bene. L'ispirazione gli venne in un desolato pub, dove suonava una band davanti a pochissime persone, chiamata appunto "The Sultans of Swing".

Il singolo fu registrato con un budget di 120 sterline, ma il passaggio a tappeto a "Radio London" lo fece diventare in poco tempo uno dei singoli più venduti e loro "cavallo di battaglia" nel corso dei concerti.

Il "guitar George" citato nel brano è il chitarrista "George Borowski", amico di Mark Knopfler.

Di tutto un Pop…
Wazza


Mark Knopfler nel 1977 doveva ancora decidere definitivamente cosa avrebbe fatto da grande, in bilico com’era tra il lavoro di critico musicale e quello di chitarrista semi-professionista.
Per il gruppo che stava mettendo su scelse un nome esplicito, un nome che dava subito l’idea della disastrosa condizione delle loro finanze: Dire Straits, momenti difficili, tempi duri.

Una sera venne invitato da una band abbastanza mediocre a un loro concerto, affinché poi ne scrivesse una recensione. Lo spettacolo, entrando nel pub, fu desolante. L’audience era composta da 5-6 persone ormai ubriache e completamente incuranti della musica.
Il gruppo accorcia il repertorio, tanto di sguardi attenti e di orecchie tese non ve n’era traccia, il disinteresse era pressoché totale ma, alla fine, il cantante ha un colpo di genio.
In perfetto aplomb inglese saluta il pubblico con un serissimo: “Goodnight and thank you, we are the sultans of swing (Signori buonanotte e grazie, noi siamo i sultani dello swing)”.

In quel momento nella testa di Mark Knopfler nasce l’idea della canzone.
Nottetempo, tornato a casa, butta giù i primi accordi sulla chitarra acustica.

Pochi mesi dopo: “Sultans of swing” diventa uno dei brani più incisivi del decennio d’oro del rock.






sabato 18 maggio 2024

The Diogenes - Qui Pourrait Craindre Le Bien?-Commento di Luca Paoli

 


The Diogenes - Qui Pourrait Craindre Le Bien? (Luminol Records, 2024)

Di Luca Paoli


Mi succede, ultimamente, di ricevere richieste d’ascolto di dischi che non rientrano nel mio orticello confortante e, devo dire che, dopo aver vinto una certa pigrizia e dopo averlo “assorbiti” mi hanno colpito favorevolmente.

A volte basta poco… bisogna liberarsi da certi preconcetti e buttarsi nelle nuove (per me) avventure soniche.

Questo è successo con “Qui Pourrait Craindre Le Bien?”, album punk, grunge della band francese The Diogenes uscito da pochi giorni per la sempre attenta etichetta Luminol Records.

La rock band è formata da Mathieu Torres alle chitarre, alla voce ed autore dei testi, da Lionel Hazan al basso, Heiva Arnal alla batteria, Clément Chevalier alla chitarra, Stéphanie Artaud alla voce e alla direzione artistica ed infine citiamo anche Hugo Lemercier che si è occupato della registrazione, del mixing e del mastering.

Si può leggere dal comunicato stampa che non sono solo una rock band; nonostante gli abiti bianchi che evocano un'immagine di borghesia soddisfatta del proprio status, è un veicolo per l'attivismo anticapitalista. Il gruppo cerca spazi per esprimere una critica militante e diffondere un messaggio anticapitalista anche in contesti più convenzionali, talvolta 'hackando' grandi festival. Le tracce dell'album " Qui Pourrait Craindre Le Bien?  promuovono la decrescita, mettendo in evidenza alternative sociali e solidali, e cercano di irrompere in ambienti di ascolto solitamente conformi e 'sterilizzati' dagli standard industriali. Il loro approccio etico e rigoroso richiama alla mente quello del compianto Steve Albini. "Se sconvolgiamo troppo la borghesia, non capirà mai nulla", dichiarano i Diogenes, quindi giocano sull'umorismo e sulla derisione.

Dal punto di vista musicale la proposta vede non solo il rock muscolare ma anche momenti di indubbia raffinatezza musicale e stilista evidenziando il valore compositivo e strumentale dei Nostri.

Gli undici brani (scritti negli ultimi due decenni) che compongono la scaletta del disco sono, sì, un pugno nello stomaco, ma fanno riflettere l’ascoltatore e, come scritto sopra, sanno anche suonare raffinati.

