Fotografia di Paolo Bretti
Racconta Claudio Milano: "Ho preso appunti per un intero anno, a definire gli ascolti a mio avviso più innovativi del 2018, tra centinaia di pubblicazioni ascoltate.
Ne è venuto fuori un articolo massivo, a fotografare all'incirca
50 brani/segnalazioni di live appartenenti ad ambiti assai distanti: classica
contemporanea, nuovo jazz e musiche afro-americane, folk, rock, elettronica,
musiche di confine tutte...”
2000
e 18 anni (e qualche migliaio prima) per dar suono a musiche, oggi chiamate
“nuove”.
Tim Hecker: “This Life” e “Kayed Out” (da Konoyo)
Tim Hecker è compositore nel senso
antico del termine. La sua musica in quanto a composizione però non apporta
nessuna particolare variante a quanto fatto in ambito classico tonale/minimale
ed elettronico. E' fatta di progressive stratificazioni non dissimili da
quelle di David Toop, estranee alla benché minima dissonanza e con intervalli
assai prossimi, da studente di Conservatorio che ha disimparato ogni tecnica
per ritornare alla pura percezione del suono originario, tranne che nel fare
uso di continui effetti di pitch, detune, autotune ad
indurre una sensazione di malessere in chi ascolta. Una cifra stilistica ad
ogni modo, che nella splendida scrittura di This Life e nei suoi suoni
inauditi, si fa davvero importante. Una composizione gestita con grande
senso della misura nei singoli interventi sonici, organizzati al pari di
un'estesa orchestra elettronica. La spazializzazione è fatta di micromovimenti,
senza eccessi stereofonici nell'organizzazione del panpot. Assai
bilanciato nell'organizzazione dello spettro sonico, il brano ha suoni medi stabili a cui fanno da contraltare
glissati-sirena di frequenze acute e gravi imponenti. Un monolite che
nell'ideazione si discosta dalle lentissime trame dei drones prodotti
negli ultimi anni da Rafael Anton Irisarri, Christian Fennesz, Ben Frost e
comprimari. Il senso di allarme che se ne coglie ha un violento impatto emotivo
che si fa via via insidioso nel finale. Sebbene il disco intero abbia senso di
essere valutato come fatto per rimanere tra i capisaldi del genere, Kayed
Out è composizione altrettanto essenziale. Permane un senso di profondo
spaesamento, trasmesso attraverso sonorità che sembrano provenire da metalli
sonori. L'equivalente di pietre sonore, qui diviene oggetto metallico fatto
risuonare nelle coscienze. L'organizzazione spaziale del suono è qui assai
mossa e il brano si presenta articolato in più sezioni, attraverso strutture
ritmiche (assai prossime a suoni di djembe)
e melodiche tonali che si susseguono con continui cambi di scena, fino a
reiterarsi con un'ostinato di simil-arpa, un po' stucchevole alla lunga. Una
nuova forma di musique concrete assai vicina ad un'impressionismo per
epoca digitale. Il finale torna anche qui a sfumare i contorni. Ad ogni modo e
con soluzioni “cantabili”, un senso di serenità emerge negli sviluppi di questa
traccia.
Lonnie Holley: “I Snack Off the Slave
Ship” e “I Woke Up in a Fucked-Up America” (da MITH)
Lontano da biografie alquanto
truculente che riguardano la vita di Lonnie Holley, ciò che mi interessa riportare è
il suo essere artista vero e d'ampio raggio. Di vite sfortunate ce ne sono
state milioni e poche di queste hanno prodotto bellezza, anzi, molto spesso
hanno contribuito ad alimentare gli orrori in cui erano vissute. Il cantore
americano è essenzialmente uno straordinario oratore in musica. Ad un
salmodiare che avvicina blues della prim'ora, gospel e rap,
è da ascrivere il suo canto devastato da abusi di ogni sorta. La densità del
racconto, accesa al limite della psicosi, non ha alcun cedimento, come in un
rituale catartico che conosce il solo sfinimento come battuta d'arresto. Ben
poco peso avrebbe (purtroppo) il suo racconto, drammaticamente “scompensato” e
pur artistico a prescindere, se non fosse accompagnato da una confezione sonica
di pura eccellenza, della quale il cantore non è minimamente responsabile.
Qualcuno ha ben capito che su di lui e la sua storia si poteva speculare e lo
ha fatto straordinariamente bene. Una band di jazzisti di prim'ordine e
della scena d'avanguardia newyorkese, intesse fraseggi ora cupi, ora cinici,
ora spietatamente diretti, talvolta “cosmici”, in un richiamo a Sun Ra, che qui
però trova tutt'altra materia di partenza. Due episodi del disco sono
impressionanti per la saturazione emotiva che il canto e quanto tessuto
appresso ad esso, riesce a rendere.
I Snack Off the Slave Ship,
è una lunghissima declamazione ad opera di corde vocali devastate ma evocative
all'inverosimile e capaci tanto in un roco da ex baritono leggero,
prossimo al suono di una tromba, quanto in una purezza di emissione elegante e
ricca di armoniche gospel/soul. Il pianoforte appena scordato,
affronta fraseggi ora melodici, ora cupissimi. Le percussioni afro sono
da preludio all'intervento ben più evocativo di una batteria a creare spirali
nella percussione dei piatti. L'elettronica è sempre presente diretta quanto
atmosferica. Un fischiettare contribuisce a rendere il tratto pollockiano
materia sonica densa, organica e pulsante. Dilaniante come poche cose io
abbia mai ascoltato.
I Woke Up in a Fucked-Up America,
fa uso di pulsazioni elettroniche roboanti, marziali, applicate anche alla
batteria. Il pianoforte conserva il suo tratto romantico-decadente, i fiati
sono trattati al pari della batteria a creare una sorta di urlo “post tutto”,
destrutturato quanto agguerrito e diretto. Un'invettiva nettamente più incisiva
di qualsiasi produzione rap o hip hop che sia. Holley e sodali
brevettano con questo disco una formula di soundpainting armato e
psicotico, da “azione sonora” non dissimile da rito sciamanico o reading
primordiale. Suoni e versi lucidamente anarchici a dichiarare attraverso rughe
dell'anima, quanto una dittatura culturale (non solo in America) sia da sempre
presente, accettata passivamente e inammissibile in un'epoca storica in cui
torna ad essere apertamente dichiarata.
Julia Holter: Everyday Is an Emergency (da
Aviary)
Julia Holter torna con album da ascrivere
appieno alla sempre più esigua nicchia dell' “art rock” tout court. Un
disco estremamente vario nelle atmosfere e nella gestione della materia sonica,
dove arrangiamenti e linee vocali si muovono in direzioni non sempre
unilaterali, ma tali da manifestare una sorta di identità autonoma che va a
definire un quadro complessivo a priori. E' questo uno dei pochissimi dischi
degli ultimi anni a non disdegnare uno studio dell'armonia tale da accogliere
sistema tonale come atonale, in florilegi di dissonanze organizzate attraverso
scrittura digitale e dunque pari a ceselli di un mosaico perfettamente a fuoco,
pur in visioni non di rado distoniche. Non solo, laddove l'interesse per
l'indagine sull'emissione vocale sembra completamente tramontato, la Holter
sciorina iperacuti “di flauto”, derivati da uno studio sull'emissione ragguardevole
e degno di plauso. Se si esclude la prima traccia che chiaramente fa il verso a
Björk, sempre più modello per decine di voci dell'underground mondiale,
il resto accoglie Nico della sacra trilogia “The Marble Index”, “Desertshore”,
“The End”, quanto Lana Del Rey e Kate Bush. Di disco pop si tratta in
larga parte, seppur arrangiato in maniera eccezionalmente arty, tale da
tener conto delle più recenti evoluzioni soniche e di dire la propria in
materia. Sono gli episodi più estremi a risultare i più riusciti, perché in
grado di spostare l'angolo di visione della scrittura contemporanea avanti e
con convinzione. Everyday Is an
Emergency è in questa direzione composizione di grandissimo interesse.
Parlo di composizione perché sarebbe inadeguato far ricorso al termine
“canzone”. Suoni vocali e orchestrali iperacuti, sono gestiti con attacchi
sfalsati di pochi intervalli di secondo a generare un movimento armonico
prorompente all'attacco e poi sempre più circolare nell'allungamento dei tempi
di esecuzione e nel discendere progressivamente su registri medi e poi gravi.
Grande l'impiego di “melodine” (evoluzione del ben noto plug in di
“accordatura” autotune) nel trattamento di voci e suoni strumentali,
anche perché le dissonanze, tra semitoni e microtoni necessitano di accordatura
al limite, cosa laddove non concessa a Ligeti, è oggi possibile grazie a mezzi
tecnici sin troppo generosi. Intorno al quarto minuto, la progressione
discendente si arresta. Segue un pianoforte elettrico ulteriormente liquefatto
da effetti elettronici assortiti, su cui la voce disegna una melodia pari a
filastrocca. L'elettronica ricama trame atonali appresso al tutto e le
dissonanze si fanno non solo mistero ma volutamente “sgraziate” pur nella
perfezione dell'ordito sonico. I controcanti raggiungono vette pari a squittii
e sono sostenuti all'unisono dai suoni orchestrali. Una brevissima sospensione
chiude ciò che è da annoverare tra le migliori ideazioni di scrittura avant degli
ultimi anni. Una scrittura “colta” (in epoca in cui questo aggettivo è visto
dai musicisti in primis come spauracchio), altamente sensibile,
emozionale quanto creativa ad ampio raggio nell'esplorare tutte le componenti
del fare musica: suono; ideazione; impianto armonico, melodico e ritmico;
ricerca timbrica ad ampio raggio; volumetria plastica. Tutto questo in una
carrellata, la mia e pur ampiamente selezionata tra migliaia di ascolti, che di
lavorare in modo autonomo e non “romantico” appresso ad armonia, intervalli di
suono (in breve, la distanza tra le note), ricerca timbrica e spazializzazione
sonica, proprio non vuole saperne e anzi, addita con scherno e disprezzo chi
questi ambiti indaga, controcorrente.
Kip Harnahan: Our Reflection in the Turbulent Heat
(It's really you...) da Crescent Moon Waning
Kerouac asseriva che negli anni
'60 il jazz era morto e per ogni morte il genere ha avuto, una, dieci,
cento resurrezioni. In ultimo istanza, dopo l'exploit della scena
nord-europea del decennio che sta per chiudersi, gli Stati Uniti sembrano
pronti a raccoglierne il testimone. Kip Harnahan
percussionista e compositore, nonché figlio del linguaggio afro-americano più
volte rinnegato e riabilitato non certo in ultima istanza, si presenta con un
disco assai affascinante, ricco di melodie sensuali e ritmiche che spesso si
muovono in misura autonoma rispetto al canto. Non è soluzione nuovissima, ma
qui condotta ai termini estremi. Our
Reflection in the Turbulent Heat ne è esempio mirabile e sintetico. Il
canto jazz-soul porta alla mente Daryl Hall, il basso elettrico disegna
una reiterata linea melodica che sembra evocare i temi più ariosi di certo
Michael Jackson e fa testo a sé. Allo stesso modo le percussioni si muovono
come un treno lanciato in una corsa sfrenata e carica di suggestioni
caraibiche. La fusione che ne nasce non può che essere originale, è portatrice
di una cifra personalissima, completamente a fuoco e godibilissima. La lista
dei musicisti coinvolti è talmente lunga e degna di nota da raccogliere
l'intera storia di un linguaggio e annovera tra le sue fila gente come Fernando
Saunders e Jack Bruce.
