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mercoledì 3 dicembre 2025

Il 28 novembre 1978 ci lasciava Federico D'Andrea, cantante dei Libra

 

Il 28 novembre 1978 a Roma un’auto travolge e uccide il trentenne cantante, chitarrista, polistrumentista e autore Federico D’Andrea, uno dei personaggi più interessanti del rock progressivo italiano degli anni Settanta.

La sua esperienza artistica inizia quando, diciottenne di belle speranze lascia la Toscana e se ne va nella capitale. Qui, dopo aver fatto parte degli Ancients di Manuel De Sica, forma il duo dei Myosotis con Stefano Marcucci. Nel 1972 diventa il cantante e chitarrista dei Logan Dwight, una band che, nonostante la sua breve vita, verrà ricordata negli anni successivi come uno snodo importante nello sviluppo della scuola romana di rock progressivo. Dopo lo scioglimento del gruppo inizia a prendere forma l’esperienza, per molti versi straordinaria, dei Libra. Ne sono protagonisti, oltre a lui, il tastierista Sandro Centofanti, già suo fedele compagno nei Logan Dwight, il chitarrista Nicola Di Staso, il bassista Dino Cappa e il batterista David Walter. L’esordio discografico del gruppo avviene nel 1975 con Musica e parole un album particolare perché, in un periodo in cui quasi tutti i gruppi del progressive italiano si rifanno al pop sinfonico inglese, guarda al funky nero d’oltreoceano e al jazz. La band, che poco dopo l’uscita del suo primo disco ha sostituito David Walter con l’ex batterista dei Goblin Walter Martino, ottiene consensi dalla critica e, soprattutto, attira l’attenzione del mercato statunitense.

Federico D’Andrea e i suoi compagni partono, quindi, per una lunga e fortunata tournée negli Stati Uniti al fianco di monumenti del rock di quel periodo come gli Steppenwolf, i Tubes e Frank Zappa. Il momento felice è sottolineato anche da un contratto discografico con la leggendaria etichetta nera Tamla Motown che pubblica, nel 1976, il secondo album del gruppo Winter day’s nightmare

L’esperienza statunitense non porta fortuna ai Libra che, quando tornano in Italia, sono già attraversati dalla crisi che sfocerà nello scioglimento. Federico D’Andrea si dedica sempre più intensamente a progetti solistici che mettono in evidenza, oltre alla sua voce duttile, un gusto particolare per le armonizzazioni di taglio jazzistico. La sua morte interrompe una ricerca appena iniziata. È difficile capire quale sarebbe stata la sua evoluzione negli anni Ottanta, quel che è certo, però, è che con lui il rock italiano perde uno dei suoi migliori, anche se meno appariscenti, protagonisti.





martedì 2 dicembre 2025

2 dicembre del 2012: i Led Zeppelin alla Casa Bianca


Per favore, non devastate la Casa Bianca


Con questa scherzosa frase il presidente americano Barack Obama riceve i Led Zeppelin il 2 dicembre 2012 alla Casa Bianca, per conferire loro il “Kennedy Center Honors” per meriti artistici.

Quando il gruppo delle Hearts - con Jason Bonham alla batteria - esegue “Starway to Heaven”, Robert Plant non riesce a trattenere le lacrime.

Di tutto un Pop

Wazza

Il 2 dicembre del 2012, l’allora Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama ospitò i Led Zeppelin alla Casa Bianca in occasione della trentacinquesima cerimonia dei Kennedy Center Honors. Cinema, televisione, musica e danza furono i protagonisti dell’evento; atto a premiare i massimi esponenti dell’arte dello spettacolo. Tra i premiati di quell’edizione ci furono: il presentatore David Letterman, l’attore Dustin Hoffman, Robert Plant, Jimmy Page, John Paul Jones, la ballerina russa Natalia Makarova ed il leggendario bluesman Buddy Guy.