Il punk storico che viene attraversato da umori grunge degli anni ‘90s e da una certa psichedelia è certo una proposta molto interessante, resa attuale dai suoni di oggi, anche per i palati più fini che magari, come me, non sono proprio dei cultori del genere.

Se devo scegliere dei brani dalla scaletta da proporvi partirei proprio dalla traccia iniziale, “The Pillow”, che evidenzia un gran lavoro di basso ed i grandi riff delle chitarre che portano il punk verso territori più rock nel senso classico del termine e che racconta dell’isolamento dell’ uomo e dei suoi disturbi mentali.

"Religion Cathodique" è un brano punk puro, eseguito con maestria tecnica, che esplora e critica il discorso prevalente veicolato dai mass media. Questi ultimi sono visti come artefici della propaganda e dei dogmi di pensiero delle nostre società moderne.

Poi non posso non citare “Pink Song”, brano dall’andamento più complesso per i suoi cambi di tempo ed umori ed ottimamente interpretata dalla voce di Mathieu Torres … anche in questo brano si può apprezzare l’ottimo lavoro della sezione ritmica e delle chitarre sempre protagoniste sia quando graffiano che quando accarezzano.

The Hole” è un altro grande brano che racconta dei veleni della quotidianità e che mostra anche il lato pop della band nonostante non rinuncia a mo0strare i muscoli quando serve.

Infine, vorrei citare “Beyond Myself”, brano dal ritmo contagioso che parla del dominio dei mass media e che, musicalmente, presenta un momento di pura raffinatezza con uno stupendo solo di chitarra.

Ho citato solo quei brani che più mi hanno colpito ma vi assicuro che tutto il lavoro è estremamente interessante ed ottimamente interpretato e presenta inserti strumentali di sicuro pregio.

I testi poi sono sarcastici, ironici e evidenziano e denunciano il periodo negativo che l’umanità sta vivendo e lo fanno con un sound si granito ma anche con un certo gusto raffinato che nel punk e nel grunge non spesso capita di ascoltare.


TRACK LIST

01- Pillow

02 - Gluttony

03 - Religion Cathodique

04 - Tiny Lighted Window

05 - The Lord

06 - Néo-libéralise moi

07 - The Hole

08 - Beyond myself

09 - Pink Song

10 - Touche ma bite

11 - Sacrifice à Dieu






Battiato prima del "Cinghiale Bianco"

Franco Battiato a Milano canta in osteria, primi anni Sessanta

Un ricordo del grande Franco Battiato relativo ai suoi inizi, quando spesso veniva contestato per la sua musica “d’avanguardia”.

RIP

Wazza




Bellissima foto datata 13 marzo 1974



Nel novembre del 1973 Franco Battiato intraprese un tour in Europa, esibendosi all'Olympia di Parigi, a Bordeaux, a Barcellona, a Madrid e a Bilbao.

L'anno successivo, dopo la pubblicazione il giorno venerdì 14 febbraio 1975 in tutta Europa dell'album Clic! dedicato a Karlheinz Stockhausen, edito dalla Island Records, Battiato doveva partire per una nuova mini tournèe europea insieme a Stomu Yamashta ed al gruppo francese Magma.

Fonti non accertate narrano che questo tour non fu mai effettuato (o venne fatto solo in una minima parte) a causa di un grave incidente stradale dove anche Battiato venne coinvolto: Franco Battiato ed i Magma suonarono realmente insieme dal 13 al 23 febbraio ma poi a causa di questo incidente non furono fatte altre date.

Questa fotografia scattata a Milano risale proprio a quel periodo e vede insieme Franco Battiato, Stomu Yamashta e l'ex discografico Luigi Mantovani.

Franco Battiato, Stomu Yamashta e l'ex discografico Luigi Mantovani



TELAIO MAGNETICO, magic trio 
(Lino Capra Vaccina, Juri Camisasca, Franco Battiato)






Compie gli anni Rick Wakeman


Compie gli anni oggi, 18 maggio, Rick Wakeman, tastierista, compositore, ma anche presentatore e autore di programmi radio televisivi.

Inizia con gli Strawbs, ma il successo personale arriva con gli Yes, attraverso una travagliata militanza, fatta di abbandoni e ritorni.

