(Private Stanze / New Model Label distr. Audioglobe) 2020
Di Luca Paoli
Emiliano Mazzoni, cantautore,
approda alla quinta prova discografica con l’omonimo album uscito l’11 settembre
2020.
Cantante ed autore modenese, inizia il suo percorso musicale ad inizio
millennio; partecipa inoltre ad Arezzo Wave nel 2004 e a numerosi festival
nazionali.
Produce tre dischi autoprodotti con i Comedi Club e nel 2011
inizia la sua carriera solista.
Il nuovo lavoro, lo voglio scrivere subito, è molto elegante, fatto con
passione e, partendo da un certo cantautorato degli anni ‘70, viene
attualizzato da suoni ed arrangiamenti moderni, ed è ricco di spunti molto
interessanti.
Mazzoni riesce a raccontare le suo storie sui vari percorsi della vita basati
su amore, sogni e ricordi, e lo fa con garbo, delicatezza e grande intensità.
Il suono a volte si fa quasi psichedelico, ricco di sfumature e le
ballate come “Ecco L’impossibile” lasciano il segno per la loro
qualità.
Le otto canzoni che compongono l’album sono tutte di ottimo livello
compositivo, molto intense e vanno assaporate con pazienza e ripetuti ascolti,
così da poter entrare nel mondo di questo artista e poterne cogliere appieno
tutte le sfumature e i colori: il disco entrerà sottopelle, ascolto dopo
ascolto.
Ottimamente suonato, il sound risultante appare sempre equilibrato, con
quel pizzico di elettronica che rende il menù fresco ed appetitoso.
In conclusione, mi sento di consigliarvi Emilio Mazzoni ed il suo nuovo
lavoro e sono sicuro che le sue note gentili faranno breccia nei vostri cuori.
Compie
gli anni oggi, 8
ottobre, Marco
Capozi,
dal 2016 bassista del Banco
del Mutuo Soccorso.
Dopo
un periodo di "rodaggio", suona e collabora con Antonello
Venditti, Gazebo, Franco Califano, Bobby Solo… entra a piedi pari
nell'ambito del prog rock suonando per tre anni con il Balletto
di Bronzo di Gianni Leone, e lo si può vedere nel dvd "Live
in Rome".
Oltre
alla sua simpatia e alla su bravura... dicono che sia il "bello
del gruppo", speriamo aumentino le presenze femminile
tra i fans!
“Il nome Peperino deriva dal
latino tardo “lapis peperinus” derivato di piper (cioè pepe), per la presenza
di particelle di biotite di colore nere simili a grani di pepe. Ma “peperino”,
significa anche ragazzo vivace pieno di brio...”
Non voglio fare il Piero Angela dei
poveri, ma questa piccola intro serve a far capire quanto “pepe” ci abbia messo
Gianni Nocenziper
organizzare questo concerto alle Cave di Peperino di Marino.
Questo mastodontico sito abbandonato
da anni, ormai quasi nascosto da canne e roghi, sembrava inespugnabile, ma la
caparbietà di Gianni, più dura del peperino, ha avuto la meglio.
Dopo una settimana di ruspe, pulizia,
allestimento, partite a ping pong, tra prefetti, magistrati, sindaci, beni
culturali… la Cava tornava a rivedere Marino e viceversa.
La location diventa fantastica (avete
presente quei film dove la brutta, con occhiali, baffetti, capelli unti, viene
rimessa a nuovo e diventa una super figa… una cosa del genere), con la roccia
illuminata da giochi di luce, che la riporta più bella di prima.
Questo palco con un piano a coda
sembra un puntino, timoroso e rispettoso davanti a questo spettacolo della
natura. Ma le avversità non sono finite, minaccia pioggia e ciò mette a rischio
le coronarie degli organizzatori, e mentre Giove Iuppiter ci grazia non fa
altrettanto Eolo, e per tutta la serata un vento gelido. Tutto questo non
impedisce il “Cammino di Pietra”, concerto per solo piano di Gianni
Nocenzi, la sua figura esile, sul palco si trasforma in gigante e le bellissime
note sono a volte colpi di fioretto a volte sciabolate contro le avversità del
tempo, ma in compenso scaldano il cuore dei “coraggiosi” presenti.