John Homes: Whose Hat Is This? (da Everything's
Okay – feat. Kokayi)
A monte di ogni parodia che possa
far capo a nome della band e titoli assortiti, Tim Lefebvre, bassista
nell'ultimo atto della discografia di David Bowie, è riuscito ad ottenere un
meritato e unanime riconoscimento grazie a più progetti. Uno di questi, John Homes,
non è ancora approdato in Italia ma negli USA inizia già a far culto. Il combo
muove i suoi passi a partire dall'esperienza di Sun Ra (il cui nome è già
apparso in questa lista) e della Bonzo Dog Band, andando a rimodellarle sulla
base del linguaggio hip hop e dell'elettronica contemporanei. Il tutto,
registrato dal vivo in un lungo album. Per quanto analogie possano
essere rinvenute pure con Rig Rip & Panic e Pop Group, l'esito è da
annoverarsi come portatore di identità autonoma e strettamente contemporanea.
Una miscela esplosiva che in Whose
Hat Is This? richiama anche alla mente i primissimi Prodigy. Un jazz
funky hop violentissimo e diretto, sostenuto dal basso solidissimo dello
stesso Lefebvre (in un fantastico solo atonale a conclusione del pezzo),
da una batteria capace di scansioni ritmiche irregolari quanto cronometriche,
un sassofono free jazz pronto a deragliare come un vulcano ad esplodere
lapilli. La voce di Kokayi è un razzo, sputa parole con una velocità
impressionante, tale da scaldare il sangue e mandare in fibrillazione neuroni.
L'elettronica funge da collante dall'inizio alla fine e lungo l'album
crea autentici scenari cosmici. Per chi è ancora convinto che il punk
sia l'espressione sonica iconoclasta per eccellenza, questo è acqua santa ben
gradita.
Gianni Lenoci/Earle Brown: October 1952 (da
Selected Work for Piano And/Or Sound-Producing
Media)
Gianni Lenoci è pianista e compositore
eurocolto in quanto conoscitore del linguaggio afroamericano in tutte le sue
declinazioni. Da più di due decenni offre una personalissima visione delle
possibilità tecniche ed espressive che il pianoforte può offrire. Dopo due
capitoli incisi per la nobile Amirani Records di Gianni Mimmo, dedicati
rispettivamente a Cage e Morton Feldman, questa volta la scelta di
interpretazione e rilettura ricade su uno dei tanti geni del '900 a cui ben
pochi allori sono stati dedicati e la cui memoria è riservata a culto di
nicchie: Earle Brown.
L'importanza della gestualità per
il compositore statunitense, è vissuta dal pianista di Monopoli con fare
rispettoso quanto profondamente personale. La componente di alea
presente nella notazione browniana, ben si presta alla ricerca di Lenoci sui
suoni generati dalla meccanica tutta del pianoforte. Al tempo stesso è
rispettata la sacralità con cui il gesto pianistico è mosso con fare
meditabondo, nell'elargire semi di creazione pura. In October 1952, emerge una spiritualità assai generosa dove
ogni singoli note, accordi e pause, hanno un peso immensamente diverso e assai
misurato, come a pesare il valore delle particelle di pulviscolo nell'aria, o
quello del cuore e di una piuma. Un'esperienza sensoriale che altera la percezione
del tempo in un brano di appena un minuto. Vale un salto nel vuoto.
Annie
Barbazza e Max Repetti: C'est la Vie (da Moonchild)
Annie Barbazza è interprete al mondo di giovane
età con il maggior numero di collaborazioni eccellenti neanche immaginabile per
chi non è a conoscenza del suo percorso e questo è il disco che ne sancisce
l'indiscutibile caratura. Nel suo timbro da contralto ricco di armonici e
sfumature, nei suoi appoggi dentro e fuori il ritmo a trovare la giusta
dimensione dell'anima, è l'eco delle più grandi voci femminili del folk
di sempre, da Laura Nyro a Joni Mitchell, passando per Sinead O'Connor.
L'esperienza umana ancor prima che artistica, maturata al fianco di Greg Lake,
l'ha portata a scegliere una selezione dal nobile repertorio del compianto songwriter
e bassista inglese. L'intera operazione è riuscita alla perfezione, complice il
misuratissimo apporto al pianoforte di Max Repetti, capace di fraseggi costantemente al
limite tra classica e jazz, mai invadenti e quasi mai ad avvicinare il
parallelo con Keith Emerson. Laddove questo accade, Karn Evil 9, si ha
l'unico episodio debole del lotto. Per il resto la resa è immacolata, anche
negli ambiziosi Medley che richiedono cambi di registro emotivo pari a
improvvise dissolvenze incrociate cinematografiche. C'è qualcosa però che rende
questo disco speciale, è che a mio avviso e per quanto eretica possa sembrare
la cosa, alcune interpretazioni sono superiori alle originali, in quanto a resa
emotiva e tecnica di una voce che ormai si attesta tra i timbri più importanti
ascoltati negli ultimi anni. Agendo per riduzione della materia sonica e
focalizzando l'attenzione sulla magnificenza delle melodie, rese con una
moltitudine di sfumature timbriche, da sussurrati spenti ad accensioni cariche
di pathos e comunque mai sopra le righe, Annie traduce in florilegi
emotivi l'immortalità dei temi di In the Wake of Poseidon (dove più
volte balza alla mente l'eleganza di Barbra Streisand), Memories of an
Officier and a Gentlemen, The Sage/The Great Gates of Kiev (e qui il
finale “There's no end to my life, no beginning to my death: death is life”
mi ha strappato più di una lacrima). C'est
la Vie, su tutte, per la contrita leggerezza vocale con cui la Barbazza
accompagna il tema, prima di un crescendo di potenza e armonici e per il
lirismo pianistico che il tutto segue senza voler disturbare l'emozione che
emerge passo dopo passo, è gioiello inestimabile.
Anna von Hausswolff: Ugly and Vengeful (da Dead
Magic)
Certi dischi hanno consapevolezza
di poter osare, già a partire dalla durata delle tracce che presentano. Un drone
di organo trattato elettronicamente si muove assieme a una nota di voce pari a
canto di sirena e tenuta in lontananza alla maniera di un loop. Suoni
acustici elettrificati sottolineano un incidere marziale. L'arrivo del canto a
declamare il testo, è pari alla rivelazione di un oracolo e sembra provenire da
un altro mondo. La naturale evoluzione dei percorsi di Dead Can Dance, This
Mortal Coil e Carla Bozulich. Il concetto di suono puro sembra essere
completamente assente, tutto è filtrato prima che le bacchette di una batteria
a percuotere i piatti e una voce violentemente sospesa tra risonanze strozzate
in pianto tra gola e naso (tutt'altra grazia hanno i controcanti) prendano la
scena. Imponente un organo a canne segue all'unisono con chitarre elettriche e
percussioni marziali in una visione wagneriana del far musica. Il canto di Anna von Hausswolff,
evocativo a richiamare misteri est europei e mediorientali emerge ancora prima
dell'inizio di un'oscura cavalcata cosmica a suon di registri organistici
sempre più arditi, cosmici, in fraseggi di puro delirio atonale prossimo alla
dodecafonia. Torna la voce di Anna e poi ancora il misterico fraseggio, in
un'alternanza scenica che sembra avvenire in tempo reale al pari del più
truculento dei riti pagani. E' un susseguirsi di armonizzazioni vocali, suoni
siderali, modulazioni armoniche imponenti ma non stucchevoli, capaci di
risucchiare in autentici vortici. E' questa la sola Ugly and Vengeful con i suoi quasi 17 minuti, che da soli
valgono un disco intero e che si attestano tra le più grandi intuizioni avant
rock odierne, tra estetica drone, kosmische musik, gothic
e azione sonica. Già un classico del rock tale da poter essere amato da
chi giovane è e chi è lo rimasto nello spirito, non per chi ha fatto finta di
esserlo, o non lo è mai stato.
Gianni
Maroccolo: Cuspide (da Alone)
L'irruente ingresso sonico del
brano, ottenuto con distorsioni a carico di synth, chitarra elettrica e
spettrali echi vocali, si stempera in un'apertura per chitarra ritmica,
campionamento da organo elettrico MIDI, elettrica ancora satura e percussioni
da campionamenti. Segue un'evoluzione ritmica più solida che si muove marziale
ma tale da lasciare spazio ad evocatività. Quarto quadro a carico delle
chitarre lasciate sole, quinto con arpeggiatori di synth e campionamenti
di vento a rimaner soli in coda assieme a rantoli vocali. Soundtrack per
mente lasciata libera di scorrere per lidi liberi, ma anche assai a fuoco. Pur
con qualche roboante eccesso, un disco affascinante tutto. Costante della
Contempo Records, ferma nella salvaguardia di estetiche anni '80, il brano
segnalato è dipinto glaciale, che di decenni addietro però non ha il suono,
solo il gelo di storie già vissute che tornano agli occhi in lacrime e rabbia,
maturate al freddo di nude anima e ossa.
Father Murphy: Agnus Dei (da RISING. A Requiem
for Father Murphy)
Un disco (incondizionato l'amore
che Michael Gira degli Swans nutre per il progetto) che mette in luce un'America
di predicatori da sempre viva e vitale, ma che raramente giunge ad esiti sonici
capaci di rappresentare una contemporaneità autentica. Abbiamo goduto per anni
del canto di David Eugene Edwards (16 Horsepowers/Woven Hand) e certamente lo
abbiamo accolto proprio perché non abbiamo dato retta ai contenuti delle sue
liriche, che fossero scritte da un italiano, pur nella loro sincera e profonda
enfasi spirituale, sarebbero oggetto di sola derisione.
Eppure i due cantori a dar voce a
questo dischetto di risonanza mondiale, sono veneti e la registrazione del
lavoro è avvenuta negli studi torinesi dei leggendari Larsen, ovvero Fabrizio
Modonese Palumbo e Paul Beauchamp.
E' disco che sinceramente non
valuto neanche nel complesso, perché davvero povero in slanci compositivi e
ancor meno interessante nell'uso di voci costantemente al di sotto di un limite
decente di intonazione.
Due brani però sono davvero
eccellenti: Agnus Dei e la
seguente Communion.
La prima merita davvero di essere
inserita tra i migliori ascolti dell'anno trascorso.
Un drone oscuro,
autenticamente apocalittico, caldo quanto saturo di distorsioni emerge
lentamente e con dovizia di oscillazioni di intonazione mentre su di esso si
innesta florido un canto femminile cristallino. Una meraviglia asciutta,
diretta e auto-rappresentativa al punto da mettere da parte il resto e
ritagliarsi un posto nell'anima.
Dalila Kayros: Hanged (da Transmutations – I –
)
Nuhk di
Dalila Kayros
è stato uno degli album più importanti dell'underground mondiale
di questo decennio e il fatto che in pochi l'abbiano incontrato non esclude che
ciò possa accadere e presto. Cinque anni sono passati nel frattempo, la
ricercatrice vocale sarda è stata (ed è tuttora) voce degli eccezionali SYK, in
due dischi che hanno catturato l'attenzione dell'avant metal mondiale e
ha realizzato un disco in duo con Luca Pissavini. La grande esperienza maturata
l'ha portata a realizzare un lavoro completamente differente da quello
d'esordio. Abbandonata la lingua sarda a favore dell'inglese, conclusa
l'esperienza con Antonio Zitarelli in qualità di co-arrangiatore, esteso il
campo emotivo dall'unilaterale livore di prima istanza ad uno spettro ben più
ampio, integrata la ricerca timbrica in un canto di “registro” e non più di
“voce estesa”. Ogni singolo brano del disco presente manifesta un'elettronica
non più affine al campo neo-industrial ma “art pop”, tale da
integrare ritmiche trip pop, hip pop, o semplicemente funzionali
alla solida ricerca armonica. Questa è tale da annullare steccati della forma
canzone, generando romanze elettroniche fortemente legate al legame tra ritmo
ed espressionismo vocale sciamanico ma ora capace anche di forti slanci lirici.