Molti i suoi album solisti, e tante le collaborazioni (David Bowie, Black Sabbath, Dave Cousins...).

Ha inciso un album con il percussionista cantante Mario Fasciano, dove erano presenti anche Francesco di Giacomo e Rodolfo Maltese.

Negli anni '70 la sua "rivalità" con Emerson era pari a quella tra Coppi e Bartali (naturalmente tutto creato ad arte da una certa stampa…).

Happy Birthday Mago Merlino!
Wazza



Yes "Going for the one " 1978








venerdì 17 maggio 2024

Il compleanno di Bill Bruford

Compie gli anni oggi, 17 maggio, Bill Bruford, batterista, colonna portante della scena progressive, amante del jazz.

Ha suonato praticamente con tutti, esempio e modello per generazioni di batteristi.

Da tempo ha deciso di ritirarsi dalla scena (mentre tanti mediocri ancora insistono!)

Happy Birthday William!

Wazza


The Bruford band in 1977. March 7 1979

King Crimson, 1981

Backstage at London's Royal Albert Hall for the last night of the London King Crimson shows with old friends: L-R Tony Levin, Jeremy Stacey, Bill, Pat Mastelotto

Genesis-1976





giovedì 16 maggio 2024

Il compleanno di Robert Fripp


Compie gli anni oggi, 16 maggio, Robert Fripp, l'uomo che ha "inventato" i King Crimson. Chitarrista, compositore, polistrumentista, produttore.

Il 16 maggio 1969 festeggiava il suo 23° compleanno suonando con i King Crimson, per la prima volta al Marquee di Londra. Ancora poco conosciuti, erano gli ultimi in ordine di importanza nel palinsesto della serata che comprendeva: Steppenwolf, Terry Reid, Hard Meat e King Crimson.

La formazione comprendeva: Robert Fripp (chitarra), Michael Giles (batteria), Greg Lake (basso e voce), Ian Mc Donald (fiati, effetti vari), Pete Sinfield (testi, e luci).
Voluti fortemente da John Gee, interessato a nuove forme di musica sperimentali, lasciarono tutto il pubblico a bocca aperta per il loro sound complesso e "schizofrenico".

Molta acqua è passata sotto i ponti da quel giorno, ma i King Crimson sono ancora "on the road", inseriti nell'olimpo del progressive mondiale.

Happy Birthady Robert!
Wazza



King Crimson at the Marquee-969

King Crimson

Greg Lake e Robert Fripp



L’ultima formazione



Le disavventure americane dei Pink Floyd a metà maggio del 1970

Pink Floyd were performing at The Warehouse in New Orleans, Louisiana 
on May 15, 1970

Brutta avventura per i Pink Floyd dopo le date del 15 e 16 maggio 1970, al Warehouse di New Orleans.

Fu rubato il camion con tutte le costose attrezzature, ma grazie ad una ragazza, figlia di un dipendente dell’FBI, in poco tempo il tutto fu recuperato e terminò lo sconforto per i quattro musicisti inglesi.

Di tutto un Pop!

Wazza

Maggio 1970: i Floyd stanno finendo il tour in Nord America, ma non avrebbero mai immaginato cosa sarebbe successo dopo le date del 15 e 16 maggio al “Warehouse” di New Orleans in Luisiana.

Dopo il concerto - in cui suonarono anche la Allman Brothers Band e i Country Funk -, mentre i Pink Floyd dormivano in albergo, dal loro camion furono rubate tutte le attrezzature per un totale di 40.000 dollari! 

Fu portato via tutto: 4 chitarre elettriche (compresa la Black Strat che David aveva comprato poche settimane prima), un organo, un impianto acustico da 4000w con dodici altoparlanti, 5 unità echo Binson, microfoni, 2 batterie e chilometri di cavi. Di conseguenza i restanti concerti del tour, a Huston e a Dallas, furono annullati.