Il nostro “capitano coraggioso” si
scalda con un bicchiere di grappa, e con “I capelli sciolti al vento” continua
a sciorinare le melodie di “Miniature”.
Le sorprese non sono finite (in
questo caso positive), per il bis sale sul palco il “grande fratello” Vittorio
Nocenzi, suona la diamonica ed insieme ci regalano “750.000 anni fa… l’amore”,
e lì non ci sono “guarnizioni” che tengono, la commozione viene spontanea, non
la puoi reprimere… il Banco, Francesco, Rodolfo, ti passano davanti come un
film al rallentatore.
Questo particolare concerto è stato
voluto da Gianni non per “velleità” personali, ma per ridare lustro a questo
luogo, per omaggiare gli scalpellini, far conoscere gli scultori di peperino,
riqualificare il territorio, farlo diventare un luogo stabile, per concerti,
mostre, rassegne… come a Taormina o Ostia Antica.
Speriamo che le istituzioni non
perdano questa grande occasione, e che il concerto di Gianni, non rimanga “una
tantum”, ma sia il primo di tanti eventi culturali.
Se fosse accaduto all’estero si
parlerebbe di evento storico, come I Pink Floyd a Pompei o i Greateful Dead
alle Piramidi Egizie, ma da noi con la cultura “non si mangia”
Concludo dicendo che il mondo
musicale ha tanti lati, ma anche “latitanti”, che sono quelli che si sono persi
questo spettacolo della natura… e mi fermo qui.
Oggi parliamo
di Jazz, musica orgogliosamente figlia del popolo, come il Folk e il Blues, d’altronde,
e popolata da autentici geni (parola troppo spesso usata e abusata a sproposito,
ma che qui assume importanza vera). Ricordando che, in maniera evidente, è una
delle basi del nostro amato Progressive, quindi doppiamente da rispettare,
voglio prendere in esame un notevole libro (per contenuti e argomenti trattati)
dal titolo “Storie di vecchi pianisti Jazz… e di come funzionava la loro
musica”, pubblicato dalla Merlin Music lo scorso maggio e scritto da Riccardo
Scivales.
Pianista, compositore e musicologo, guida le sue band Quanah Parker e Mi Ritmo; già docente di Storia del Jazz e della Musica
Latino-americana presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, è autore di
numerosi libri e metodi pianistici pubblicati in USA, Italia e UK da Ekay
Music, Neil A. Kjos Music Company e Soliloquy Music. Autore di centinaia di
programmi sul jazz per RAI-RadioTre, ha collaborato stabilmente con articoli,
saggi, composizioni, arrangiamenti e trascrizioni a prestigiose riviste come
“The Piano Stylist & Jazz Workshop”, “Keyboard Classics”, “Piano Today”,
“Sheet Music Magazine”, “Ring Shout”, “Jazz”, “Blu Jazz”, “Musica Oggi” e
“Musica Jazz”.
Il libro è incentrato su mirabolanti racconti che
Scivales fa dei leggendari pianisti che hanno forgiato questo genere musicale
e che, più di ogni altri, hanno creato dal nulla linguaggi musicali nuovi e
tecniche mai sentite prima d’allora, tuttora utilizzate in più ambiti. Prendendo
spunto dalla quarta di copertina che narra:
“Gli straordinari
musicisti di cui si parla in questo libro sono Jelly Roll Morton, Fess Manetta,
Eubie Blake, Luckey Roberts, James P. Johnson, Willie “The Lion” Smith, Duke
Ellington, Thomas “Fats” Waller, George Gershwin, Cliff Jackson, Donald “The
Jersey Rocket” Lambert, Herman “Ivory” Chittison, Art Tatum, Teddy Wilson, Bob
Zurke, Nat “King” Cole, John Dickson “Peck” Kelley, Johnny Guarnieri,
Thelonious Monk e Dick Wellstood. Pianisti
e compositori leggendari, eroi d’altri tempi che hanno segnato un’epoca e
forgiato le basi del jazz e della musica odierna, e sono ormai leggenda. Ricca
di aneddoti, questa raccolta di scritti narra la loro affascinante vicenda
umana e artistica, e analizza da vicino la loro musica anche grazie a 132
esempi musicali, trascritti dai loro lavori più importanti e rappresentativi.