La cerimonia si sviluppò nel corso di quel week end. I vincitori presero parte ad una cena di gala presieduta da Barack Obama alla Casa Bianca, alla quale vennero invitati anche il segretario di Stato Hillary Clinton ed il marito Bill. Il giorno seguente, i festeggiamenti vennero spostati al Kennedy Center; dove i premiati vennero omaggiati da star dello spettacolo come: Meryl Streep, Robert De Niro, Morgan Freeman, Lenny Kravitz, Foo Fighters, Kid Rock, Heart ed altri grandi artisti.


Nel corso della serata, il presidente degli Stati Uniti, non si è riservato dal fare qualche battuta sugli invitati; sottolineando la bellezza del momento e, quanto fosse stato per lui importante riunire persone fondamentali per la storia, non solo del paese, ma soprattutto della cultura moderna, sullo stesso palco, senza un apparente motivo che li accomunasse.


LE PAROLE DI BARACK OBAMA PER I LED ZEPPELIN

Quando i Led Zeppelin hanno calcato la soglia dei primi palchi al tramonto degli anni ’60, il mondo dimostrò di non essere ancora pronto a tutta quella potenza. C’era un cantante che riuscì a far innamorare le platee come nessun altro con il suo carisma e la sua poderosa voce. Un prodigio della chitarra che mandava il pubblico in visibilio, un bassista versatile che si sentiva a casa con qualsiasi strumento e un batterista che suonava come se la sua vita dipendesse solo dalla forza della sua musica”.


Sappiamo che la musica dei Led Zeppelin ha salvato un’intera generazione dalla tirannia dei propri avi; ma ciò che più mi sconvolge e mi rende orgoglioso, è il fatto che, nonostante John Bonham sia ormai tragicamente scomparso da molti anni, lo spirito dei Led Zeppelin continui ad ardere indomito. Ognuno di noi – aggiunge – ricorderà sicuramente, almeno un momento in cui queste persone hanno toccato la nostra vita. Questi artisti ci hanno permesso di vedere le cose in modo diverso, ascoltare in modo differente ed apprezzare tutta la bellezza che la vita offre”.


Il presidente concluse il suo discorso in maniera scherzosa, ringraziando la band per aver reso la serata magnifica con la sua presenza e pregando gli Zeppelin di non distruggere le camere della Casa Bianca come il gruppo era solito fare negli alberghi in cui erano ospiti nel corso dei loro tour all’insegna degli eccessi e della dissolutezza.




lunedì 1 dicembre 2025

Gentle Giant: il 1° dicembre 1972 usciva “Octopus”

The boys at Niagara Falls, 1972

Terminato il tour mondiale come “supporter” dei Jethro Tull (con visita alle cascate del Niagara...) i Gentle Giant, il 1° dicembre 1972 pubblicano l’ennesimo capolavoro, “Octopus”.

Di tutto un Pop…

Wazza

Quarto degli undici album di studio pubblicati dal Gigante Gentile, tutti entro la decade 1970/1980, “Octopus” è l’opera più nota, diffusa, celebrata e ricordata qui in Italia, a simbolo del loro momento magico presso di noi, quando se la giocavano alla pari con Pink Floyd, Yes, Emerson Lake & Palmer e Genesis da una parte (tutti in procinto di diventare ricchi e famosi) e Van Der Graaf Generator e King Crimson dall’altra (invece con un futuro, similmente a loro, circoscritto a semplice culto per appassionati e palati fini). Il progressive al tempo tirava da matti e quest’album stava dunque in cima alle classifiche italiane di vendita accanto a quelli, che so, di Lucio Battisti e Deep Purple, mentre la migliore formazione italiana dell’epoca, la Premiata Forneria Marconi, era in sostanza una devota combinazione fra loro ed i King Crimson…