In un’intervista rilasciata a “Melody Maker” Nick Mason disse: “Fu una catastrofe, ci ritrovammo seduti in hotel a pensare: -ecco, è tutto finito-. Raccontando i nostri guai a una ragazza che lavorava lì venimmo a sapere che suo padre lavorava per l’FBI. La polizia non ci aveva aiutati molto. L’FBI invece si mise ad indagare e quattro ore dopo ritrovò le nostre cose”.




mercoledì 15 maggio 2024

YES – THE CLASSIC TALES OF YES TOUR 2024 - PADOVA – GRAN TEATRO GEOX – 8 MAGGIO 2024-Il commento di Evandro Piantelli

 


YES – THE CLASSIC TALES OF YES TOUR 2024

PADOVA – GRAN TEATRO GEOX – 8 MAGGIO 2024

Di Evandro Piantelli

 

Dopo diversi rinvii dovuti alla pandemia e, sembra, ad altri problemi organizzativi, finalmente questo concerto, inizialmente previsto per il 2020, si è potuto tenere regolarmente. Ed io, per una serie di motivi che vi spiegherò più avanti, mi sono lasciato tentare ed ho preso il biglietto. Naturalmente vi racconterò nei dettagli quello che ho visto e ho sentito. Ma prima, bisogna fare un salto indietro nel tempo. Anzi, due.


NICE, Palais des expositions – 20.07.1984

Il mio primo concerto degli Yes ha coinciso col tour promozionale del disco “90125”, un lavoro rivoluzionario, che ha sorpreso i vecchi fan e ne ha regalati al gruppo molti nuovi. Nel corso della serata la band (Jon Anderson – voce, Trevor Rabin – chitarre, Tony Kaye – tastiere, Chris Squire – basso e Alan White - batteria) aveva eseguito quasi interamente il nuovo disco (con l’hit Owner of a lonely heart), oltre ad alcuni classici quali Yours is no disgrace, Long distance runaround, And you and I, I’ve seen all good people, Roundabout ed una versione “interstellare” di  Starship trooper, con le luci ed i laser che trasformavano il palco in una nave spaziale che decollava verso l’infinito (ed oltre). Un concerto indimenticabile, che per anni è stato il mio preferito fra le centinaia a cui ho assistito.

 

VADO LIGURE, Stadio Chittolina – 12.07.2003

Con mia grande sorpresa, in una calda serata di luglio di oltre 20 anni fa, gli Yes hanno tenuto un concerto allo stadio comunale di Vado Ligure che, per chi non lo conoscesse, è un piccolo comune vicino a Savona, a pochi chilometri da dove vivo. La band aveva da poco pubblicato “Magnification”, un disco di prog sinfonico, ma la cosa più interessante era che si presentava sul palco con una delle lineup più amate della sua lunga storia, cioè quella di “Tales from topographic oceans” e “Going for the one”, con Steve Hove – chitarre, Rick Wakeman – tastiere, Chris Squire – basso, Alan White – batteria e Jon Anderson alla (sempre splendida) voce. Concerto che ha visto la band proporre grandi classici quali, tra gli altri, South side of the sky, Wonderous stories e uno dei miei brani preferiti di sempre, Awaken, con un paio di pezzi tratti dal lavoro più recente, cioè Magnification e In the presence of. Inutile dire che, anche questo concerto, rimane tra quelli che ricordo con maggiore affetto.

E veniamo quindi al concerto di Padova ed ai motivi che mi hanno spinto ad andarci.

1.    La formazione. Dopo la scomparsa di Squire (2015) e di White (2022) gli Yes si presentano con una formazione che vede Steve Howe alle chitarre e voce, Geoff Downes alle tastiere (tornato negli Yes dopo averne fatto parte nel 1980 ai tempi di “Drama”), Billy Sherwood al basso (che collabora con la band da molti anni ed ha avuto il difficile compito di sostituire l’immenso Squire), Jon Davison alla voce e chitarra acustica e Jay Schellen alla batteria (che già da qualche anno affiancava ai tamburi Alan White). Vorrei far notare che nessuno degli attuali componenti della band era presente al concerto del 1984 ed il solo Howe era sul palco a Vado Ligure.

2.    Il nuovo disco. Nel 2023 gli Yes hanno pubblicato con l’attuale formazione “Mirror to the sky” un lavoro piacevole e onesto, che si ascolta volentieri e contiene al suo interno alcuni brani di ottima fattura, tra i quali Cut from the stars e All connected. Personalmente il disco mi è piaciuto e lo ritengo uno dei migliori pubblicati da un po’ di tempo a questa parte, almeno dai tempi di “Fly from here” (2011).

