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martedì 31 gennaio 2023

Caravaggio – album omonimo, di Alberto Sgarlato

 


Caravaggio – album omonimo 

di Alberto Sgarlato

 

Colori, sì, caravaggeschi, con largo uso di toni di rosso e di marrone, ma con pennellate più larghe, rabbiose, confuse, tipicamente espressioniste; questi i parametri che ci accolgono nella copertina dell’album omonimo dei milanesi Caravaggio.

E alla fine questo stile “espressionista” è quello che ritroviamo nel sound del quartetto (quartetto per modo di dire, vista l’estrema vastità di collaboratori che hanno contribuito al risultato finale). Solo molto remotamente, nella potenza del cantato, nei riff chitarristici, nei tempi dispari, potremmo infatti ravvisare un’origine legata al progressive metal. Poi, proprio come nell’espressionismo, le sovrapposizioni di colore, l’ampiezza delle pennellate, la ricchezza delle sfumature, vanno a costruire un quadro d’insieme che subito potrà apparire confuso all’ascoltatore superficiale e distratto ma che invece dà vita a un disegno chiaro, originale ed emotivamente impattante.

Così come avviene nell’opener “Beforemy eyes”, dove le chitarre spagnoleggianti, gli accordi jazz, i momenti più rarefatti affidati alla fisarmonica e quelli più veloci dall’intenso tappeto percussivo, danno vita a un singolare etno-jazz-metal-prog.

Ancora più spiazzante la successiva “Not on me”, dove entra in scena anche l’elettronica, grazie a un sapiente uso centellinato di un vocoder dal gusto molto anni ‘80.

Joyful grave”, con il suo inizio delicato, ci riporta all’ondata prog italiana degli anni ‘90 (quella degli Arcansiel e dei Fancyfluid), ma anche in questo caso un largo dispiego di fisarmoniche, mandolini e strumenti ad arco e a corda fa oscillare il tutto verso coordinate più “world music”.

Guernica” è uno dei brani più rappresentativi del disco, sia per lunghezza (8 minuti), sia per il saliscendi emozionale affidato a complessi ricami di chitarre acustiche ed elettriche, basso fretless, rullanti militari, nacchere, sia per il titolo stesso, che ben descrive il “sound pittorico” della band (sembra un paradosso accostare queste due arti, vero?)

E in effetti il sound dei Caravaggio è così: ogni canzone è un quadro, fotografa un’immagine ben precisa che rimane impressa al nostro sguardo prima che al nostro udito, sembra di vederle. Ma ogni canzone, al tempo stesso, sarebbe una perfetta colonna sonora. Oppure è un film a sé stante, perché sono gli accordi e la complessità degli arrangiamenti a costruire le immagini.

Healing the leaders” è forse il brano più legato al progressive-metal, con riff di chitarra che fanno pensare ai Rush del periodo Counterparts, ma anche qui non mancano momenti più delicati, affidati a un cantato intimista, al basso fretless e ad armonizzazioni di gusto jazzistico; l’esplosione “corale” del ritornello è davvero “cantabile” e cattura l’ascoltatore. In “Unlike dolphins” gli effetti che filtrano la voce, il piano elettrico ovattato, gli arpeggi stoppati della chitarra, offrono veramente una sensazione di “immerso”, di “subacqueo” (e qui torniamo a quel concetto già espresso per il quale ogni loro canzone è un film).

Un film che negli anni ‘60 si sarebbe definito “peplum movie” è “Pompeii”, che in meno di due minuti e mezzo di musica a base di bouzouki, rullanti marziali e coro ci fa letteralmente sorvolare nei nostri sogni un anfiteatro.

L’andamento epico e solenne del tipico metal-prog moderno lo ritroviamo in “Comfortable”, brano che regala anche inaspettati momenti di recitato femminile in italiano (unica parentesi dedicata alla nostra lingua).

Se poi volete mescolare ancora gli ingredienti mettendoci qualcosa in più che non vi aspettate, arriva “Fix you”, cover di uno dei più celebri brani dei Coldplay. L’arrangiamento destrutturato, le languide chitarre slide, gli accenti spostati, ne farebbero ancora una volta una perfetta colonna sonora: ma in questo caso la colonna sonora di un film in cui la delicata malinconia della canzone originale cede il passo a una certa malsana inquietudine.

E si conclude con “Life watching”, brano ancora una volta accattivante nella sua riuscita melodica, riuscito connubio tra il prog degli anni ‘70 (grazie a un sapiente e centellinato uso del flauto), quello degli ‘80 (il basso in evidenza, le chitarre avvolgenti) e di oggi (quel tocco metal che spesso contraddistingue la band).

I Caravaggio sono: Alessio Del Ben (batteria), Fabio Troiani (chitarre), Vittorio Ballerio (voce) e Marco Melloni (basso). A loro si uniscono in qualità di ospiti: le cantanti Courtney Swain (dei Bent Knee, interessante progetto jazz-prog da Boston) e Simona Aileen, il cantante Guido Block (co-produttore, con Fabio, dell’album), i pianisti Antonio Zambrini (famoso jazzista, qui in veste di flautista) e Massimo Mescia, i fisarmonicisti Nadio Marenco, Mauro Poeda e Carmine Turilli (ben 3 strumentisti affidata alla fisarmonica, strumento effettivamente molto presente, quasi un “marchio di fabbrica” di questo album), il percussionista Alex La Bua, l’attrice Erika Carretta.

Non dimentichiamo Tracy Bell, inglese purosangue che ha revisionato la correttezza formale dei testi di Vittorio Ballerio e, infine, Gianfranco Ferlazzo, autore dello splendido quadro di copertina.

Per concludere, volendo proprio dare per forza delle etichette, i Caravaggio si riassumono come “progessive hard rock mediterraneo”. A noi personalmente piace di più descriverli come “EtnoRock pittorico espressionista”. Ma a che servono i nomi e i titoli? L’importante è ascoltarli! Lasciatevi rapire dal loro sound e precipiterete letteralmente in un film racchiuso dentro ogni traccia dell’album.






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