Tempi irripetibili, ma “Octopus” riesce ad avvincere ancor oggi buona parte dell’ala più sofisticata e colta dei consumatori di musica. L’incontro e l’adattamento reciproco fra i sei musicisti che costituiscono la formazione ha dell’incredibile e dell’irripetuto, costituendo la peculiarità indubbia del suono Gentle Giant: avvenne a fine anni sessanta che tre fratelli dediti al rhythm&blues (Phil, Derek e Ray Shulman), ai quali si erano aggregati un chitarrista blues ed un batterista jazz (rispettivamente Gary Green e Martin Smith) sostanzialmente si misero nelle mani di un talentuosissimo compositore e multistrumentista di stretta educazione classica (Kerry Minnear), ben addentro anche alle cose del jazz ma piuttosto a digiuno di pop, rock e simili. Soprattutto, in possesso di preparazione ed inclinazione smisurate per il contrappunto, la poliritmia e la polifonia, applicati indifferentemente a strumenti, percussioni e voci.

Il fenomenale Kerry (in verità aiutato da Ray Shulman, in possesso a sua volta di ottimo talento compositivo) era una fucina di articolate e colte partiture melodiche, armoniche e ritmiche, di buon grado assimilate dai compagni, pur provenienti da contesti assai più popolari e “grezzi”. Questo grazie innanzitutto alla condivisa, generale apertura mentale ma non secondariamente a indispensabili, copiose doti di “orecchio”, fluidità e precisione esecutiva.

La proposta dei Gentle Giant prevedeva la piena azione di ben quattro voci e decine di strumenti (veri strumenti a corda, ad ancia, a tastiera e a percussione, in tempi in cui coi sintetizzatori si era ancora agli inizi e ci si tiravano fuori pochi suoni). Il solo Minnear era in grado di allungare le mani su pianoforte elettrico e acustico, organo, vibrafono e xilofono, mellotron, sintetizzatore, clavicembalo e clavinet, violoncello, flauto, oboe, percussioni… ma in concerto non si faceva scrupoli ad imbracciare anche una Fender Stratocaster, od a sostituire sporadicamente Ray Shulman al basso quando quest’ultimo era alle prese con violino, chitarra o tromba…

Del tutto peculiare anche il discorso sulle voci: arrangiate spesso e volentieri in contrappunto né più né meno come gli strumenti, costituiscono una caratteristica pressoché unica nella storia della popular music occidentale, che ci ha abituati da sempre a parti corali armonizzate grosso modo per terze e quinte, quasi sempre all’unisono o al più organizzate a botta e risposta. Non può che stupire, oggi più che mai, l’immersione nel lussureggiante canto contrappuntistico del Gigante Gentile, dove i cosiddetti “cori” sono spesso e volentieri un trafficato guazzabuglio di temi ad incastro con melodia, accento e divisione in battute autonomi, ciclicamente a convergere in improvvisi “nodi” per poi subito di nuovo divergere, per un effetto finale di sublime dinamica, vero cibo per le orecchie dell’appassionato.


Derek Shulman - Gentle Giant 1972

Chiunque si sia limitato a considerare l’inserto operistico architettato da Freddie Mercury nel celebre brano dei Queen “Bohemian Rapsody” come il massimo del virtuosismo corale applicato al rock, dovrebbe rivedere i suoi convincimenti anche solo dopo l’ascolto di “Knots”, quarta traccia di quest’album e ottimo esempio dell’estro e dell’eccellenza vocale della formazione: quattro voci a stratificarsi ed inseguirsi, prima a cappella e poi con preziosi intarsi di xilofono, violino, percussioni, basso, chitarra... Del tutto spettacolari, in particolare, i borbottii ad inseguimento sfocianti in un unico, distensivo, appagante corale; un vero caos organizzato coi quattro cantanti che riescono a tenere ciascuno la propria partitura e giungere a tempo al “nodo” finale, senza fuorviarsi l’uno con l’altro (beninteso, il brano era una delle colonne imprescindibili delle loro esibizioni dal vivo, nelle quali era riproposto pedissequamente e senza alcun problema).

