Usciva il
15 giugno 1979 l'album "Florian" delle Orme.
Pochi
capirono questo cambiamento radicale nel sound del gruppo. L'idea venne a Toni
Pagliuca, conscio che il punk ed altri stili musicali stavano affossando il
progressive rock. Una "protesta", non usare strumenti elettrici e
dedicarsi a strumenti acustici alternativi, violino, violoncello, vibrafono,
clavicembalo, una svolta sottolineata dall'amaro testo di "Fine di un viaggio".
Un disco
da rivalutare e da ascoltare!
Wazza
(Dalla
rete..)
"Chamber
rock"... se ne fa un gran parlare, ultimamente, negli ambienti
progressive, band che si spogliano di chitarre elettriche, tastiere elettroniche
e batterie zeppe di ogni orpello per riscoprire gli strumenti della tradizione
e della musica classica. E di nuovo salta la proverbiale mosca al naso: ma non
l'avevano già fatto Le Orme nel 1979, proprio con questo album?
Non credo
che, soprattutto qui in Italia, ci si renda conto dell'importanza del gruppo in
questione, e soprattutto del motivo che rende Le Orme così importanti e speciali,
e cioè il loro essere sempre stati dei pionieri. Qualcuno preferisce
sommergerli con gli altri gruppi del rock progressivo nostrano (la PFM suonava
meglio, Francesco Di Giacomo cantava meglio, gli Area erano più politicizzati),
che guarda caso ogni volta che si riuniscono e fanno qualche concerto ottengono
subito perlomeno un'ospitata su mamma Rai, al contrario del gruppo veneziano,
che pur rendendosi ancora oggi protagonista dei più importanti festival prog
internazionali non passa neanche al telegiornale regionale, e questo anche a
scapito del considerevole successo goduto dalla band negli anni ‘70. Eppure
furono loro, con "Collage"
(prima ancora del “Concerto Grosso”
dei New Trolls) ad aprire in Italia le porte al prog di stampo sinfonico, e
furono pure i primi a rendersi conto che proprio la stagione del prog era
finita (sicuramente qualcuno se lo ricorda il brano "E' finita una stagione", b-side di "Canzone d'Amore") e a volgere l'attenzione ad un sound più
asciutto, vera e propria new wave italiana ante litteram, elegante e ricca di
melodia.
Nessuno
dei "grandi" ci aveva pensato: la PFM si era votata al jazz rock
raggiungendo gli Area, ma in un ambito meno politicizzato, i Banco di
"Come in un'ultima cena" rimanevano sostanzialmente ancorati al sound
dei primi anni ‘70, giusto un po' più dinamico; le Orme di "Se io Lavoro" (tanto per citare un
brano come esempio) ibridavano basi di synth-pop "berlinese" con il
gusto melodico della tradizione italiana, quasi presagendo certe cose del
Battiato dopo l'era del cinghiale bianco.
Noi che
abbiamo la memoria corta abbiamo finito praticamente per dimenticare anche
l'ultima, preziosissima trasformazione delle Orme alla fine degli anni 70, con
la decisione drastica di volgersi "anima e core" alla loro passione
smodata per la musica classica e il folk italiano. Si narra che nel biennio
intercorso fra "Storia o Leggenda"
e "Florian" il quartetto
(già da due anni lo storico trio era stato raggiunto da Germano Serafin, una
dei talenti chitarristici più sopraffini che l'Italia abbia mai conosciuto) si
fosse temporaneamente diviso e mentre Aldo Tagliapietra e Germano Serafin si
erano rifugiati nelle montagne del Cadore portandosi appresso rispettivamente
un violoncello e un violino, Toni Pagliuca e Michi dei Rossi avevano ripreso a
frequentare il conservatorio Benedetto Marcello.
