RocKalendario del
secolo scorso – Luglio
Di Riccardo Storti
1955 – Tutto in un giorno. Il 9 luglio per molti storici del rock è una data spartiacque. Il motivo è semplice: Rock Around The Clock di Bill Haley raggiunge il primo posto nella classifica Billboard Top 100.
Saranno in molti – tra critici e giornalisti musicali – a riconoscere questo evento come una linea di demarcazione, che separa il Rock and Roll da tutto ciò che lo ha preceduto. E sempre il 9 luglio a scalare le classifiche c’è una versione alternativa di Ain't It A Shame di Fats Domino, interpretata da Pat Boone; un altro segnale da parte di chi, fino a quel momento, aveva prediletto uno stile più accondiscendente verso chi si opponeva al R’n’R (ma anche Pat Boone, pur timidamente, si converte alla nuova moda).
1965 – 25 luglio, Festival Folk di Newport: va in
atto l’eresia. Come potrebbe reagire il pubblico di una simile kermesse alla
performance di un proprio beniamino che imbraccia una chitarra elettrica? E se
l’artista fosse addirittura Bob Dylan? Lo scandalo. Sale sul palco con una
Fender Stratocaster sunburst accompagnato da una band elettrica con alcuni
membri della Paul Butterfield Band più Al Kooper all’organo. D’altra parte la
svolta elettrica di Dylan – influenzato dalla British Invasion (ma i
condizionamenti furono reciproci) – era nell’aria. Tre canzoni (Maggie's Farm, Like a Rolling Stone e It
Takes a Lot to Laugh, It Takes a Train to Cry) e poi uno stop provvisorio,
per una reprise acustica (It's All Over Now, Baby Blue e Mr.
Tambourine Man).
Il pubblico fischiò? Sì, ma per diversi motivi: alcuni non avevano apprezzato la sfida di Dylan, altri protestavano perché il live era risultato troppo breve. Tante le leggende metropolitane che vennero a galla: Pete Seeger – autorità del folk americano –, deciso a staccare la corrente a Dylan, se non avesse smesso al più presto, si barricò nella propria automobile, tappandosi le orecchie; Alan Lomax – organizzatore e musicologo – urlava come un ossesso: “Questo non è folk!”
1975 – I Renaissance entrano in studio a maggio e a luglio sfornano una delle loro opere più ambiziose: Scheherazade and Other Stories. Precisiamo subito che Rimskij-Korsakov non c’entra niente e che il titolo dell’album fa riferimento all’ampia suite della seconda facciata, Song of Scheherazade (ma, come è ovvio, la fonte resta quella da Le mille e una notte resta).
A monte una produzione con i fiocchi, poiché per questo disco si è scomodato Dave Hitchcock (l’uomo che diresse capolavori come Foxtrot dei Genesis e In the Land of Grey and Pink dei Caravan), in più, a conferire un tocco classico, gli interventi orchestrali della London Symphony Orchestra diretta da Tony Cox. Al di là del pezzo forte incastonato nella Side B, colpiscono l’incipit pianistico concertistico dell’opener Trip of the Fair, la baldanza quasi melodrammatica di The Vultures Fly High e l’atmosfera onirica della prog ballad Ocean Gypsy.
1985 – 13 luglio, Live Aid. E qui potrei chiudere subito perché, da queste parti, c’è chi ne sa tanto e tanto ne ha scritto (rimando necessario al recente volume di Arcana LIVE AID. Il juke-box globale compie 40 anni di Angelo De Negri e Aldo Pedron). Mi lascio andare ad un ricordo breve e sintetico: ero a Priaruggia ed io e il mio amico Emiliano (entrambi, 17 e 15 anni, già musicofili incalliti), nonostante la comune passione per il mare, rinunciammo a scendere in spiaggia per assistere all’evento in TV.
Dopo un po’, dalla spiaggia, ci raggiunse un’altra amica, Simona, patita dei Duran Duran (non poteva perderseli). E polemiche perché il partito del rock dei due maschietti cercava di mettere in minoranza quello pop con varie critiche sull’operato on stage di Simon Le Bon e compagni. Un altro flash: il finale di Wimbledon, Paul McCartney che intona al piano Let It Be e alcune ombre sullo sfondo che avanzano. Per un po’ speri che ci siano anche Ringo e George. Non andò così, ma mi accontentai.
1995 – Il 25 luglio arriva in Italia il primo album dei The Presidents of United States of America; il loro esordio negli USA risale a marzo, ma qui da noi se ne sente parlare tra chi scandaglia abitualmente l’underground; d’altra parte questo trio nasce a Seattle però, nonostante l’ambiente (Nirvana, Pearl Jam e Soundgarden), i PUSA (questo l’acronimo) si differenziano da quei compagni di strada per un approccio diverso: brani brevi ed essenziali, testi ironici e performance demenziali.
Anche dal punto di vista strumentale risultano atipici, visto che il cantante Chris Ballew suona il bassitar (praticamente una chitarra le cui corde del Mi grave e del La sono di un basso) e Dave Dederer il guitabass (un basso con tre corde di chitarra). Il sound risulta vicino a quello del grunge, ma con legami ad altre esperienze coeve (penso ai Red Hot Chilli Peppers), se non addirittura del passato (certi riff e moduli compositivi ricordano il garage anni Sessanta e il punk fine anni Settanta); due esempi connessi a questa sensibilità eclettica possono essere scorti in Peaches e Lump. Ricordo che i PUSA nel 1998 fecero anche una cover assai originale dell’hit Video Killed the Radio Star.
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