Delle ugole a disposizione del gruppo, quella di Derek Shulman era la principale, la più potente ed estesa (ed anche la meno condizionata, specie sul palco, da contemporanei, complessi impegni strumentali), ma la più bella in assoluto resta quella di Minnear: un timbro che viene da altre epoche, elisabettiano, barocco, sorprendentemente lontano da qualsiasi stereotipo del nostro tempo. Zero swing, zero blues, zero rock, zero jazz in uno stile invece madrigalesco, rinascimentale, delicato e massimamente evocativo.

Il disco si apre proprio colla voce d’altri tempi del tastierista, che nel prologo della magnifica “The Advent of Panurge” va a descrivere un’ampia melodia e poi a raddoppiarla, a turno contrappuntandola o armonizzandola in un tripudio di quarte, seste e none d’alta scuola. Il brano prende poi consistenza strumentale e va ad appoggiarsi su di un pianoforte sincopato e veemente che detta la strada, comanda gli stop&go, stabilisce un’atmosfera carica di tensione e potenza, prende a duettare con una chitarra altrettanto risoluta. Si sta infatti rappresentando il gigante Gargantua, di Rabelaisiano estro, ed il suo incontro con il futuro amico della vita, Panurge. Tra continui cambi d’atmosfera, intarsi di tromba, pause distensive affidate ai corali, la canzone gode di una ricchezza e contemporaneamente di un equilibrio immani, il tutto in nemmeno cinque minuti di durata.



GENTLE GIANT - CIAO 2001 - MARZO 1972


Il mio brano favorito dell’album si è rivelato comunque essere, con l’andar degli anni, “Dog’s Life”, in virtù di una bellissima melodia (intonata da Phil Shulman ed appoggiantesi sulle sapienti chitarre acustiche di Green e di Ray Shulman) che riesce a non stancarmi mai: tre minuti magici, senza la complessità strutturale e ritmica degli altri episodi adiacenti, eppure di classe immensa grazie anche alla voce di Phil, ben distinguibile da quella degli altri per la sua precipua carica ironica. Altro episodio abbastanza lineare è “Think of Me With Kindness”, delicatissimo lento quasi solo pianoforte e voce (ancora di Minnear, più eterea e rarefatta che mai) in stile tutto sommato tradizionale, da ballata quasi pop, vicina grosso modo ai Genesis. Al suo esatto opposto, il vorticosissimo strumentale “The Boys in the Band”, una prova d’eccellenza dell’abilità strumentale del gruppo (arrangiativa, esecutiva e comunicativa, a partire dal prologo con la ripresa di una monetina gettata su di un tavolo e fatta vorticare fino a fermarsi).

“Raconteur Troubadour”, infine, può essere presa a buon esempio della capacità metamorfica del gruppo, in grado di passare dall’allestimento rock a quello cameristico anche più volte nella stessa canzone: con Ray Shulman al violino, Minnear al violoncello o all’harpsicord simulante un clavicembalo, Phil al flauto o a qualcun altro dei suoi fiati, più qualche leggera percussione al contorno, il Gigante Gentile ci ha lasciato bellissime pagine musicali molto più vicine alla concezione classica che a quella rock, facendo in particolare svettare in questi frangenti il violino di Ray Shulman (strumentista superbo, ancor di più al basso elettrico, senz’altro partecipante anch’esso al festival del contrappunto, con linee melodiche intricatissime e malgrado questo un’immutata, miracolosa potenza ritmica).



Due sono le ragioni principali del salto di qualità, in termini di riscontro critico e commerciale, fatto al tempo dal Gigante Gentile con questo quarto album: la prima è l’essere riusciti a contenere in otto canzoni di durata normale, eccezionalmente ben arrangiate, varie ed equilibrate, la loro proposta progressive invero sofisticata e impegnativa. La seconda è il cambio di batterista: fra tanti fini dicitori e arzigogolate esecuzioni, l’intuizione di affidarsi ad un solidissimo e pulito pestatore rock (John Weathers, appunto al suo esordio in quest’album e poi con i Giant fino al loro scioglimento), dopo un paio di batteristi molto bravi ma con molta meno “spinta”, fu ottima idea. Weathers rende il tutto molto più lineare, potente, definito, in definitiva meglio “digeribile” ed efficace per il pubblico del rock.