Oltre a una panoramica sull’evoluzione dello “Spanish tinge” e del Latin Jazz
dai suoi albori ai favolosi mambos di Mario Bauzá, troviamo qui anche uno
studio approfondito (con applicazioni pratiche) sui più tipici moduli
poliritmici usati nell’improvvisazione pianistica afrocubana e Latin Jazz,
desunti dall’opera di due suoi famosi maestri quali Charlie ed Eddie Palmieri.
Infine, un utile saggio-guida sulle modalità e gli intenti di una delle
pratiche fondamentali per ogni studente e studioso di jazz, cioè la
trascrizione nota-per-nota di brani e assoli tratti dalle incisioni originali
dei maestri di riferimento” … possiamo
tranquillamente affermare che non c’è una riga che annoi in questo trattato.
Già, perché come avrete intuito non si tratta di un semplice assemblaggio di
storie, ma è molto di più: è uno studio sul jazz stilato e programmato in modo
che possa essere inteso da tutti, o almeno dai fruitori di musica come siamo
anche noi di MAT2020. Quindi, dal titolo, come funzionava la Musica dei padri
inventori del Jazz? La risposta, o meglio le risposte sono scritte (anche) in
questo volume.
Avendolo ovviamente letto e con passione, non riporto
volutamente alcun contenuto dei 24 racconti di queste leggende dei tasti
bianchi e neri, perché vi toglierei parte della bellezza, assicurandovi che
molti di essi potrebbero far sentire piccoli piccoli alcuni fra i musicisti
d’oggigiorno, bagnati dalla celebrità e dal clamore talvolta immotivato,
siccome inventori di nulla. Qui, invece, si parla di Musicisti con la “M”
maiuscola che, nel periodo che va dal ragtime al bebop, hanno creato lo swing,
migliorato il mood, inventato trascinanti melodie, improvvisato scavando nelle
proprie anime, evitato l’omologazione come fosse peste, in una sana gara fra
giganti a chi era più bravo.
I loro soprannomi sono altisonanti esempi di quanto
fossero affascinanti fin da essi: “Jack The Bear”, “The Harmony King”, “The
Hawk”, “Snowball”, “Abba Labba”, “The Brute”, “The Lion”, “The Tiger”, “The
Leopard”, “Seminole”, “The Jersey Rocket”, “The Beetle”, “The Terror”,
“Menace”, “Ivory”, “Duke”, “King”, “Count”, “Fatha”, e
altri ancora.
Non si può e non si deve prescindere dal conoscerli a
fondo se si vuole capire cosa stiamo ascoltando adesso; già, perché molte
tecniche, parecchie eccitanti gioie sonore attuali arrivano da loro.
Per andare a fondo nell’argomentazione, Riccardo
Scivales ha qui riportato 142 esempi musicali che ha trascritto dalle
incisioni originali. Non una robetta da poco! Questi erano e sono i maestri del
genere, coloro che in un turbinio di colori e caleidoscopiche intuizioni hanno
inventato l’importanza. Un must.
L’autore suggerisce un brano: “Al
minuto 4:12 Willie "The Lion" Smith, uno dei personaggi del mio libro
(tra l'altro, maestro di Duke Ellington) fornisce un esempio di come si
suonasse “in dispari” già negli anni Venti... evidentemente era nato Prog anche
lui!”
Non amo la musica in formato “liquido”, essendo nato col
vinile e poi virato sul meno ingombrante cd. Ne riconosco però l’utilità che ci
permette di conoscere e magari apprezzare realtà altrimenti sconosciute. Inoltre,
consente immediatamente di valutare la qualità di un prodotto ed acquisire il
supporto fisico, se previsto.