Tutto è strettamente contemporaneo anche nell'essere “in” nel recupero di certe
atmosfere e modalità care agli anni '90 più floridi. Hanged (come Mothland) è episodio eccezionale. Il
canto si muove serpentineo tra singulti elettronici altamente sincopati,
destrutturati. La voce raggiunge vette da soprano pop che nel timbro non
ha possibili termini di paragone ma un'unicità che di lei fanno un'autentica
divinità contemporanea. I controcanti seguono il canto rendendo la dimensione
del suono ampiamente circolare. Tutto è perfetto, godibile, misterico,
drammatico senza generare alcun senso di disagio in chi ascolta, eppure
profondamente “altro”. Dalila ha trovato la chiave per raggiungere e con il
solo supporto di un'elettronica gestita autonomamente, un pubblico ampio e
cosmopolita. A lei l'augurio di far breccia in quanti più cuori possibili,
capaci di accogliere cotanta potenza comunicativa.
Low: Dancing and Blood (da Double Negative)
La parabola della band
americana di Mimi Parker e Alan Sparhawk, sta assumendo sempre più le parvenze
di miracolo. Dalle origini avant folk, alle evoluzioni arty che che
lo sorso anno l'aveva vista ribattezzarsi come Organ Reframed, a
intessere litanie di cristallina purezza su lunghi pedali tenuti di organi
chiesastici, l'elettronica di Double Negative sembrava quasi attesa.
Il disco è stato ampiamente lodato
dalla critica mondiale e italiana in primis, ma a ben vederle le canzoni
del lotto, ascoltate nel tour in corso sono proprio canzoncine, che solo
nell'impressionante lavoro in studio d'incisione trovano un abito che da solo
sa essere contenuto.
Dancing and Blood rimarrà uno dei classici rock
di fine decennio.
Un ribattuto imponente ad aprire,
sorta di rumore ecografico o di risonanza magnetica riportato in musica, a cui
si sommano suoni più insidiosi in progressiva stratificazione (meccanismo
vecchio da far paura) e il canto che appare pesantemente soggetto a effetti di
ogni sorta, qui piacevole, sul resto del disco spesso noioso. Le chitarre sono
la cosa migliore con effetti di detune applicati e altri a creare una
sorta di disfacimento della materia sonica. Il meglio avviene nella sospensione
centrale, quando un suono pari a quello del segnale di partenza di una nave,
sommato a una voce con un andirivieni di pitch genera un progressivo
crescendo che filmicamente rende una sorta di arrivo di uno sciame di insetti.
La miscela genera qualcosa di semplicissimo ed elaborato al contempo, non certo
da dancefloor, ma appannaggio di chiunque cavalchi tutt'ora l'aggettivo
“minimale” affiancato a “pop”.
Sigh: Heresy II: Aconism (da Heir to Despair)
A monte del blasonato “ritorno
agli anni '90”, ciò che mi è sembrato più evidente in questo scorcio di fine
decennio, è stato un ritorno al suono violento: punk (quello meno
pettinato), heavy metal e poi tutti i fenomeni legati alla musica black
non necessariamente da Grammy Awards (rap, hip hop, trap,
soul, funky, gospel, disco music). Il tutto a
ricordare più la fine degli anni '70 in risposta minacciosa all'incedere delle
destre mondiali, o semplicemente a segnalare un disagio che spara a destra e a
manca senza visualizzare responsabili.
I Sigh sono definiti band avant
metal. In realtà di avant hanno ben poco se non il ricorso a ormai
istituzionalizzate forme progressive e un canto affascinante. Mirai
Kawashima ha un timbro davvero stregonesco. Soltanto a sentirlo vien male alle
corde vocali, nel pensare la compressione che su quelle esercita per far
fuoriuscire un solo rantolo adenoidale e strozzato. Ovviamente i temi vertono
su argomenti occultisti, cosa che fa fumetto più che altro. Il secondo episodio
della suite del disco, utilizza formule sinfonico romantiche al
ralenti (chi ricorda i Devil Doll?) e assai ben orchestrate, puntando su
tutto sulla voce, di suo già ipercompressa sulle corde vocali false e poi
abbondantemente trattata con elettronica a rendere ulteriore spaesamento. Un break
finale comporta l'uso di estremi “suoni di fischio” (frequenze vocali iperacute
ottenute comprimendo le corde vere e lasciando un solo piccolo foro a vibrare
nella sezione più alta. L'aria viene immessa con respirazione inversa, portando
l'addome dentro). Non solo, in questa sezione viene adoperata elettronica glitch
a devastare l'ordito sonico, fatto anche da fiati free jazz, noises
assortiti, musica concreta. Splendido, potrebbe essere la naturale
evoluzione del percorso dei Naked City, se John Zorn avesse ancora voglia di
mettersi in discussione.
Maisie:
Ruderi e Macerie #3 (da Maledette Rockstar)
Quanto i Maisie abbiano dato con la loro
ultima pubblicazione è ciò che giustamente gli è stato attribuito da critica e
pubblico. Un lavoro colossale di grande valenza socio-politica e pur estraneo a
noia, perché dichiaratamente esilarante e più che cinico “clinico” nello
sguardo al reale.
A sinistra, certo e chiedetevi
perché ad esporsi a destra cantando “brutto negro di merdaaaaaaaa, brutto frocio
di merdaaaaaaaa, terroneeeeeeee, rabbino maledettoooooo, musulmano
inferioreeeeeeeee, Dio ti voglio bene ma ammazzali tutti tranne meeeeeeeeee ecc
ecc ecc” il suono è proprio ridicolo. Ci sarà pure un motivo no?
Complice anche un mio intervento
non proprio parco nella stesura di testo, ideazione e performance delle
sezioni vocali, gestione della trama sonica dalla seconda sezione in poi, Ruderi e Macerie #3, a distanza
di più di un anno dall'uscita del disco, è brano che sento assai vicino.
Non solo, vi sono coinvolti
Francesco Chiapperini, collaboratore alla quasi totalità dei miei progetti e
Vito Emanuele Galante, del RADIATA 5tet, di cui pure ho fatto parte.
Decostruzione e imponente zeuhl
nel primo movimento, che prevede una marcata teatralità nell'esasperazione
dell'indagine di emissione della voce; jazz-folk assai drammatico nel
canto partigiano del secondo; lo stemperamento del fare marziale, da inno, del
tema vocale originario nel terzo, che diviene spirituale fino alla rarefazione
elettronica degli interventi di Luigi Porto sul Kyrie. Il disco di suo è
composto di tanti racconti, che spesso fanno del dialogo teatrale componente
cinematografica (la splendida Wilma e il Diavolo, Folkpolitik),
ma capaci anche di sintesi al fulmicotone in Un Programma Politico
Sintetico, Inefficace ma Divertente. S'è detto di tutto sul disco e
giustamente. Del fatto che in mezzo c'è l'intero underground italico a
coprire generi e sottogeneri diametralmente opposti, che chi della musica non
sopporta l'elemento teatralizzato l'odierà a morte, che chi della musica vive
l'ideale romantico della stessa, lo guarderà in cagnesco. Piace o non piace, di
certo è uno di quei parti nati per restare e questo è il destino che gli
spetta, indipendentemente da opinioni e gusti personali.
I Hate My Village: Aquaragia (da I Hate My
Village)
Un disco godibilissimo con dei
momenti davvero superlativi per sbrigliatezza delle sezioni strumentali e
leggerezza mai banale delle linee vocali. Il singolo Aquaragia, è un vero e proprio manifesto programmatico. La
sezione strumentale si fa tutta pulsazione afro, non solo basso e
percussioni, elaboratissime nella multi-stratificazione delle poliritmie da
cardiopalmo, ma anche le chitarre seppur mai impiegate con accordi, come nella
tradizione dell'elettrica non solista. Un vortice che avvicina il surf e
che supera di slancio le intuizioni manifestamente tecniche dei King Crimson di
“Discipline” e le reiterazioni dei Talking Heads di “I Zimbra”, conducendo
tutti in pista. Musica colta per le masse, che solo una formazione con
fuoriclasse militanti in Calibro 35, Afterhours, Verdena, Bud Spencer Blues
Explosion, poteva concepire con una coesione simile. Un esordio assai più che
semplicemente memorabile e il miglior asso nella manica su cui la Tempesta
Records oggi possa fare affidamento. Un disco che deve avere eco
internazionale, qualora ciò non avvenisse, sarebbe puro dolo.
P.S.: Difficile trovare in rete
una data di pubblicazione unanime. 2018 o 2019? Poco importa, non è musica tale
da invecchiare in fretta.
Ryley Walker: Accomodations (da Deafman Glance)
Che il miglior brano avant
progressive dell'anno potesse giungere da chi da sempre è valutato in
qualità di folksinger, non è neanche una novità, basti ricordare certe
derive di Tim Buckley e Roy Harper, per non maturare particolari sorprese. E'
“Deafman Glance” disco tutto affascinante, ma Accomodations è composizione superlativa. Il canto mantiene
dall'inizio alla fine una sottile tensione emotiva, stemperata in una breve
variazione in 12/8 che nel terzinato sembra volere arricciare l'emozione a fior
di pelle. Una voce assai bella ma non originalissima nel timbro, perché invero
assai simile a quella di Brendan Perry, comunque portatrice di emozionalità e
autorevolezza declamativa. L'assetto armonico su scale esatonali discendenti si
avvicina al jazz più ricercato e all'ultimo Scott Walker, ormai faro
(quasi) unilaterale dello sparuto songwriting colto. Le percussioni di
Mikel Avery suonano come il miglior Thomas DiMuzio di “Hunger's Teeth”, capolavoro
dimenticato dei 5uu's. Sono un insieme brulicante di suoni elettronici e
acustici sparsi nello spazio. Si muovono come in un quadro astratto a
frammentare il ritmo anche quando potrebbe risultare stabile. Il pianoforte
semina accordi pari a martellate atonali. Solo l'incedere del basso,
alleggerisce il tutto nella microvariazione reiterata. Un flauto traverso assai
jazzy e minimale disegna le trame del suono sulle frequenze più acute.
Intorno al secondo minuto c'è anche spazio per una variazione armonica condotta
da elegantissimi fiati. Un accenno prima del ritorno del tema misterico di
base, ora affidato al solo pianoforte. Magnifico.
Josephine Foster: Faithful Fairy Harmony (da
Faithful Fairy Harmony)
Il culto di Josephine Foster è appannaggio di pochi
ma assidui seguaci da molti anni in qua. La cantautrice americana che voleva
essere cantante lirica, ma che da anni alterna l'insegnamento della voce alla
registrazione di album in buona misura tutti pregevoli e portatori di
identità autonoma, è arrivata lo scorso anno alla pubblicazione di un doppio
disco. “Svanito” come sempre e tanto più vario nella proposta delle singole
tracce, ma unilaterale nell'espressione di una spiritualità autentica e di
bellezza “altra”. Il suo canto da soprano leggero con scarso sostegno (in
breve, la voce “traballa”), ha un fascino antico, sembra quello della vicina di
casa freak che avrebbe voluto altro dalla vita, ma si è ricavata una
dimensione così fuori dal mondo da risultare assai meglio di quello che avrebbe
voluto (una semplice esecutrice). Sono tanti gli episodi del disco a risultare
completamente a fuoco, l'ode folk per arpa e voce (che nel finale
raggiunge un DO5 con grande naturalezza) di Soothsayer Song; la romanza
per piano e voce di I Was Glad, dalle armonizzazioni ben ricercate; la
magnifica Adieu Color Adieu, che trova una dimensione estaticamente
corale e non ha timore nell'affrontare spigolose dissonanze in apertura e
chiusura del pezzo; l'incanto mistico della pastorale Eternity, con un
bel violoncello a dar calore; le sublimi trasfigurazioni di The Peak of
Paradise, non estranee ad un'elettronica discreta quanto funzionale;
l'andamento glam rock di Challenger che riporta direttamente alla
mente alcuni episodi da “Transformer” di Lou Reed. E' il disco nel complesso
(notevoli anche The Virgin of the Snow, Lord of Love, la
“blakeiana” Little Lamb) a risultare degno di nota, così come lo era
stato, ad esempio “This Coming Gladness” del 2008 (con la stralunata e
magnifica Lullaby to All dove gli strumenti tutti facevano guerra tonale
al cantato dagli intervalli ubriachi).