Beh… a riflettere ulteriormente, anche la vistosa copertina giocò un buon ruolo nella diffusione del disco. È indubbiamente una delle opere che meglio si ricordano dell’immaginifico Roger Dean, artista al tempo ricercatissimo dai discografici per dare valore aggiunto alle registrazioni degli artisti sotto contratto. Alle prese, come il solito, con aerografo e pennelli (niente computers al tempo), ma per una volta con una creatura perfettamente terrestre (e non la classica via di mezzo fra mitologia e fantascienza, come a lui d’uso) Roger, ispirato logicamente dal titolo dell’album, tira fuori una magnifica rappresentazione del curioso animaletto provvisto di otto tentacoli, una per ciascuna delle canzoni dell’album. Un grande, Roger Dean… spero per inciso che gli stiano arrivando parecchi diritti d’autore sia per le montagne sospese che per buona parte della flora e fauna aliena, in bella mostra nel kolossal “Avatar”: tutta farina esclusiva del suo sacco, farina degli anni settanta, riciclata in quest’epoca tecnologica ma stitica, nella quale un gruppo geniale, originale, brillante e sofisticato come i Gentle Giant possiamo sognarcelo, o meglio rimpiangerlo mentre ci ascoltiamo per la centesima volta “Octopus”. 


 


Nasceva il 1° dicembre del 1951 Jaco Pastorius


Nasceva il 1° dicembre del 1951 Jaco Pastorius: è stato un bassista, compositore e produttore discografico statunitense di jazz, fusion e funk, annoverato tra i più grandi bassisti di tutti i tempi e tra le figure simbolo del genere fusion.


Suonava generalmente un basso elettrico fretless, sul palco aveva anche un basso provvisto di tasti. Nonostante la brevità della sua carriera, ha determinato una rivoluzione totale per quanto riguarda il suo strumento: con il suo stile particolare è riuscito a caratterizzare il basso come solista e ridefinire il ruolo del basso elettrico nella musica, suonando simultaneamente melodie, accordi, armonici ed effetti percussivi. Per numerosi bassisti anche non inerenti al jazz (dal pop al rock) è un importante punto di riferimento.


La sera dell'11 settembre 1987 Pastorius si trovava al Sunrise Musical Theatre di Fort Lauderdale al concerto dell'amico Carlos Santana. Durante l'esibizione, dopo un assolo del suo collega Alphonso Johnson, Pastorius salì sul palco e sollevò la mano del bassista alla maniera degli arbitri di pugilato quando decretano il vincitore di un incontro. Fu però accompagnato all'uscita dagli addetti alla sicurezza, che non lo riconobbero. Pastorius si diresse quindi al Midnight Bottle Club, un locale nella periferia della città.



A causa del suo evidente stato di ebbrezza gli venne negato l'ingresso nel locale da parte del buttafuori esperto di arti marziali Luc Havan, un rifugiato vietnamita. Scoppiò una rissa e quando alle quattro del mattino arrivò la polizia, Jaco era steso a terra privo di sensi con il viso rivolto verso la pozza del suo stesso sangue. Havan, il buttafuori, sostenne di aver spinto Jaco, il quale era caduto battendo la testa. Il verbale della polizia riporta la perdita di conoscenza per un violento trauma cranico.