Nel caso degli statunitensi (di New Orleans) Magik Saturn purtroppo dobbiamo accontentarci della
sola “bandcamp”, non essendo prevista, ad oggi, nessuna stampa in vinile o in
cd di “Moon Water”, il loro album
d’esordio.
La proposta della band si articola in otto brani (solo il
primo sfiora i dieci minuti, gli altri molto più brevi) per quaranta minuti di
durata complessiva.
La prima traccia, “Indecisively”, ci fa subito sussultare:
dopo una lunga introduzione d’atmosfera che supera i quattro minuti, una
esplosione di note, di colori, di impasti vocali, di soluzioni rimiche che
rimandano agli Starcastle (più che agli Yes…) ed in minor misura ai Gentle
Giant. Insomma, un inizio spettacolare e più che promettente. “Grease fighter”,
appena tre minuti, è un po’ un divertissement à la Emerson con, in aggiunta,
una tagliente chitarra elettrica. Con “Autumn wind part 1” si svolta ancora:
introduzione “pop” (sui generis…) poi ancora qualche aggancio al Gigante
Gentile ed una articolata sezione strumentale che alza e parecchio, le
quotazioni del brano. Non so cosa sia accaduto con “Mars”, la traccia seguente.
La qualità della registrazione è molto bassa, quasi scarsa,
tanto che si possono solo intuire le dinamiche che intercorrono tra le tastiere
e la chitarra che accompagnano il cantato. Veramente inspiegabile.
Si riparte con “Autumn wind part 2” con il piano in evidenza
e belle armonie vocali. Una bordata di synth “incendia” il brano accompagnato
da una ritmica articolata. Al piano, ancora, è affidata la chiusura. Ancora il
piano e voci delicate delineano “Keep on keeping”, soft song comunque
piacevole. Un arpeggio di chitarra apre “Turning blue” con un tappeto di
tastiere che asseconda la sei corde, sempre molto delicata, lungo tutta la
durata della composizione. Con “Tree fingers”, dopo una sezione introduttiva bucolica,
ci si inoltra in territori più rock, con ritmi incalzanti, duetti tastiere/chitarra
elettrica ed incastri vocali sempre di qualità. La chiusura del pezzo ci pare,
per contro, un poco affrettata. Certamente “l’inciampo” (chiamiamolo così…) di “Mars”
influisce sul giudizio finale che comunque rimane ampiamente positivo con la
band che pare, per qualità, sopra la media e che conferma che la “scuola”
statunitense del sottobosco prog è comunque sempre vivace.
Luca Grosso (classe 1972) è un
musicista dalla lunga esperienza, che ha partecipato a innumerevoli progetti.
Ha fatto parte dei Projecto e dei Beggar's Farm, ha suonato a
lungo col cantautore Aldo Ascolese e ha collaborato col musicista Vincenzo
Ricca a due capitoli di The Rome Pro(g)ject, fino ad arrivare ai Mindlight,
band di metal-prog di cui sta per essere pubblicato il primo lavoro.
The Ikan Method, invece, è una
creatura personale di Luca, che lo stesso ha costruito raccogliendo un pugno di
amici musicisti e per la quale ha scritto tutte le musiche ed i testi, suonando
la batteria e le tastiere. Il leitmotiv del disco è uno sguardo
malinconico sulla nostra società, dove imperversa la tecnologia, ma dove l'uomo
è sempre più solo (il titolo Blue Sun – sole triste – racchiude
perfettamente il messaggio del disco) e solo con la volontà di un vero
cambiamento nel nostro modo di vivere potremo migliorare le cose.
Abbiamo detto che in
questa sua avventura Luca ha coinvolto una serie di compagni di viaggio.
Vediamo chi sono. Il chitarrista Marcello Chiaraluce (M. Chiaraluce Band), il
cantante Davide Garbarino (Mindlight), il bassista Fabio Zunino (Shadows of
steel), nonché gli ospiti PJ Abba alle tastiere e Giacomo Grosso al flauto.