La title track, ha la
capacità di riassumere tutto, in chiusura, attestandosi come gioiello di folk
progressivo con pochi paragoni. Un accordo di sospensione armonica prelude
a un breve recitativo, mentre in lontananza si sente il suono di un pianoforte
come nelle vecchie incisioni in cui era possibile percepire appena in anticipo
lo sviluppo dei brani (i nastri venivano usati più volte durante le take
dello stesso pezzo in studio, per non incorrere in sprechi). L'andamento che
segue è da tipico pastorale canto chiesastico americano, con annesso lirismo
vocale intimista. Le armonizzazioni però vanno a complicarsi in sviluppi ora
tardo romantici, ora da slancio glam rock. Poi una sospensione centrale
con più modulazioni e un'innesto di chitarra elettrica dal suono grottesco,
mentre violoncello e arpa aggiungono calore. Il canto trova nell'inserimento di
controcanti, una dimensione ancora più convincente. Torna un breve recitativo e
poi ancora un coro di voci dalle armonizzazioni swing primo '900. A
seguire l'irrompere di un'elettrica roboante e psichedelica a cui fa eco un
lungo arpeggiato d'arpa in detune. Adorabile, non ho altre parole.
Vessel: Arcanum (for Christalla) da “Queen of
Golden Dogs”
Altro disco fuori dalla grazia di
Dio per segnalare ancora una volta come se vi lamentate di ascoltare solo la
stessa solfa è perché siete pigri.
Un lavoro di piccoli bozzetti
musica da camera iniettata con abbondanti soluzioni elettroniche e qualche sapore
esotico, è quanto il Dj Sebastian Gainsborough, in arte Vessel ci dona in ascolto. L'esito è
interessante, anche se a volte non proprio “aggraziato”. Le armonizzazioni
ardite di Zahir, organizzate su
piani distanti tra loro, tanto nel modo di trattare strumentazione che voci e
tali da risolvere in un bizzarro coro che mette assieme Medioriente, Nord
America e Vecchia Europa, sono un bel momento e l'esasperazione dell'impiego di
melodine in modo “grezzo”, rende il tutto ancora più curioso. L'esotismo
del canto di Torno-me eles e nau-e, che viene ridotto a polifonia
(madrigale a tratti) classico-contemporanea, lo è molto di più. Nel lotto
spiccano pure i rantoli industrial di Sand Tar Man Star, che
risolvono in una sorta di coro di sirene tra Nord Africa e musica black
americana e la più ruffiana Fantasma, dove un quartetto d'archi con
armonizzazioni atonali incorre in derive dance (ma con dovizia di
armonizzazioni da Bollywood).
Su tutte e per dono di sintesi,
l'altezzoso clavicembalo barocco di Arcanum,
con cori onomatopeici da soundtrack cartoon annessi e archi.
L'elettronica qui ubriaca il tutto progressivamente fino a sfaldarne i contorni
e attestare fieramente “è il 2018”.
Da encomio per la capacità
metalinguistica, per l'inaudita faccia tosta. Il tutto non allontana la
sensazione di esercizio di stile, ma il quadro è talmente singolare da
avvincere.
Richard Youngs: As the Mind Shrinks It Tends
Towards Disappearing (da Belief)
Quasi 200 album pubblicati
in meno di vent'anni. Un record cercato ma non un attestato di merito. Richard Youngs,
dopo “The Naive Shaman” del 2005 ha coniato una singolare modalità di
composizione. Attestato un modo di scrittura che accenna un tema senza
svilupparlo, fa così economia di tempo, non risparmiando però sulla ricerca
sonica. E' questo l'unico pregio oggettivo del suo lavoro: il suono (e certo la
musica questo è, ma non solo...). Un suono sempre un passo oltre dove la
maggioranza dei musicisti giunge. Per il resto, non particolarmente rilevanti
l'attenzione per armonia, intervalli melodici, liriche appena accennate come
scarabocchi/scriccioli di pensiero latente, organizzazione ritmica e tanto meno
per la voce il cui timbro richiama alla mente e in modo netto, Robert Wyatt
(quante volte tornerà questo nome in questa lista!).
Qualche lavoro nel mucchio si
distingue ed è il caso di “Belief” dello scorso anno (ovviamente un nuovo,
orrendo capitolo, “Dissident” è stato già sfornato).
As the Mind Shrinks It Towards Disappearing,
è a mio avviso la traccia di maggiore interesse di recente produzione. Il canto
abbandona i riferimenti abituali e torna ad abbracciare una sorta di
primordiale lamento nativo americano, per coincidenza peraltro non dissimile
dalla scrittura dei brani più lenti di Cobain, ripetuto fino ad oltranza su una
cascata di suoni che si affastellano. La chitarra elettrica iper-satura è ad
ogni modo lo strumento principe del disco, assieme ad una batteria elettronica low-fi
(MIDI?). Il risultato è assai onirico e trova uno sviluppo nella sezione finale
grazie ad un ribattuto di chitarra dal suono cristallino a creare atmosfera e
un basso elettrico solido e fuori tonalità che suona quasi come un richiamo
lontano, una sorta di sirena, espediente sin troppo ricorrente in questa lista
di brani fin qui citati. Inutile dirlo, nessuno ha copiato nessuno, certe idee
sono nell'aria quanto gli allarmi che le sollevano.
Un buon momento.
The Nels Cline 4: Furtive (da Currents,
Constellations)
Noto ai più per la lunga avventura
musicale e umana maturata con Wilco, Nels Cline è uno dei pochi chitarristi al mondo
che possono vantare tutt'oggi l'attestato di “avant guitar hero”. Mostro sacro
dell'improvvisazione, si è distinto tanto negli ambiti del rock di
confine che in quelli del jazz, con un fraseggio personalissimo, attento
ad armonizzazioni aperte ed intervalli tali da raggirare ogni armonia di
partenza, oltre che per una ricerca di suono elegantissima anche quando
prossima alla soglia del rumore puro.
L'ultima pubblicazione lo vede in
quartetto con l'ex enfant prodige Julian Lage, da anni alla corte di
John Zorn e autore dell'autorevolissimo “Modern Lore”, candidato al Grammy come
Best Contemporary Instrumental Album, dopo una caterva di premi raccolti col
precedente “Mount Royal”.
Nella traccia di partenza, Furtive, che da sola vale
“Currents, Constellations”, i dialoghi serratissimi tra i due sono
l'equivalente d'avanguardia di Di Meola e John McLaughlin in ambito fusion.
L'interazione è tale che distinguere i due è impossibile, ciò che conta è il
linguaggio ed è linguaggio che ha consapevolezza di tutta l'evoluzione jazz
e delle derive classico contemporanee più prossime alla performing art
che non alla composizione scritta ed eseguita in modo accademico. Con loro
l'agilissimo e geometrico fraseggio di Scott Colley al basso elettrico e Tom
Rainey alla batteria, che il brano apre con una elegante intro. Il pezzo
si muove come un treno in folle corsa sul quale i passeggeri si muovo
sull'intero spettro di visione immaginabile, abbattendo ogni confine tonale e
abbracciando un sistema misto, ma senza risultare in alcun modo sgradevole.
Una meraviglia da custodire con
enorme cura, erano anni che non ascoltavo qualcosa di simile e per la
precisione dal magnifico “Duo Milano”, che vide nel 2007 all'azione Cline con
Elliott Sharp.
Oneida:
Bad Habit (da Romance)
Lo si aspettava da tempo un nuovo
capitolo della discografia dei corrieri cosmici dell'hard rock di
Brooklyn ed è arrivato, infine. Nel complesso nulla di eclatante, ma due tracce
del lotto sono intuizioni che hanno del geniale: All in Due Time e
soprattutto Bad Habit.
E' un gioco di “fase” applicato al
delay a rendere la traccia da me segnalata come qualcosa di molto più
che “una canzone”.
L'accordo è uno solo. Basso
elettrico e chitarra si limitano a regolare il numero di oscillazioni per
secondo e il relativo transito da un canale all'altro per mezzo del panpot.
Su tutto si innesta la voce straniata e monocorde di Papa Crazy. Poi qualcosa
cambia e sull'oscillazione precedente si articolano puri noises di
chitarra. Il gioco si ripete ancora una volta, con effetti ancora più
surrealisti e siderali, affidati alle corde e comunque sull'impianto monolitico
dell'accordo su cui il pezzo è creato. Il brano si svuota e poi riprende il
delirio sonico, ma con il solo intervento dell'elettrica.
E' come assistere a un film con
gli stessi protagonisti a muoversi in direzioni diverse per l'intera durata.
Straniante e anche per questo, assai gradito.
Sleep: The Sciences (da The Sciences)
A scanso di equivoci, l'ultimo
disco degli Sleep
è semplicemente perfetto. Ha un unico difetto e non da poco, suona come se
fosse stato concepito 30 anni fa. L'unico brano a far la differenza è quello
che introduce il bellissimo lotto di canzoni ed è per questo che lo segnalo.
E' traccia fatta come per il brano
degli Oneida, di regolazioni di effetti in presa diretta.
Il quadro in questo caso è più
mosso, perché gli accordi sono più di uno (su cui si avverte la fretta di
ripiegare comunque) e figura qualche grappolo di note, intervallato da suoni
percussivi sparuti e marziali, prima del sopraggiungere di un pedale d'organo
chiesastico a chiudere il tutto.
Ricordo che negli anni '90 tracce
come questa (ma ben più ordite) venivano poste come ghost track a
conclusione del tutto ed erano delle derive noise che gli Smegma
soltanto, i Sonic Youth e gli Hüsker Dü, avevano realizzato come possibilità di
canzone. Poi, sarebbero arrivati i Sightings e la scena noise americana
di inizio millennio.
Cos'hanno dunque il brano degli
Sleep e quello degli Oneida che ho segnalato, in quanto a nuovo? Semplice, la
profonda linearità, perentoria, apocalittica, sanguigna e organica derivata
dall'estetica dei drones degli ultimi anni e che da quelli ha preso le
distanze da dischi ben più glaciali come “Faust IV”, della band tedesca
dei '70 che assieme ai Neu! e a Klaus Schulze, ha a sua volta originato questo
percorso.
Questa materia sonica fatta di un
accordo solo o poco più, modulato nelle infinite varianti che un semplice
pedale applicato allo strumento elettrico può offrire, conduce alle origini
della materia suono con un fare che esprime angoscia, disagio ed è molto più
che una “manifestazione” provocatoria.
Più che propedeutico al resto, la
sintesi di ogni sviluppo.