Fu immediatamente trasportato al Broward County General Medical Center, dove rimase in coma fino al 19 settembre, quando un importante vaso sanguigno del cervello si ruppe causandogli la morte cerebrale. Il 21 settembre i familiari decisero di interrompere il funzionamento dei macchinari che mantenevano il corpo in vita. Il battito durò per altre tre ore, fino alle 21:25, orario in cui venne dichiarato il decesso. Il funerale si tenne il 24 settembre a Fort Lauderdale. Havan venne accusato di percosse aggravate e pagando una cauzione di cinquantamila dollari venne rilasciato. (Wikipedia)



domenica 30 novembre 2025

Simon & Garfunkel: era il 30 novembre 1969

Il 30 novembre 1969, dopo il successo di “The Boxer” e “Bridge Over Troubled Water”, Paul Simon e Art Garfunkel registrano uno special TV, inserendo filmati del funerale di Robert Kennedy, della guerra in Vietnam, l‘inedita “Cuba sì, Nixon no”… troppo per i “bigotti” sponsor e funzionari TV. Morale della favola il programma fu censurato e non venne mandato in onda!

Di tutto un Pop…

Wazza


Simon & Garfunkel, East 58th Street, New York, 1969

Il 30 novembre 1969, Simon & Garfunkel appaiono nel loro primo speciale televisivo. Proiettano le riprese del funerale di Bobby Kennedy e della guerra del Vietnam; tutto questo porterà lo sponsor originale AT&T a dissociarsi dal programma…





"The Wall": era il 30 novembre 1979


Usciva il 30 novembre 1979 "The Wall", uno dei punti più alti raggiunti dai Pink Floyd e dalla musica progressive..
L'idea venne a Roger Waters, dopo una lite con alcuni spettatori durante un tour in Canada.
La voce del bambino che si sente in "Goodbay blue sky" è di Harry Waters, figlio di Roger.
Richard Wright appare in veste di ospite… all'inizio del progetto aveva abbandonato la band a causa dei continui litigi con Waters.
In Italia ha venduto più di un milione di copie.
…di tutto un Pop
Wazza 


Si prova la scena di "Mother" , dal film The Wall

Il 30 novembre 1979 esce  " The Wall ", doppio Lp dei   Pink Floyd . L'uscita discografica assume immediatamente i connotati di evento planetario ed epocale, certamente uno dei più importanti eventi della storia del rock. Il disco del muro, dei mattoni entra nella vita e nell'immaginario di milioni di persone. Un mito che si trasmetterà di generazione in generazione fino ai giorni nostri. A oltre 30 anni dall'uscita si contano circa 30 milioni di copie vendute, numero impressionant e per un disco doppio. I temi contenuti nell'album sono le vicende personali di Roger Waters. "The Wall" è soprattutto un disco dove Waters ha proiettato le numerose inquietudini e problematiche personali.

Contenuti che verranno successivamente rappresentati nella versione cinematografica del film di Alan Parker "The Wall". La storia è di Pink che è una rockstar che durante un massacrante tour sta consumando il rapporto con la moglie. Nelle lunghe giornate passate in solitudine in una anonima stanza di albergo tra un concerto e l'altro, Pink, nel vano tentativo di mettersi in contatto con la moglie, rievoca i fantasmi della sua esistenza, la morte del padre in guerra, l'infanzia difficile stretta tra l'atteggiamento iper-protettivo della madre e l'indottrinamento da parte di professori psicopatici. Simbolicamente le difficoltà e i traumi esistenziali diPink vengono rappresentati come mattoni che vanno a costruire un muro di isolamento che lo allontanano dalla realtà, fino a un completo isolamento. Pink capisce che potrà vincere la propria solitudine in un solo modo: deve analizzare la propria vita. Così si apre un processo mentale che lo porta ad abbattere il muro, eliminando le proprie difese ed esponendosi - nudo - ai propri simili. L'album si chiude con la ballata "Outside The Wall", poesia delicata, dal tono introspettivo, in cui Waters spiega come sia difficile rimanere sempre sani di mente: "Da soli, o in coppia, gli unici che realmente ti amano passeggiano su e giù fuori dal muro.
Alcuni mano nella mano e altri radunati insieme in comitive.
I cuori teneri e gli artisti oppongono resistenza.
E quando ti avranno dato tutto alcuni barcolleranno e cadranno, dopo tutto non è facile, sbattere il tuo cuore contro un muro di pazzi... »
Il brano "Comfortably Numb" è senz'altro il brano dell'album che più di tutti gli altri suscita emozioni profonde.