3.    La scaletta. Ero molto curioso di scoprire quali pezzi, nello sterminato repertorio della band, sarebbero stati proposti nel corso della serata. Pezzi solo classici o anche pezzi dal nuovo album? E tra i pezzi storici avremmo ascoltato i “soliti noti” oppure ci sarebbe stata qualche sorpresa? Lo scoprirete presto perché adesso (qualcuno dirà: “finalmente!”) inizia il vero racconto della serata. Mettetevi comodi, lo spettacolo va a cominciare.

Il Gran Teatro Geox di Padova ha tutte le caratteristiche che dovrebbe avere uno spazio per concerti: è facilmente raggiungibile, ha un ampio parcheggio, l’acustica è eccellente e le poltrone sono disposte in modo da assicurare un’ottima visibilità anche dalle file posteriori. All’ingresso del teatro ci accoglie una mostra/mercato di disegni numerati ed autografati da Roger Dean, lo straordinario artista che ha realizzato buona parte delle copertine degli Yes (e di molti altri gruppi storici del prog e non solo). Si tratta di lavori bellissimi ma, per il sottoscritto, un po’ cari, perché i prezzi vanno dai 125 euro per un set di quattro disegni poco più grandi di una cartolina ai 1.500 euro per i disegni delle copertine dei dischi più famosi. Comunque, un bel benvenuto per i tanti appassionati accorsi da tutta Italia e dall’estero.

Alle 21.15, puntualmente, si spengono le luci e sale sul palco la band accolta dagli applausi di tutti i presenti. L’inizio del concerto è a dir poco micidiale con una Machine messiah da brividi, dove la chitarra di Howe ed il basso di Sherwood dominano la scena con un botta e risposta che non lascia indifferenti. Segue It will be a good day (da “The ladder” del 1999), un bel pezzo che mette in evidenza le doti vocali di Davison, a cui seguono due super classici: Going for the one e I’ve seen all good people. La band è affiatata e anche Downes e l’ultimo arrivato Schellen paiono ben integrati nel combo. Il gruppo propone poi una versione esclusivamente strumentale di America, un pezzo di Paul Simon che il gruppo aveva pubblicato all’epoca solo in 45 giri. Personalmente la scelta di tagliare la parte cantata non mi ha entusiasmato, ma comunque il pezzo è bello. Seguono la dolce Time and a word e Don’t kill the whale un pezzo che, ricorda Steve Howe, già negli anni ’70 anticipava temi ambientalisti. La prima parte del concerto (a cui seguirà una pausa di una ventina di minuti) si chiude con il capolavoro Turn of the century, un lungo brano tratto da “Going for the one” che, secondo molti tra i presenti, da solo valeva il prezzo del biglietto. Dopo la pausa il concerto è ripreso con South side of the sky (tratto da “Fragile” del 1972), seguita da Cut from the stars, unico trai pezzi eseguiti proveniente da “Mirror to the sky”. Per concludere la seconda parte del concerto gli Yes hanno scelto di proporre un Medley dei quattro brani che compongono “Tales from topographic oceans” e cioè The revealing science of God/The remembering/The ancient/Ritual (nous sommes du soleil). Questa proposta, a mio avviso, ha rappresentato l’unico punto debole della serata, non tanto per l’esecuzione (sempre perfetta) quanto per il modo in cui i pezzi sono stati cuciti insieme, una specie di puzzle sonoro che mi ha lasciato un po’ perplesso. Dopo una breve uscita la band è tornata sul palco per gli immancabili encore, eseguendo una coinvolgente versione di Roundabout e salutando il pubblico con una sempre bellissima Starship trooper (questa volta senza astronave).

Cosa possiamo dire di questo concerto? Bella scelta di brani, esecuzione con pochissime sbavature, band affiatata, performance nel complesso godibile. Certo, qualcuno si chiederà se è giusto che si chiamino Yes o se non sarebbe più corretto The Steve Howe band. È difficile rispondere a questa domanda, ma se ci guardiamo intorno sono molte le band dove è rimasto solo uno dei componenti storici, ma che continuano a fare dischi e concerti con la denominazione originaria (tra quelli che ho visto mi vengono in mente PFM, Uriah Heep e Hawkwind, ma ce ne sono molti altri), per non parlare dei gruppi dove non c’è più nessuno dei membri storici. Ma qui ci sarebbe da aprire un capitolo che va oltre la recensione del concerto.