SOPHIE: Pretending (da OIL OF EVERY PEARL'S
UN-INSIDES)
Sophie Xeon (che non si può urlare tutto a
caratteri cubitali, pseudonimo, titolo del disco, come a dire “se urlate io
urlo più di tutti”), è una Dj che si è fatta immediatamente notare con un album
di debutto candidato ai Grammy. Si tratta di un disco pop confezionato
benissimo, con delle canzoni piuttosto banali nell'impianto e nella tessitura
delle melodie, ma con un vestito addosso che da solo fa la differenza. In
qualche caso, la forma canzone viene superata del tutto e l'esito si libera da
costrizioni di sorta. L'episodio migliore è a mio avviso Pretending.
E' un brano che parte con un
lunghissimo e siderale drone costituito da elettronica cosmica (in quasi
tutti i solchi del disco invece il suono è industrial) e voce affocata a
seguirne le movenze sinusoidali. Come in una “Nascita di Venere” di memoria
botticelliana, il miracolo umano si manifesta nell'emersione, qui non dalle
acque ma da un non meglio precisato mistero cosmico, che si fa canto e difatti
la voce come simulazione artificiosa di vagito, emerge.
Alcuni suoni sono davvero
grotteschi, come quelli che chiudono la traccia, simili al motore di una
motocicletta che fatica a partire, ma la loro essenza da “cartoon” regge
comunque . L'immagine della musicista (cosa dichiarata pure nel bel brano Faceshopping)
si accolla, novella alfiere della body art, il ricorso ad un'essenza
plasticosa per non riconoscere i propri limiti/pregi umani e l'intero disco
esibisce contraddizioni interne a tutto spiano e con coerente incoerenza.
Sfizioso.
Paola
Tagliaferro: Mrs Yin and Mr Yang (da Fabulae)
Fabulae è il terzo album di Paola Tagliaferro
e arriva dopo l'altrettanto bello Milioni di Lune del 2012, realizzato
in coppia con Max Marchini. La materia sonica si fa in questo lavoro
cosmopolita a raccogliere anni di studio di canto microtonale e strumentazione
indiana con Amelia Cuni e una costante ricerca spirituale, punto di forza della
sua poetica. Dell'album, le tracce più esplicitamente capaci di
edificare un ponte mentale tra culture, distanti geograficamente ma da sempre
vicine per scambi culturali, economici e non in ultimo, guerre, sono: Algoritmo:
Un Ponte Tra I Due Mondi e La Signora Yin E Il Signor Yang .Ovviamente
la distanza che si avverte in questi solchi è in primo luogo di spirito, ma
anche di forma sonica, ben distante da quella della canzone tradizionale e più
vicina a un canto libero, altrettanto liberamente sostenuto da una
strumentazione acustica, con effetti di musique concrete e qualche
sparuto, ma indispensabile intervento elettrico/elettronico. Disponibile in
rete la sola versione inglese del disco, dove a risultare più avvincente è la
seconda traccia. Una carezza per l'anima.
2.
Da altre piattaforme:
Lawrence
Dunn: Disappointment Rondeau
Da decenni il mondo accademico
musicale è radicalmente mutato. Difficile prenderne atto in Italia dove lo
spazio dato alle musiche contemporanee è non pari a nulla ma irrisorio e
guardato con sospetto. Il timore maggiore è quello di dovere avvicinare
qualcosa di difficile, noioso, quando invece le consuete forme musicali
conosciute dai più in giovane età (20-30 anni massimo), permettono viaggi sonici più accomodanti, ad accompagnare
lavori domestici e transiti in automobile.
La musica classica contemporanea,
soprattutto lontano dall'Italia è consapevole di questo e da tempo propone
forme nuove in chiave piacevole quanto irriverente.
Nei nostri Conservatori gli
allievi si laureano senza conoscere alcunché sia stato prodotto nel secolo
scorso, figuriamoci oggi e laddove a conoscenza del nuovo dovessero giungere,
vengono guidati ad odiare nuove formule per opera dei docenti stessi, per i
quali l'ignoranza è attestato di gloria alla stasi piatta che vive il proprio
cervello.
Il punto è che la musica
contemporanea (quella riconosciuta a livello mondiale, non Allevi o Einaudi) ha
una pretesa, quella che il linguaggio musicale vada conosciuto, al pari di
quello giuridico, ingegneristico, medico.
Ora, nessuno (o quasi) si improvviserebbe
ingegnere, a ben vedere neanche critico d'arte, ma tutti si improvvisano grandi
conoscitori di musica perché nella vita hanno ascoltato una trentina di album
sparsi.
Cosa c'entra con questo Lawrence
Dunn? Il suo linguaggio è “giovane, trendy”, in un'epoca in cui le porte di
Conservatori sono aperte e giustamente, ai linguaggi più eterogenei e Jonny
Greenwood viene eseguito assieme a Beethoven con pari gloria (più o meno
giustamente, questo).
La sua musica ha conoscenza di
linguaggio ortodosso e meno e proprio per questo può permettersi anche di
associare oggetti domestici a produrre suono, al pari di percussioni
tradizionali.
A chi gliene importerà qualcosa?
Certamente a chi giovane (d'età o di spirito) quanto lui vorrà sentirsi
riconosciuto come studente di musica (o musicista) inserito nel proprio tempo.
Se una casalinga dovesse vedere
questo video con l'ensemble Slagwerk Den Haag ad eseguire un suo brano, non
importerà un accidente e così a un musicista medio in ambiti pop, rock
e jazz.
A sentirlo invece, il brano (e per
quel che dura) scorre e potrebbe funzionare da perfetto “cortocircuito” tra un
brano e l'altro di Virgin Radio Classic.
La proposta di Dunn (lo trovate
qui, non su Wikipedia: http://www.lawrencedunn.co.uk/)
che usa intervalli sonici carichi di mistero a creare una sorta di soundtrack
cartoon, è tutt'altro che inavvicinabile, non per chi ha fatto di Danny
Elfman (l'autore delle colonne sonore più note dei film di Tim Burton) una
referenza, seppur minima.
Suoni di percussioni tra i più
svariati, guidati da due marimba, seguono un andamento di laptop
preregistrato con unico suono straniante, ottenuto attraverso l'uso di quinte
del campionamento stesso. La stratificazione sonica è progressiva sino a
saturazione, per poi andare a sgonfiarsi lasciando le sole percussioni ad
ottenere onomatopee.
L'equilibrio del tutto è
sofisticatissimo, bilanciato, non è qualcosa che “tutti potrebbero” (The
Grand Vizier's Garden Party di Nick Mason, su “Ummagumma” dei Pink Floyd è
concettualmente progenitrice di tutto questo, ma al confronto sortisce
l'effetto “vorrei ma non posso proprio”).
Pur divertente, giocosa e
indubbiamente nuova nel suono e nello spirito (meno nella sostanza della
proposta), la materia di Dunn esposta in questo brano, ha tutti i sacri crismi
della musica classica. Piacerà a chi in quell'ambito ha esperito e chi ha fame
di conoscere, annoierà (forse) chi manco sa cosa il nuovo in musica sia, ma
tutto pretende di sapere.
Non in ultimo, per chi mai s'è
chiesto cosa possa essere la classica “oggi”, non 30-40-60-100 anni fa
(avanguardia è termine assai “elastico” nei templi “alti”), la composizione in
oggetto e la performance che l'accompagna potrebbero risultare un
effetto del tipo “dove ho vissuto finora???”. Visto che il tempo per leggere un
libro di Fabio Volo, per guardare partite di calcio, stupide tribune elettorali
in show politici quotidiani, Sanremo, lo spazio lo si ha (bisogna pur
essere “sul pezzo” no?), da chi come me non sa, chiedo: “già, dove accidenti
siamo vissuti, tutti?”.
A Lawrè 'a paperella nun fa' più
ride, usa e parolacce dodec(c)afoniche, score e pernacchie e vedi che in Italia
fai li soldi co 'a De Filippi! Johnn Cheige (tacci sua) i fece co 'a bonanima
de Maike Bbongiorno, me devi da crede!
Hobby Horse: Helm (da Helm)
Sinceramente innamorato di “Helm”,
sesto capitolo discografico di una band jazz per ascendenza,
Hobby Horse, ma per vocazione senza appartenenza di territorio alcuno. Si
perché il suono è apertamente “cinematografico”, quanto ricercato e diretto. A
condurre le trame, indistintamente, i fiati di grande impatto e profondità di
Dan Kinzelman, co-artefice di trame elettroniche sofisticatissime e
contemporanee, suoni vocali; il granitico basso di Joe Rehmer, anche
all'harmonium, all'elettronica, a voci; la vulcanica, estremamente creativa
batteria di Don Karate, anche lui ad elettronica e voci. Comprimari, ma con
caratteristiche assai differenti. Ognuno mostra un carattere a sé ma funzionale
alla resa collettiva, come ad essere attore di “carattere”. Più spiccatamente jazzy
e soundtrack oriented il percorso di Kinzelman, cinicamente diretto e
mai sopra le righe; a cavallo tra jazz e rock il basso di Rehmer,
dalle geometrie traino, mai banali; avant (jazz, rock, progressive,
che importa?) il drumming di Karate, di nazionalità italiana (Stefano
Tamborrino. Basterà questo a far circolare la band in radio tra la
canzone su tre che deve essere a stelle e strisce, o ci rifileranno solo Al
Bano?) capace di un florilegio di invenzioni a tutto spiano a seminare suoni
assortiti pari a schegge ritmiche impazzite quanto frutto di un disegno
geometrico da action painting.
Il brano d'ingresso, col suo
incedere di contrabbasso in riff, percussioni spezzate a disegnare
quadri stereofonici e a mescolare trame in un frullatore, fiati a dialogare
come incompresi in un lucido esposto, è una meraviglia che farà innamorare
estimatori della Fire!Orchestra, dei Morphine, dei King Crimson di “Red”, dell'elettronica
“prestata a” o a “definire la” jungle meno eterodossa, dei Dale Cooper
Quartet in chiave non narcolettica, il tutto senza escludere quanto fatto da
Dave Kerman in anni di incisioni passate inosservate ai più.
L'esito è da New York 2019, ma con
consapevolezza della storia sonica del Vecchio Continente tutto.
Per niente da meno la seguente
“Salsa Caliente”, dove il basso si fa elettrico con annessi trattamenti
elettronici a favorire distorsione, la batteria mantiene l'identità detta,
suoni da laptop creano vertigine da astrattismo sonico.
E' il disco in sé che si fa
racconto tutto e diventa esploso nella magnifica “The Go Round”, dove la
batteria diviene capace di dire a gran voce senza usare, apparentemente, note.
Di un'eleganza superlativa “Cascade”,
dove il dialogo fra fiati, qui davvero superbi per capacità timbriche e il
sottile disegno del contrabbasso offre un Miles Davis mai ascoltato (che non
solo del proprio strumento son fatti i jazzisti e Davis certo non solo
trombettista era).
Gli esposti si fanno sempre più
morbidi nel suono ad incontrare il Canterbury sound dagli esposti più
eurocolti (Henry Cow) in “Buckle” e poi a coverizzare Wyatt in quella
meraviglia che è “Born Again Cretin”.
“Amudsen – Evidently Chickentown”,
si apre con canto a doppia cavità mongolo e suoni elettronici inquieti ma non
drammatici, il disco non suona mai ostico, scorre e piacevolmente, dall'inizio
alla fine. Una conclusione invero “epica” per durata (25'25”), ma non per
esiti. Se gli Henry Cow fossero nati oggi, la loro “Udine” sarebbe questa e
siccome gli Henry Cow non sono nati oggi, questo brano a loro non somiglia
affatto. Chi vuole capire mi capisca, un parallelo d'intenti non implica
l'impiego degli stessi mezzi sonici.