sabato 29 novembre 2025

Vesuvius - “Twisted tales from warped minds”-Commento di Alberto Sgarlato

 


Vesuvius - “Twisted tales from warped minds”

(ristampa Black Widow Records, 2025) 

di Alberto Sgarlato

 

Nel variegato mondo del “classic rock” in tutte le sue sfumature e sottogeneri, l’etichetta genovese Black Widow Records ha saputo, nei suoi gloriosi 35 anni di attività, conquistare l’attenzione del pubblico focalizzandosi su una nicchia ben precisa: l’anima più cupa, dark, tormentata delle varie correnti prese in esame, che si tratti di prog-rock, psichedelia o del mondo hard rock ed heavy metal. Tutto ciò attraverso un sapiente mix tra produzione e distribuzione di nuove band, pubblicazioni di nuovi lavori firmati da artisti sulla breccia da decenni e preziose riscoperte di “perle” rarissime che diversamente, senza questo certosino lavoro di ricerca filologica, avrebbero rischiato di andare irrimediabilmente perdute.

Ma la band qui presa in esame esce un po’ da questo schema, grazie alla capacità di innestare, sulla base dark-prog/psych facente parte, come detto, del marchio di fabbrica della label, gustose sfumature virtuosistiche di prog barocco, momenti di sanguigno hard-rock, fiabesche rarefazioni acustiche di folk psichedelico e persino un certo istrionismo enfatico e teatrale tipico del glam.

Loro si chiamano Vesuvius, e già il nome potrebbe indurre a equivoci: non stiamo parlando, infatti, né della band canadese dell’Ontario attiva da una dozzina di anni, né di una band statunitense di AOR (rock melodico radiofonico) che ha dato alle stampe solo un paio di titoli tra il 1988 e il 1990, né dei death-metaller californiani prossimi al loro venticinquennale di carriera, né della band di fantasia (di fatto mai esistita) protagonista del film comico “The rocker”.

Ebbene sì, Vesuvius è un nome evidentemente diffuso nel rock e purtroppo ciò può essere motivo di confusione. Questi Vesuvius di cui andiamo a parlare oggi sono una band dal passato veramente oscuro e misterioso: della loro storia si sa soltanto che sono stati fondati nel Nord-Ovest dell’Indiana e che hanno prodotto pochissimo materiale attorno alla metà degli anni ‘70. Nei vari brani i componenti si avvicendavano nel ruolo di cantante solista e ciò contribuiva a dare una variegata e affascinante coloritura timbrica alle singole tracce. La formazione comprendeva Tom Havens (chitarre elettriche e acustiche, voce solista e cori), Kevin Lazar (flauto, sax alto & soprano, voce solista e cori), Joe Shingler (tastiere, voce solista e cori), Roger Hutchins (basso, voce solista e cori) e Greg Shaginaw (batteria e percussioni).

Black Widow Records ristampa oggi il loro unico album dal titolo “Twisted tales from warped minds”, arricchito da svariate bonus tracks e rarità, alcune delle quali contano dei cambi di formazione soprattutto tra i bassisti (a Hutchins subentrano Dominic Povlinsky e poi Joe Maxin) e i chitarristi (Donny Augistino e Rick Scobey, quest’ultimo anche cantante).

E ora strappiamo il sigillo della splendida, orrorifica copertina dallo stile fumettistico (ve li ricordate gli albi firmati da Stan Lee che in Italia uscivano come “I racconti di Zio Tibia”? Ecco, la grafica potrebbe ricordarli parecchio) e sveliamo il contenuto musicale.