Il disco degli Ikan
Method si inserisce nel filone del rock progressivo con venature metal,
abbinando sonorità classiche con altre decisamente più moderne, creando una
miscela interessante.
Si parte con “The
great opening”, un brano maestoso dove sorprende l'equilibrio nell'uso
degli strumenti. Ottimo l'assolo di chitarra ricco di sfumature hard rock nella
parte finale del brano.
La successiva “The
journey” (interamente strumentale) vede un maggior utilizzo delle tastiere
e si avvicina di più alle atmosfere cupe degli IQ, con la chitarra che ricorda
ai primi Marillion. Tastiere di impronta Genesis caratterizzano, invece,
“No more lies” un brano il cui testo parla della crisi
(morale/ambientale/sociale) del mondo di oggi (ci si chiede: “What kind of
world are we leaving to our sons?”). Una bella canzone, con molti cambi di
ritmo. Segue“The long way to madness”, un altro pezzo strumentale che, a
mio parere, deve qualcosa ai Rush.
“The storm”,
con i suoi 9'.05” di durata, è il brano più lungo dell'album e vede la presenza
del delizioso flauto di Giacomo Grosso. Sonorità molto seventies in un
pezzo che gli amanti del prog classico apprezzeranno sicuramente. “Golden
cage” racconta della vita frenetica dell'uomo moderno passata a correre
nella ricerca di un benessere fittizio che lo porta a vivere, appunto, in una
gabbia dorata. Una canzone dal testo amaro, caratterizzata da un bel gioco di
tastiere. Uno dei pezzi più stimolanti del lavoro (https://www.youtube.com/watch?v=VuZdMLKzUyU).
“Time lost” e “Blue sun”
(brano che dà il titolo al disco) sono altri due brani strumentali, più rock il
primo, più dolce (a tratti struggente) il secondo.
“Changes” è il pezzo
conclusivo dell'album. Il testo parla del senso di frustrazione di chi vive nel
mondo d'oggi e della voglia di cambiamenti positivi (“I am so confused … I
just want to get out of here”), mentre la musica, prima più riflessiva e
poi epica, si abbina perfettamente ai temi trattati.
Al termine
dell'ascolto di Blue Sun devo dire che questo lavoro di Luca Grosso e
dei suoi compagni d'avventura mi ha colpito molto positivamente. I temi
musicali sono intriganti con arrangiamenti in equilibrio tra progressive rock e
metal, senza l'uso esagerato di tastiere che spesso caratterizza il primo, ma
anche evitando certi estremismi chitarristici del secondo. Aggiungo che, a
volte, nei dischi dei gruppi italiani un punto dolente è la parte vocale. Non è
il caso di questo lavoro dove la voce potente di Davide Garbarino si dimostra
sicura su tutti i registi.
Nel complesso un
disco decisamente riuscito che si ascolta con grande piacere e che, al
contempo, ci fa riflettere sul nostro modo di vivere. Dopo quello che è
successo negli ultimi mesi, forse, è veramente arrivato il momento di fare dei
cambiamenti.
“La gioventù invecchia,
l'immaturità si perde via via, l'ignoranza può diventare istruzione e
l'ubriachezza sobrietà ma la stupidità... dura per sempre.”
(Aristofane)
Ci sarai sempre. Buon viaggio Capitano
Wazza
E la madre gli disse: “Non essere
ingenuo, non credere a tutto quello che ti dicono; sappi che il miglio non è
l’unità di misura dei canarini, che i malati di mente vanno pazzi per certe
caramelle, che Pino Daniele è il nome proprio di un albero e che fa diesis non
è musica ma matematica, e cioè la somma di cinques più cinques! Abbi fiducia in
te stesso! Applicati ma non inchiodarti. E ricordati che il tempo vola. E noi
no.
Ma il peggio sarebbe se noi volassimo
e il tempo no. Il cielo sarebbe pieno di uomini con gli orologi fermi”.