La decostruzione sonica, si
trasforma in un ostinato ritmico/tellurico con voce rap (la
contestazione un tempo era atonale/esatonale/dodecafonica o comunque seriale,
oggi è a mezzo d'enfasi ritmica, anche vocale). L'effetto è “cosmicamente
straniante”. Un viaggio tra drones e rumori sommessamente industriali a
creare un esteso “trip” ambient che chiude il tutto in qualità di
manifesto di libertà d'espressione sonica tutta.
Essenziale oggi ma son certo potrà
esserlo ancora tra qualche tempo.
L'intera produzione della band,
la trovate su Bandcamp: https://hobbyhorse3.bandcamp.com/
.
Cristiano
Calcagnile: Oltre gli Stomi – da St()ma
St()ma
di Cristiano Calcagnile non lo troverete in rete, se non in piccoli ma
significativi assaggi e di uno di questi scriverò. L'importante carriera
dell'artista, di fatto tra i più grandi session man italiani
contemporanei, assieme a Sebastiano De Gennaro, Enrico Gabrielli, giusto per
citarne qualcuno e scontentare (senza volerlo, lo giuro) 500.000, potete
leggere qui: http://www.cristianocalcagnile.eu/
.
La ricerca in ambito sonico
affrontata nel disco ed espressa in questo poco più di un minuto, è quella
delle percussioni intese in chiave orchestrale/contemporanea. Ogni suono
impiegato corrisponde ad una voce strumentale pura o trattata elettronicamente,
a creare un quadro ricchissimo, estremamente vario nella tavolozza,
strettamente contemporaneo, di un'identità disarmante per quanto mai a cercare
manifestazione tecnica che non sia al servizio di una composizione in cui si
percepisce un senso di urgenza drammatica difficilmente spiegabile.
Meglio ascoltare.
Officina
F.lli Seravalle: Atrofia del Verbo (da Us Frais Cros Fris Fics Secs)
Esorcizza la paura questo disco, per affermare la volontà di
vivere con determinazione.
Lo fa nel brano segnalato decorticando l'anima con
suoni elettronici al vetriolo dosati come un medicinale che può gravemente
nuocere ma che a mandarlo giù se ti va bene stai meglio, altrimenti “amen”; con cluster pianistici
minimali e reiterati, ritmiche che rimbalzano tra un anfratto e l'altro della
mente a cercare spazi scomodi.
Lo fa allo stesso modo nelle rarefazioni di Buran, che
si fanno premonizioni/ossessioni da mille deja vu che emergono
d'impeto, nella disintegrazione sonica a caracollare in vortici ritmici
di GW150914, nella violenza sommatoria al limite di tortura
psichiatrica di Padiglione 6, negli sfalsamenti ritmici di N-a
Fost sa Fie, negli “avvertimenti” ampiamente confermati di Je Fais
Sembiant D'Etre Ici.
Tutto dichiaratamente perentorio, fastidioso quanto invero
necessario.
La ricerca sonica dei F.lli Alessandro e Gianpietro Seravalle,
abbraccia elettronica ad ampio spettro, industrial, la stessa
modalità diretta di certo metal (appena evocato), noise,
il jazz meno ortodosso (ad emergere tra gli appoggi pianistici
e di synth in Brevi Apparizioni).
Un'identità personalissima che può essere avvicinata da chiunque
ami il rock tutto, la musica elettronica di oggi/ieri/domani,
la classica minimale non estranea ad “alterazioni” piscotrope del sistema
tonale...
Da indagare assolutamente, tanto su disco che nel film “Brevi
Apparizioni” su regia di Simone Vrech.
Far Corner: Unapproachable; Past Deeds, Present
Treacheries; Night of Odds (da Risk).
C'è un disco che quest'anno ha saputo far differenza in ambito avant progressive ed è "Risk"
dei Far Corner. Una differenza che nasce dalla capacità di gestione del suono
al servizio della composizione e non viceversa. E' questa cifra delle migliori
produzioni Cuneiform, storica etichetta per la quale la band ha pubblicato questo nuovo lascito. Sinceramente, non tutte le
tracce riescono nell'impresa di superare quanto espresso da seminali
capostipiti di un rinnovamento degli anni '90, quali Dave Kerman. Le trame della
composizione sono ovunque roboanti, fatte da rapidissimi fraseggi su scale
esatonali, alternate a brevissime sospensioni per archi. Nulla di eccezionale
se non vi fosse un suono assai duro di derivazione avant-metal e un'elettronica targata 2018. Può sembrare poco, ma in
un genere (e questo è disco di genere), dove la rievocazione di suoni analogici
e forme ritrite all'inverosimile (esemplare in materia un disco come quello
coevo dei VAK, perfetto, ma completamente vecchio), è norma. Il brano d'ingresso
ha però una marcia in più. Qui il lavoro compiuto in studio di registrazione è
tale da alternare quadri in una frazione di secondo attraverso un cut-up di suoni di grande effetto.
Splendida in materia "Night of Odds", dove la musique concrete si fa imponente ronzio sonico a sostegno di un
racconto per onomatopee da libreria di suoni. Molta composizione è chiaramente
eseguita digitalmente, nonché povera di dinamiche (straniante il pianoforte
elettrico, che trova maggiore interesse nelle trame neo-classiche della sola
"SolonEye") e tutto suona talmente perfetto da apparire una sorta di
colonna sonora da incubo fantascientifico. Il risultato è ottenuto con stessa
roboante enfasi su "Myopia", dove la band non riesce ad esimersi dall'impiego di un Hammond usato come
se si fosse nel 1975. Laddove la materia si fa principalmente elettro-acustica
(la bellissima "Past Deeds, Present Treacheries", dove è un basso fusion a regalare qualcosa di
autenticamente DIVERSO), l'esito acquista una chiave inedita.
Piacerà ai cultori di un suono vecchio, quanto a quelli alla
ricerca di una variante su tema, che in questo caso, è spesso minima, ma in
qualche caso di autentico interesse.
OTEME: Il Cimitero delle Fate da Il Corpo nel Sogno).
La proposta dell'ensemble capitanata dal M° Stefano Giannotti
rimane tra le più singolari espresse dalla scrittura "rock
cameristica" dell'ultimo decennio ed è ben lungi dall'esaurire le sua
ricerca e carica propulsiva. Assai stretta tra le rigide maglie del rock progressivo, anche nell'accezione
di Rock in Opposition, perché
senza alcun prurito di "aderenza a campo istituzionalizzato", che
accetta solo cloni, seppur di livello, OTEME, unisce arti performative, musique concrete, radio art intesa (anche) nell'ottica di ready made sonoro assai fluido, a vocalità estranee a pulsazioni
emotive. Una sorta di flusso di coscienza dove gli scenari si organizzano in
modo assai geometrico, anche quando l'astrattismo sonico è il principale mezzo.
In questa direzione è sensazionale "Il Cimitero delle Fate", prima
sezione di "Nascita dei Fiori". Un senso misterico-pagano,
completamente avulso da fiabesche declinazioni, è reso da un collage di suoni sintetici e acustici,
ai quali la voce aggiunge accennati suoni pre-vocali. L'effetto complessivo è
davvero straniante e rappresenta in sé una vera opera d'arte comunicativa, da
annoverare in qualità di "musica contemporanea", estranea e generi di
sorta.
Un'esperienza necessaria.
Old Time Relijun: El Naranjo Gritando (da SEE NOW AND
KNOW).
Da sempre in campo "armati" sonicamente, con la voce e
il sassofono di Arrington De Dionyso che "uccidono i fascisti", gli
O.T.R. non potevano stare in silenzio in un momento storico così critico per
l'emergere di odi latenti da ogni dove, materializzati in legge. Più punk di qualsiasi band in
circolazione, il combo ritorna in studio dopo anni, forte di una maturità
acquisita in concerti lungo tutto il globo, nei quali i modi vocali e di
composizione sono stati scandagliati a fondo fino alle estreme conseguenze.
L'esito è un EP, che farà felici i fan della
prima ora, legati a quel noise-garage di
prim'ora che qui si inietta però di colori jazzistici
degni di nota e ritmiche funky (Dragon
Juice), mentre la voce di De Dionyso estremizza gli studi sulle diplofonie
impiegando modalità care ai canti funebri delle donne nord-africane e
compressioni aritenoidali di derivazione siberiana. Allo stesso tempo, la
materia trova soluzioni post-punk più
sbrigliate e a fuoco di marca affine ai Talking Heads ("I Know I'm
Alive" , "Jeremiad"). Impressionante davvero l'uso di diplofonie
su frequenze iper-gravi in "Crows in A Road", dove l'acida deriva del
blues di Captain Beefheart e il canto
spiritato del primo Nick Cave, si fa incubo iniettato di suoni d'organo Hammond
impiegato nel produrre clusters pari
a stilettate. Il brano che più rimane a mente, è la meravigliosa invettiva di
"El Naranjo Gritanto", cantata in messicano e su un riff reiterato al limite dell'ossessione
psicotica; lacerata da chitarra elettrica e sassofono, la ritmica si muove
invece tra suggestioni da rito di santeria e funky, la voce estremizza il riff
di "Double Dare" dei Bauhaus inventandosi al tempo stesso mille
diavolerie tra emissione di fischio, iper-distorsione indotta che nel finale
crea una progressione da far balzare da una sedia, falsettone nasalizzato
quanto volutamente sgraziato. L'esperienza di De Dionyso in Thailandia,
peraltro in un periodo drammatico per la regione e in stretto contatto con le
popolazioni indigene e le loro ritualità, si fa suoni di fiati etnici, chitarre
a riprodurre frequenze e portamenti di strumenti a corda dell'Estremo Oriente e
modo armonico che conduce in un florido altrove. Colori etnici sono applicati
al post-punk evoluto in forma
d'Oriente Estremo, con impiego di un mellotron ad emulare una sezione d'archi e
un sassofono che s'insinua tra le pieghe della musica ad imporsi abrasivo. Un
EP che vale un disco di durata piena.
ESSENZIALI, oggi più che mai.
Ingrid Laubrock: Contemporary Chaos Practices - Part 1 & Part 2 (da Contemporary Chaos Practices).
L'esasperato studio delle meccaniche dei singoli strumenti viene
abbondantemente esperito nella nuova pubblicazione orchestrale di Ingrid
Laubrock, musicista di formazione jazz, approdata alla composizione
contemporanea tout court. Allo stesso
modo della produzione di Ornette Coleman, Terje Rypdal, Fausto Romitelli, John
Zorn, ma con modalità completamente personali, il percorso di Ingrid Laubrock
integra linguaggi diversi in una nuova Babele di suono, che alterna esposti
orchestrali monolitici abbondantemente accompagnati da elettronica e di grande
impatto percettivo, a momenti di improvvisazione jazzistica. La
conoscenza del linguaggio e della materia musicale, è assai vasta e tale da
ordire vere e proprie folate/sciami sonici, alternati o sovrapposti ad
armonizzazioni tardo-romantiche e verbo jazz in un'idea assai vasta di
"suono". I momenti più affascinanti sono quelli classici e
"ultra-minimali" come altri più caotici, dove tutto diventa
"free", gli strumenti intesi come "macchine di produzione
sonica", abbracciando la seminale esperienza di Peter Brötzmann (di “Machine Gun”), Mats Gustaffson (di “Hydros
One”), Derek Bailey (di “Improvisations for Cello And Guitar”), tutti dischi DA
ASCOLTARE.
Anche le voci, ricorrono a "pre-emissione", in modo
estremamente più elementare però di quanto fatto da Minton/Moss/Blonk in
"Five Man Singing" (altro capolavoro).
Tutto mantiene oltremodo una dimensione cinematografica e non
risulta mai ostico, a rendere avvicinabile quanto da altre avanguardie non era
stato reso tale.