Logic of the lunatic” per il sapiente intreccio di chitarre, il cantato di gusto folksy e il flauto “saltellante” potrebbe richiamare alla memoria un cocktail di Jethro Tull e Strawbs, con qualche momento più distorto verso il finale.

Con la brevissima “Miss Mary” ci spostiamo su territori hard-rock nei quali la chitarra, il sax e il Moog incrociano i loro riff costruendo un pauroso muro di suono, sul quale riecheggiano eccellenti armonie vocali.

Ancora un brano breve, sui 3 minuti, “Gazing at reality”, fortemente debitore nei confronti di The Who nel suono della chitarra ad accordi pieni, ma impreziosito da spettacolari virtuosismi di Minimoog e di Hammond che potrebbero richiamare alla mente gli Styx dei primissimi album, quando ancora sperimentavano e flirtavano col prog, prima della graduale deriva verso il pomp-rock da stadio e l’AOR.

Edward the mad grave digger” (letteralmente “il becchino pazzo”), introdotta da un preambolo di una ventina di secondi di rumori tenebrosi, ci riporta al godurioso folk-rock del brano introduttivo, tra chitarre marziali e orchestrazioni tastieristiche molto ricche.

Tales from the lamplight” è invece una traccia che regala prove di grande perizia chitarristica ma, più in generale, di tutta la band, nei giochi di stacchi e di riprese all’unisono gestiti con millimetrica precisione.

Unknown wonder” è una ballad che vede le atmosfere della band farsi più leggiadre e giocose, ma con un retrogusto malinconico. Grandissima, toccante prova di folk-prog psichedelico; quasi una summa dei molti linguaggi ben dominati dalla band.

Cambia tutto con “On the prowl”, al contrario uno degli episodi più hard-rock, tra poderosi riff di chitarra, un cantato rabbioso e un Minimoog letteralmente “urlante”.

In “Shipping through time” i virtuosismi della sezione ritmica, che si prodigano in notevoli cambi di tempo e stop all’unisono, e i ricami del flauto, riportano tutto su territori prog, mentre chitarra e Moog (sempre ben presente) contribuiscono a costruire una solida base per questa traccia che rappresenta uno degli episodi più lunghi di questo disco, con i suoi 6 minuti circa; e infatti attorno alla metà cambia tutto e si trasforma in una fiabesca traccia di prog pastorale, tra chitarre pulite e arpeggiate, soavi armonie vocali e tappeti di “string-machines” (sintetizzatori che emulano suoni di archi orchestrali). Chiude il tutto uno splendido intervento solista di piano elettrico.

Chitarre acustiche, flauti, tappeti, delicati sintetizzatori dal suono squillante sono gli ingredienti di “Dream of youth”, altro brano che spinge verso i territori del folksy-prog pastorale.

Con una solenne introduzione tastieristica la band ci guida per mano verso il “Tristo Mietitore”: si intitola proprio “Grim Reaper” la traccia conclusiva del disco, nella quale i solenni tappeti di tastiere orchestrali sorreggono un gran lavoro di chitarra a tinte decisamente più hard-psych rispetto alle tracce immediatamente precedenti.

Il sapiente e scrupoloso lavoro di ricerca ci consegna, al termine dell’album originale, ben altre 7 bonus-tracks, per un totale così di 18 titoli (comprendenti sia materiale inedito sia versioni differenti o mixaggi alternativi di alcune delle tracce già summenzionate). Lo stile di queste rarities non si discosta molto da quello dell’album, tra sfuriate acide che mostrano grande perizia tecnica di tutti i musicisti coinvolti e momenti più dilatati e pastorali.

Un album che, per le sue molteplici sfaccettature, potrà appagare il gusto di vari ascoltatori di “vintage rock” ma soprattutto un ennesimo, pregevole lavoro di riscoperta da parte di una label attenta alle rarità come Black Widow.