Usciva i primi giorni di
luglio del 1970 l'album dei Traffic
"John Barleycorn Must Die",
capolavoro della musica rock-jazz-prog-etno-blues.
Di Paolo Madeddu
A volte per
raggiungere un obiettivo ci si deve muovere in direzione opposta. Nel 1970 il
22enne Steve Winwood, enfant prodige coccolato come un gattino dal boss della
Island Chris Blackwell, riuscì dopo 4 anni di tentativi a fare dei Traffic il
proprio gruppo. E non solo: per imporre il proprio
modernissimo jazz-rock il fanciullo di Birmingham si ritrovò ad usare come cavallo di Troia una
ballata scozzese del 1400.
I Traffic si erano
sciolti dopo i sovrumani sforzi di far convivere sotto lo stesso tetto Winwood
e Dave Mason, confezionatore di “hit” adatti ai mutevoli umori degli anni ‘60: dalla fantasmagorica psichedelia
di “Hole in my shoe” al gagliardo
blues-rock di “Feelin’ alright”. Ma il
ragazzo-prodigio attorno al quale era stata costruita la band assisteva
insofferente, incapace di andare verso il pubblico come Mason, e del tutto
allergico agli ingredienti principali del pop: strofa, ritornello e minutaggio
contenuto. La tensione aveva indotto lo stesso Mason a fare fagotto, ma un
Winwood demotivato aveva già deciso in cuor suo che nonostante l’amicizia con Jim Capaldi e Chris
Wood, i Traffic non erano la sua band. Rispettato il contratto, col mesto
epitaffio intitolato perentoriamente “Last exit”, si era fatto coinvolgere dai “supergrupp” in voga all’epoca: i Blind Faith (Eric Clapton, Ginger Baker e Rick Grech), e poi gli
Air Force (lo stesso Baker, Grech, Denny Laine e il ritrovato Wood). I
risultati un pò grigi lo fecero optare per la carriera solista, anzi,
solipsista: un disco intitolato “Mad shadows” in cui avrebbe suonato tutti gli strumenti, libero
finalmente da soci ingombranti.
A questo scopo, si
trovava in studio con un brano intitolato “Stranger to himself” - quando cominciò ad avere dei problemi. Intanto, i testi non gli venivano di getto -
anzi: le pagine ostinatamente bianche finirono per ispirargli “Empty pages”. Preoccupato, chiese
aiuto a Jim Capaldi. Il quale lo raggiunse, e già che c’era mise anche
mano alla batteria per “Every mother’s son”. Ma mancava ancora qualcosa,
il sound era insipido. Di qui, la svolta: via il produttore Guy Stevens,
sostituito da Blackwell in persona. A questi parve che un sax e un flauto
avrebbero rappresentato un contrappunto ideale per le lunghe escursioni strumentali
che Winwood aveva in mente: perché non chiamare il fido Chris Wood? E la
scintilla a lungo attesa scoccò.
Wood accettò di non
firmare alcun pezzo (mentre a Capaldi furono riconosciuti i diritti per i
testi), ma il suo contributo fu enorme: impossibile immaginare l’irresistibile suite strumentale “Glad” senza l’apporto del
suo sax. Impossibile concepire la suadente bellezza di “John Barleycorn” senza il suo flauto a dare profondità. E’ impossibile per Winwood arrivare
senza Wood a tale brano, un’antica canzone
sulle virtù del malto che già aveva colpito l’Immaginazione del poeta Robert Burns e dello scrittore Jack
London. Stando a Capaldi, “Un giorno
Chris si presentò con un
disco dei Watersons, un gruppo folk. Era una raccolta di antiche ballate
intitolata “A
calendar of frost and fire”. Fu quello a darci la spinta verso la seconda vita
dei Traffic... Steve era il leader dei Traffic, questo è sempre stato fuori discussione, ma
Chris era magico. Aveva
lo spirito, l’anima e
le orecchie per captare certe cose, e far diventare “John Barleycorn” un pezzo che lasciò senza fiato migliaia di americani”.
Così, la tradizione
folk britannica che già si stava affacciando dai solchi di Jethro Tull e Led
Zeppelin, ottenne ulteriori, autorevoli divulgatori. “John Barleycorn”, lunga e
carezzevole, spiccava in mezzo a un disco che miscelava sonorità di tutt’altro stampo. La voce di Winwood,
adagiata su una delicata sequenza di accordi, raggiungeva (come già era successo in “Can’t find my way home” dei Blind Faith) picchi evocativi “da mozzare il fiato” non solo agli americani, ma anche agli italiani (tra
cui, malauguratamente, anche Salvatores, che ne ha fatto un uso alquanto
balordo in “Nirvana”).
A quel punto, i
Traffic erano davvero vivi e frementi come mai in vita loro. Da una specie di
jam-session continuata, nella quale Winwood decise di fare a meno delle
chitarre e concentrarsi sui dialoghi tra tastiere e fiati, nacquero i tre brani
che non a caso costituirono la prima facciata del disco: la già citata “Glad”, la splendida “Freedom rider”, la ricca “Empty pages”
(con due organi suonati da Wood e Winwood, e quest’ultimo impegnato anche in un sontuoso
assolo di piano elettrico).
Il disco venne chiuso
così, con tre pezzi per lato. Per molti, questo sound “espanso” e carico di promesse,
improvvisato ma all’interno di una
struttura riconoscibile come quella di una canzone, fu una folgorazione: “John Barleycorn must die” fu il primo passo verso l’esplorazione di quei territori
chiamati jazz-rock, e descritti come un Eldorado. In realtà le spedizioni,
anche per gli stessi Traffic, fruttarono carichi di spezie, ma niente oro: più
ci si allontanava dal vile rock, per incentivare la più aristocratica
inclinazione all’improvvisazione,
e più si dava la sensazione di
accompagnare il can per l’aia. Alla fine degli anni ‘70, con una certa frustrazione,
Winwood lasciò perdere, e nel descrivere un “Arc of a diver” tornò a muoversi con un equipaggiamento non molto elegante - ma
così utile: strofa, ritornello e
minutaggio contenuto.
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