Un lavoro degno di grandissimo encomio.
Oneohtrix Point Never: We'll Take It (da Age
Of).
Sinceramente non il miglior disco di Daniel Lopatin, “Age Of”, eppure nel mucchio qualcosa splende ed è
We'll Take It. L'album riprende la sorprendente ricerca fatta da
librerie di suoni assemblati in modo orchestrale, alla maniera di un ready
made fatto musica e questa volta la tendenza è cercare di concentrare
visioni in piccoli bozzetti. We'll Take It, riduce i Nine Inch Nails di
“Mr Self Destruct” a cartoon, orchestrato come se fosse una sorta di
cortocircuito mediatico dove tutto appare follemente ordito alla perfezione,
dalle voci rese infantili a quelle di gemiti. Ogni suono è calcolato con
dovizia di pieni e vuoti, a bilanciare una vera sinfonietta digitale ordita da
uno street artist, arte nella quale Lopatin mostra di essere maestro,
tanto più quando lontano da formule compresse. In questo brano, tutto è
magnifico.
3.
“Outsiders”:
Alla stregua della comunicazione
mediatica, che dalla politica all'informazione tutta si manifesta con brevi
comunicati spot sui social network, si sta diffondendo la
necessità di pubblicare in tempo reale canzoni sul web.
E' certo una modalità che nega la
progettualità, spesso impossibile per i costi che le etichette discografiche
richiedono a una pubblicazione. Registrazione, produzione, stampa, spese di
distribuzione, SIAE (che corrisponderà ai musicisti solo quanto relativo a
eventuali concerti, più di rado dai passaggi televisivi e radiofonici), booking
e ufficio stampa sono a carico di chi propone musica e nella quasi totalità dei
casi sono richieste anche la metà delle copie del disco, per il quale l'autore
non percepirà un centesimo. Il tutto in cambio di un marchio che nega
l'attestato di “autoproduzione” (di fatto reale), ma che consente di essere
almeno recensiti su riviste di settore e webzine.
Molti musicisti dunque
preferiscono l'urgenza della singola traccia comunicata in tempo reale ai
propri followers, consapevoli anche della velocità con cui i mondo
musicale si muove.
E' una modalità comunque diversa
dalla pubblicazione dei vecchi 45 giri e che non esclude a priori la stampa di
un disco una volta trovati i fondi per darlo alla luce, magari con una forma
diversa cucita addosso ai singoli pezzi prima offerti in ascolto (e non solo,
perché ormai è possibile scaricare con trucchetti pirata, dalla maggioranza
delle piattaforme).
Ovviamente il discorso è altro per
il pop da classifica dai più inteso come unica manifestazione culturale.
Non dimentichiamo che fino a pochi decenni fa in classifica albergavano vere e
proprie avanguardie e che chi ha dai 40-50 anni in su mai si è interrogato
sull'evoluzione del percorso dei mercati artistici, l'ha preso come dato di
fatto e ciò che non gli viene offerto, non lo cerca. Per altre ragioni i
giovanissimi, al pari dei ventenni, cresciuti in recessione vivono un fly
down perenne che non contempla il rischio artistico, al quale viene
prediletto un facile mestiere in musica con allegato, antico sogno di
“successo”, economico in primis.
Poi e ancora, diversamente è
vissuta la musica nei pochi Paesi che sostengono le politiche culturali,
nazioni che peraltro proprio non riescono a capire come altrove possa andare
diversamente e si auto-convincono di essere “superiori per DNA” in quanto a “invenzione”.
Tutto questo per dire che tanti
musicisti non li si troverà mai su Spotify o su Bandcamp e non certo perché il
loro percorso creativo abbia meno valore, ma perché si tratta di persone che la
fortuna o non sono riusciti a crearsela, o proprio non hanno avuto mezzi per
avvicinarla.
Detto questo la fortuna non è un
merito, come non è un merito l'equivalenza tra il valore di una persona
(creativa o meno) e il suo peso economico.
Di due artisti parlerò, senza
pietistiche introduzioni ai loro percorsi, dicendo solo ciò che hanno
presentato, nel 2018 uno e dell'altro in anni passati, quando una concomitanza
di situazioni gli ha permesso di mettere in rete un progetto compiuto. Due
grandi, indipendentemente dal parere mio o del vostro, ma dei quali credo si
possa e si debba scrivere, parlare, discutere.
Ironia della sorte, a pochi metri
abitano, in quel di Roma, ambedue oltre che musicisti, sono ricercatori vocali,
drammaturghi, attori, ognuno con peculiarità assai a fuoco espresse in identità
di unicità assoluta.
Coucou Sèlavy: Like Lazarus (I Shake my Ass in
every Tomb I've Left)
Dopo due album pubblicati rispettivamente nel 2015 (Cara o che?) e nel 2016 (Nequaquam Voodoo Wake), Coucou Sèlavy non ha mai smesso di pubblicare in rete ogni sua creazione, come a esprimere l'urgenza creativa di chi in quella sa mettere tutto quanto in quel momento resta da dire. A delineare un possibile seguito di “Cara o che?”, una pletora di “presunte” cover version, dove i temi affrontati, dalla musica lirica al pop, al rock, diventano puro pretesto di creazione individuale.
Da una profondissima, abrasiva
rilettura di Vecchia Zimarra, passando per i giocosi “New Beatles” di Hello
Goodbye che diventa Bandiera Rossa (o forse no?...) in coda, è la
creazione di un teatro-musica fatto di presenze-assenze, percezione reale e di
fantasmi che divengono più reali della realtà stessa. Il tutto a mezzo di voci
ordite a mezzo di un puntillismo con mille colori/facce/interpreti dello
spettro d'emissione, a carico di un'unica personalità vivisezionata con
lucidità, irriverenza, devozione alla vita che la morte annuncia, in un'idea di
spazio e tempo che non ha origine, né fine. Si è ben oltre la manifestazione
tecnica, qui si racconta la gloria delle possibilità offerte dall'attuale
tecnologia d'incisione, resa arte performativa, ad uso di una mente capace di
guardare il tempo nell'accezione più ampia immaginabile e cosciente di vissuti,
ascolti, visioni, letture, schifo. Un racconto da un'universo a parte, colto
quanto popolare, perché appartenente a tutti al pari di un archetipo di
percezione.
Questo è realtà espressa nella
rielaborazione di temi quanto nell'invenzione di motivi originali.
Like Lazarus (I Shake my Ass in
every Tomb I've Left) è uno di quelli di più recente produzione che più hanno avuto
risonanza su di me in quanto a risposta a “punto d'urgenza” personale.
Registrata con una chitarra senza
due corde, si muove in una sorta di pastorale ballata apocalittica, accarezzata
da slide, arpeggiati, un pianoforte tintinnante, un solido basso (in
chiusura) e inserti di elettronica, ognuno ad aprire porte di un teatro mentale
assai organico. Non solo voci dunque, qui condotte ad ancora più estreme
conseguenze di compressione su corde vocali false, vere e aritenoidi. Di colpo
il quadro s'infrange al minuto 2.26, il valzer pianistico riprende, il massacro
sonico di distorsione/liquefazione dell'incedere si fa spettrale e rarefatto tra
diplofonie acutissime in falsettone stregonesco che gelano il sangue.
Ho avuto paura ascoltandola, molta
e non so se di vivere, morire o di trascinarmi in attesa di un finale che
merita la più violenta delle invettive.
Matteo
Capogna: L'Alchimista da Giovane
Maniacale. Invita tutti in un
angolo Matteo Capogna, con un torrenziale, vorace esposto ossessivo/compulsivo
tale da infrangere e definitivamente, uno dei primordiali tabù: la paura di
impazzire.
Non mi pare sia autore di dischi e
pochissimi sono i documenti audio e video che di lui si hanno in rete.
Nulla di postato lo scorso anno,
qualcosa messa in rete all'inizio del 2019 e di cui non è dato sapere il
periodo di ideazione.
Mi permetto dunque di forzare i
limiti temporali di questo excursus dedicato al 2018, per parlare di una
performance pubblicata on line per la bella realtà Studiolo Laps,
nel 2014.
Un EP considerando la durata della
traccia.
Una chitarra classica flamenco,
gestita in improvvisazioni pirotecniche che abbracciano tanto modi antichi che
classico-contemporanei, incontrano un coro a cui è affidato il racconto
dialettico. I tragici greci che si fanno commedia atroce, usando ogni tipo di
espediente possibile alla phonè su frequenze medio-acute (e iper-acute),
acidule, di un farsesco fatto carne. E' come se improvvisamente i volti di
“Trionfo della Morte”, “Margherita la Pazza”, “Caduta degli Angeli Ribelli”,
“Paese della Cuccagna” di Peter Bruegel Il Vecchio iniziassero a parlare, tutti
assieme. L'elettronica è gestita in piccole dosi velenose, pennellate su quanto
è compiuto in acustico, da corde di nylon e cellule. Piccoli effetti
ritmico onomatopeici aggiungono carattere. Siamo appena al minuto 2'30”, ma
sembra di aver attraversato secoli in reincarnazioni mai dimenticate, come se
il transito di una vita fosse perenne e cosciente. “Il gatto maculato tre volte
miagolò, il tronfio porcospino tre volte (n)grufolò. Qui sento un accordo di
cet(e)ra stramba, sorelle! Sorelle! si canta!” è l'invocazione che segue a
suoni di oggetti ad uso percussioni domestiche assortite con cura.
Nasce l'esilarante rito di preparazione
di una pozione, a voce di non meglio precisate streghe. A chiudere un “ahi!Ahi!
Mi prude un pollice... qualcuno si avvicina (eh) porta aperta in casa mia, per
chi bussa chiunque sia”. I suoni di chitarra sono emessi a “corda vuota” su
ponte di chitarra, per poi lanciare una fuga da siparietto teatrale, a
ricordare cavatine d'inizio '900. Non ci si risparmia neanche il ricorso a
cordofoni indiani, per poi ripiegare su intervalli jazz fusion. I suoni
flautistici sono ottenuti, anche, con l'impiego di strumenti auto-costruiti.
Segue una progressione squisitamente classico contemporanea, un solo di flauto
traverso (vero), il tutto contrappuntato da onomatopee vocali costanti ed
elettronica riconoscibile tra mille. Ricomincia il siparietto da cinema muto a
chiudere grottescamente qualcosa che non ha tempo, non ha spazio, non ha
collocazione alcuna.
Identità autonoma, irriverente,
vitale.
Identità a raccontare in
conclusione, un viaggio fatto da storie parallele a un mainstream, anche
se spacciato per “alternative”, in buona misura ad uso e consumo di chiunque.
Le essenziali tra le tante,
tantissime, a cui mi sono avvicinato in un anno che preannuncia un 2019 a cui
tutti (me incluso) vogliono far parte con una pubblicazione, a mettere un piede
dentro ad un nuovo decennio in arrivo, con una sbornia che come sempre avrà
voci di circostanza, altre d'essenza.
Dedicato alla memoria di Glenn
Gould, Arnold Schönberg, Igor Stravinskij e... a chi afferma con vigore che chi
è musicista, di musica non deve scrivere.
Parlare di scrittura, quando non
si sa che lingua si sta pronunciando, non è auspicio a nessuno, è “parola in
suono per chi sordo vuol rimanere”.
Che certo le parole suono ed
evocazione sanno, ma la musica atto d'amore richiede, di chiunque, ma in
particolar modo di chi amare sa e a non sapere amare, si fa solo danno.
