Gianni Venturi –
Socrate è morto (2021)
Di Alberto Sgarlato
Il volto di una riproduzione scultorea del
filosofo Socrate si trasforma in un ghigno mostruoso, deforme e scarabocchiato
utilizzato come sfondo per il desk di uno smartphone nella copertina di “Socrate è morto”, nuova opera di Gianni Venturi.
Siamo di fronte a un periodo particolarmente
fertile per il cantante e poeta nato sulle colline bolognesi. Era infatti il
2018 quando sul blog di MAT 2020 davamo spazio al suo progetto solista “Mantra
informatico”.
Nel frattempo, è tornato alla “casa madre” degli Altare Thotemico, con i quali ha dato alle stampe nel 2020 “Selfie ergo sum”: un prog-rock senza barocchismi leziosi ma, al contrario, teso e nervoso, a supporto di liriche che denunciano questa società sempre più votata a una iperconnessione e un’apparenza (anzi, ancora meglio: un’appariscenza) senza reali contenuti.
E alla fine del 2020 è uscito anche “Qohelet” (testo biblico noto come “L’Ecclesiaste”), album in duo nel quale Venturi ha trovato un suo perfetto contraltare in Alessandro Seravalle. Il chitarrista dell’Officina Fratelli Seravalle, infatti, ha tanti punti di contatto con il poeta bolognese, nella ricerca musicale sempre spinta all’estremo e nell’approccio filosofico/sociologico impietoso verso una società allo sbando.
Ed ecco che arriviamo a questo nuovo “Socrate
è morto”: Gianni Venturi è uno di quei personaggi che un tempo sarebbe
stato di moda definire “scomodo”; è pienamente compenetrato nel web e nei
social, di cui fa largo uso, ma non certo con l’approccio “modaiolo” e
commerciale di tanti giovani influencer. Al contrario, in modo spesso schietto,
esplicito, severo, stimola costantemente nel lettore la riflessione e la
“Consapevolezza” (parola cara agli Area, band che merita una menzione nel
novero dei suoi riferimenti stilistici).
In un percorso senza freni, senza schemi e
senza filtri, Venturi sul web parla liberamente della Sindrome di Asperger con
la quale convive da sempre, dei sacrifici fatti da una famiglia povera e
numerosa in un ambiente rurale, delle ansie e dello stress della sua attuale
vita di commerciante ambulante tra crisi economica, tasse e burocrazia. E non
ha paura di scatenare il dibattito politico, menando fendenti a tutte le
fazioni, dalla destra alla sinistra, ma mai in modo qualunquista e
superficiale, al contrario sempre arguto e pungente.
E sono questi gli ingredienti che ritroviamo
in “Socrate è morto”, nuova opera solista di Venturi. La struttura, sul
piano tecnico, è la stessa del precedente “Mantra informatico”, come
potenziale nuovo capitolo di una polilogia, ma il risultato è ben diverso
perché Venturi non è mai uguale a sé stesso, detesta annoiare e annoiarsi.
Per chi non se lo ricordasse, “Mantra
informatico” era stato realizzato filtrando la sola voce del cantante
attraverso ausili elettronici di vario tipo, fino a trasformarla,
destrutturarla, ricomporla, dandole una nuova identità di strumento. Solo qui e
là erano presenti un basso, un sax, una drum machine, a completare il tutto.
Stavolta niente strumenti aggiuntivi. La voce
di Gianni è protagonista assoluta e indiscussa. E l’intera opera suona ancora
più asciutta, più scarna, più cupa. Il giro di basso di “Buco nero”
sembra un didjeridoo; i pattern ritmici della title-track suonano come pezzi di
metallo sbattuti gli uni contro gli altri nella eco dei quali si percepiscono
urla da un oltretomba straziato; “Like” potrebbe essere generata con i
primi bass-synth in auge tra fine ‘70 e inizio ’80; “Ommaya” è un
emozionante canto proveniente dai confini del mondo, potrebbero essere sciamani
africani o monaci tibetani (in realtà il serbatoio di Ommaya è uno strumento
terapeutico che non verrà qui descritto nel dettaglio per non correre il
rischio di essere troppo “crudi”); “I am sorry i don’t speak english”
sembra quasi una beffarda parodia di certa italo-disco.
E su tutto questo lavoro (fatto con la voce,
ricordiamolo), svettano i testi. La “parola parlata”, in contrapposizione alla
voce come puro suono, qui è declamata, per non correre il rischio che il contenuto
si perda nei vezzi e nei lazzi di una melodia ma, al contrario, che arrivi ben
chiaro, scandito. Nelle liriche e nei titoli c’è ancora più rabbia rispetto
alle consuetudini dell’impietoso Venturi: “Esseri disumani razzolano tra
rifiuti come fossero oro”, canta l’autore in “Like”, “Polvere,
tutto sarà polvere, ingranaggi corrosi della macchina uomo” è la denuncia
in “Obsolescenza programmata”, brano sulla disumanizzazione, attacco
alla vigente economia mondiale per la quale tutto va estratto, prodotto,
lavorato, consumato e deve avere una data di scadenza, uomo compreso. “Il
gasolio era una foresta, il microchip era nella terra”, ci ricorda
l’autore, mentre in sottofondo si snoda un riff di sezioni di sax quasi
vandergraffiane (o vander-graffianti) e una melodia di oboe (tutti strumenti fatti
rigorosamente con la voce… la voce!). Un titolo come “Ritratto di stronzo
allo specchio” è già di per sé programmatico: “Un vecchio che fotte,
avrei potuto fare altro, ma fotto e fa bene uguale. Ho fottuto amori, persone,
ideali passati”.
Una riflessione conclusiva: Gianni Jonathan Venturi è nato nel 1958, quindi ha passato da qualche anno il giro di boa dei 60. Eppure, ha ancora una voglia di ricercare, di sperimentare, di stupirsi lui per primo, ancor prima che di stupire, che dovrebbe scatenare curiosità, ammirazione e invidia in tanti autori di più giovane generazione.
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