4. Piccola parentesi live:
Non si usa più da tempo in ambito
critico valutare i dischi dal vivo come momento creativo tout court e
non strettamente celebrativo. La storia del rock tutta è costellata da gemme
imprescindibili e gli ultimi anni non sono stati da meno, nonostante questo
capitoli essenziali come “Inni” dei Sigur Rós o “Cut the World” di Antony
and the Johnsons siano stati ridotti a celebrazione, quasi la musica non
fosse anche auto-manifestazione dipendente dall'esecuzione di un musicista.
Negli ultimi anni i Motorpsycho
si sono distinti con un'attività dal vivo senza tregua e tale da garantire ai
propri cultori un suono in costante evoluzione, potente, dinamico,
immaginifico, profondamente creativo, su un palco quanto e più che in studio.
Il tour che è seguito
al bellissimo “The Tower”, ha visto il combo al massimo del proprio potenziale,
capace di disegnare caleidoscopiche evoluzioni di suono appresso a brani pari a
monoliti, granitici, a tratti marziali quanto iniettati da soluzioni jazzistiche.
Qualcosa di davvero lisergico, tanto più grazie al contributo al mellotron di
un grande Reine Fiske, glorioso polistrumentista nei Dungen. Un esito che è
valso alla mente di molti l'appellativo di “best live band on the planet”.
Forse no, forse...
Diverso il caso di Bill
Callahan, alla memoria di molti chiaro con il moniker SMOG. Accompagnato da
una sola chitarra acustica e da una voce resa davvero magica dallo scorrere
degli anni e ora più che mai capace di bassi cavernosissimi, si è distinto per
dei live recital di gran spessore emotivo. Questo a raccontare come, anche
quando un musicista non si manifesta con un nuovo album o davanti a grandi
platee, possa lasciare un solco, un seminato che forse non apparirà chiaro al
momento, ma che prima o poi appirirà nella sua bellezza. Perché ci sono vite
che sanno brillare anche solo con un silenzio.
I The Soft Moon non hanno
licenziato un disco di particolare importanza nel 2018 ma la loro macchina
sonica ha raggiunto dal vivo una potenza comunicativa degna di nota. E' il loro
tribalismo a far la differenza. Una modalità personalissima che tiene conto
tanto della realtà dei rave party, quanto pianeta dark nelle sue declinazioni
non eteree. La sezione ritmica è il loro punto di forza, tanto nell'uso di
percussioni che per un basso elettrico assai solido e nelle migliori intuizioni
usato con abbondanti iniezioni funky. Il canto ha forte personalità
soprattutto nell'uso di uno stregonesco falsettone.
Da vedere.
Da poco i C'Mon Tigre hanno
licenziato un disco, ancora una volta di interesse assoluto, se vi capita di
vederli, li troverete più vitali e convincenti su un palco, che non tra le
pareti di uno studio. Allo stesso modo dicasi per i già citati I Hate My
Village.
IN MEMORIA:
Didier Lockwood - un breve omaggio
Lockwood, noto a qualcuno in quanto membro fondatore dei Magma,
è stato uno dei più grandi violinisti contemporanei, ma anche compositore e
direttore d'orchestra dalle qualità insondabili. In qualità di strumentista
quanto in quella di autore, ha segnato una pagina importante di una musica che
ha voluto abbattere barriere tra generi, portando il jazz prima e poi la classica ad accettare elementi provenienti
dalla musica rock. Il punto è che il
musicista francese, lo ha fatto con una cognizione di causa e una preparazione
che in pochissimi hanno mostrato. Questo gli è valso l'encomio dei più grandi
musicisti coevi in ambito jazz e rock, ma anche porte aperte nelle sale
da concerto "colto". Dalla sua immensa discografia andrò a segnalare
due titoli estranei al mondo del rock,
la “Suite Concertante Pour Violon Et Orchestre", per lui composta da
Jean-Philippe Vanbeselaere, nel 2010 e "Open Doors", buona pagina jazz-fusion
pubblicata nel 2017 assieme a Antonio Faraò, André Ceccarelli, Daryl Hall. Si
tratta di due capitoli che mostrano ampiamente quanto fervida fosse la vena del
musicista negli ultimi anni. Con quartetto citato in ultimo, il violinista ha
regalato alcuni bellissimi concerti nei primi giorni del 2018 (da ricordare
quello a Parigi, il 29 Gennaio), prima dell'improvvisa scomparsa.
Non essendo disponibili in rete video del 2018, ripiegherò su
altri, uno in quartetto del 2017:
Qui, a Vienna nel 2011 e in chiave appena più "avant",
assieme a Mike Stern, Dave Weckl, Tom Kennedy:
Lo straordinario tributo di “musica altra” a Django Reinhardt:
Mentre scrivevo questo articolo, nel Febbraio 2019, Mark Hollis
è scomparso e non solo dalle scene.
Mark Hollis - un
breve ritratto:
Tutti lo conoscono in modo più o meno diretto, come
autore coi Talk Talk di alcuni dei più sofisticati brani di synth pop,
genere del quale fu pioniere assieme e in maniera diversa, a John Foxx, Tears
for Fears, OMD, Eurythmics, Frankie Goes to Hollywood, Soft Cell, Depeche Mode.
La hit più
famosa della band, “Such a Shame”, nel 1984 stazionò nella top ten italiana per più di un mese.
A partire dal terzo album, “The Colour of Spring”
(1986), i Talk Talk iniziarono una parabola inaspettata e gestita alla
perfezione con altrettanto (e caso unico) riconosciuto plauso di critica e di
pubblico, in buona misura a posteriori e mai abbastanza in Inghilterra.
Le forme dei brani iniziarono a diventare più
articolate e vennero introdotti elementi desunti dalla musica blues/jazz
e da quella classica, in una modalità estremamente elegante, mai dimostrativa,
non trionfalistica, ma come a insinuarsi sotto il tessuto della materia sonica
e a destabilizzarlo nelle fondamenta. Nebulose soniche pari a pulviscolo, dal
quale emergono, improvvisi, volti in realtà sempre presenti, ma che non siamo
riusciti a vedere. In questo nuovo percorso, Hollis identifica la composizione
in musica con un fare pittorico. Grandi tele vengono dipinte anche con piccoli
inserti, tocchi indispensabili quanto le stesure massive (“April 5th”).
Dopo il significativo capitolo "Live in
London" dove la materia del suono, nota ai più, si espande
all'inverosimile nel cercare coesistenza tra melodia perfetta e sofisticata
forma, il percorso del combo giunge ad una definizione autenticamente
artistica, anche nella gestione della composizione tra gli studi di
registrazione, nell'album "Spirit
of Eden" (1988), considerato unanimamente uno dei capolavori della storia
della musica del tardo '900. Qui tutto diviene a fuoco, le forme si fanno
estenuate a dare importanza al silenzio quanto a veri pieni orchestrali. Forme
che si presentano con introduzioni atonali e cameristiche simili ad
avvertimenti (“Eden”, “Desire”, “The Rainbow”). La critica parla di slow core (un genere di cui si faranno
alfieri i Codeine e i Low su tutti (questi ultima anche tra i protagonisti di
questo lungo articolo). A posteriori si dirà che da questo disco ha avuto
origine il post-rock,
movimento a cui aderiranno formalmente June of 44, Tortoise, Rachel's,
Stereloab (tra i più nomi più aderenti alle geometrie soniche del filone, di
cui pure faranno parte la deriva più psichedelica dei Bark Psychosis e le
dilatazioni nordiche/paesaggistiche dei Sigur Ros). In realtà si tratta di
qualcosa di non codificato e non codificabile. Un perfetto equilibrio tra forma
canzone e sinfonismo figlio del minimalismo di fine anni '70/primi '80 e non
estraneo al post-modernismo di quegli anni, del quale non viene accolta la
tendenza a mostrare i generi in quadri isolati, cosa più affine all'estetica
del progressive
rock.
La forma canzone scomparirà quasi del tutto
nell'ancora più estremo “Laughing Stock”, del 1991 (“Myrrhman”, “After
the Flood”, “New Grass”), anche in questo caso si deve parlare di capolavoro,
dall'afflato più estenuato, carattere monolitico e da sussulti che si fanno
lacerazione della forma in “Tapehead”. Come osservare con attenzione un dipinto
di Caspar David Friedrich, nell'ambiente intimo del proprio agito.
La carriera dei Talk Talk si interrompe e inizia
quella solista di Hollis, che in realtà darà alle stampe un unico album (omonimo, nel 1998) di
cantautorato cameristico estremamente bilanciato nel rendere un recital spoglio
e con improvvise increspature a innestare la materia sonica in inflorescenze
rigogliose (“A Life 1895 – 1915”, “The Gift”) . E'un disco dove è il silenzio
ad aprire la prima traccia (“The Colour of Spring”, a riprendere il titolo
dell'album della svolta), come un invito
diretto a chi ascolta e manifesto programmatico. Il disco diviene un classico
del genere da accostare (se proprio necessario) a quelli dei più grandi alfieri
dello sparuto nugolo di musicisti che lo hanno avvicinato con stessa intensità
intimista, Robert Wyatt, il Peter Hammill meno verboso, John Cale, il
primissimo Gavin Friday, David Sylvian e poi, Kate Bush nella maturità (50
Words for Snow), giusto per fare alcuni nomi. Una gemma che curiosamente chiude
anche una parabola artistica, se si eccettuano sparute partecipazioni a dischi
altrui.
Non viene annunciato alcun tour promozionale, di Hollis si
perdono le tracce (le collaborazioni, avvengono sotto pseudonimo). Si è
trattato in realtà di un addio progressivo andato consumandosi con la
definizione della maturità creativa.
Tra le poche tracce pubblicate in futuro il solo
tema di “ARB Section 1” (2012), era già rivelatore di “altro dove”, ma è
“Smiling & Waving” (2001) con Anja Garbarek ad essere parto compiuto e
degno d'assoluta attenzione, tale da rifondare in modo compiuto l'idea originaria
di Canterbury Sound. In molti come me, hanno auspicato un ritorno a lui solo
accreditato, ma probabilmente era avvenuta consapevolezza di un cerchio chiuso,
cosa certo riscontrabile nei solchi di “Laughing Stock” e del disco solista.
Chi come il sottoscritto però, fatica a trovare degni alfieri di materia così
nobile, difficilmente è riuscito ad accettare questo abbandono.
C'è qualcosa che
sfugge oggi nella valutazione del percorso di Mark Hollis e forse è meglio
così, che rimanga sfuggente, perché domani ci sarà ancora da indagare e con il
tempo che un ascolto così importante richiede. Anzitutto io non resto sorpreso
di come un uomo che ha fatto del rispetto del silenzio in musica, non
provocatorio (Cage è altra cosa), oggi per il silenzio con cui dal mondo della
musica si è tenuto in disparte, venga ricordato. In seconda istanza, dischi
come "Spirit of Eden" e "Laughing Stock", da decenni sono
culto per ogni musicista che abbia orecchie. Chi scrive di "fiasco
commerciale" parla di un primo responso di pubblico, ma a posteriori quei
dischi hanno venduto centinaia di migliaia di copie, il che vuol dire che sono
entrati in centinaia di migliaia di case, cosa oggi neanche immaginabile per un
disco di successo medio. Non solo, credo proprio nel suo disco solista
alberghino i semi di un'intimità universale ancora più grande e in questo caso,
per molti ancora da scoprire, per tanti, da rivalutare.
Ti ho aspettato 21
anni nella speranza di un nuovo album, un rientro (forse e anche) “altro”, quel
miracolo che solo a Scott Walker è spettato. Curiosamente, nell'averti perduto,
Mark Hollis, è stato come averti ritrovato con un'intensità inaudita.
"Mark
Hollis", il disco solista: https://open.spotify.com/artist/1dKzjmxVJw8SSE0LVxW2Dp
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