"Florian", risultato di questa sorta
di ritiro spirituale, avrebbe positivamente sorpreso molti, e ancora oggi suona
divinamente in tutta la sua (spesso anche ingenua) bellezza. Colpiscono subito
la strumentazione e la nuova immagine del gruppo (quest'ultima pienamente
apprezzabile solo nella fotografia all'interno del gatefold del vinile
originale): Pagliuca lascia i synth e l'hammond per sedersi al pianoforte, al
clavicembalo e all'harmonium; Dei Rossi passa dalla batteria ad un set di percussioni
assortite (vibrafono, xilofono, marimba, conga e chincaglierie varie), Serafin
abbraccia chitarra acustica e violino, mentre il buon Tagliapietra ci mette la
sua preziosissima voce, la chitarra classica e il violoncello. I quattro si
presentano, insomma, come un'orchestrina di Piazza San Marco, ed ecco perché il
nome "Florian", come il più
antico Caffè della Serenissima, ed il perché dello strumentale d'apertura, che
porta lo stesso titolo dell'album: cinque minuti di pura
gentilezza fatta musica, note leggere, rapidi
tocchi di strumenti ad arco, melodie rimbalzate dal pianoforte allo xilofono,
una stupenda apertura centrale affidata al pianoforte, "ritornelli"
ricchi di gioia. Il risultato magari poi sarà anche un pò naif, con violino e
violoncello talora non perfettamente in tono, ma poco importa: la musica ci
trascina come un sogno ad occhi aperti fra le calli e i ponti di Venezia, città
di cui si fa colonna sonora altamente efficace.
Bellissimo,
a questo punto, risulta il contrasto con "Giaffa", primo dei brani cantati, un largo dal sapore barocco
dove le ampie note degli archi sono contrappuntate da una superba melodia
affidata al vibrafono. La preziosa voce di Tagliapietra, in questo contesto,
spicca meravigliosamente, così come i testi di Pagliuca che in poche righe
descrivono la forza e la fragilità di Israele. Le liriche sono sicuramente un
punto di forza dell'album (così come di tutta la produzione delle Orme degli
anni ‘70, uno dei rarissimi gruppi del prog italiano a vantare testi a livello
cantautorale, sicuramente l'unico che, sotto questo punto di vista, non si
possa accusare di supponenza o pretenziosità). "Il mago" si apre,
invece, con una stupenda introduzione per buzouki e strani suoni percussivi,
per poi evolvere verso una melodia fortemente radicata nella tradizione
popolare italiana, non lontana da certe cose di Branduardi, forse leggermente
meno enfatica. "Pietro il pescatore", nonostante i bei cambi di
accordi e l'atmosfera soffusa, quasi misteriosa, è il brano che forse convince
meno, e quello dove il violino di Serafin sbava più fastidiosamente.
Poco
importa: la coppia di brani che segue, infatti, è fra le cose più belle che il
pop italiano abbia mai prodotto.
"Calipso" non è una danza caraibica,
ma una delicatissima ballata dove, in uno dei testi più belli di Pagliuca (Poiché riconosco la tua canzone / e il
disegno sul tuo telaio / a te rivolgo, dolce Calipso, questo mio pensiero...),
viene messa in bocca ad Ulisse l'immensa nostalgia di casa di ogni immigrato.
Semplici e mirabili intrecci di chitarre, struggenti passaggi di violino e
pianoforte, la grande malinconia nascosta nella voce di Tagliapietra
costruiscono un brano che sa veramente commuovere. Altrettanto bella è "Fine di un Viaggio", probabilmente
il brano più famoso dell'album, dove le strofe, dalla musica meditativa e quasi
sofferta, si contrappongono all'andamento da marcia del gioioso ritornello, che
in chiusura del brano si trasforma in una stupenda coda liberatoria e
trascinante.
Chiude le
danze "El Gran Senser",
altro strumentale, meno organico e riuscito rispetto a "Florian", ma
con un gran lavoro timbrico, soprattutto nell'affascinante ed orientaleggiante
sezione centrale, dove il gruppo si lancia in gustose sperimentazioni sonore
(su tutte un interessante Pagliuca che trae mille suoni da un pianoforte
preparato).
Con il
loro consueto coraggio, Le Orme avrebbero portato questa musica in concerto fra
i "Travoltini" nelle discoteche di mezz'Italia, riscuotendo anche un
buon successo (questo è il loro ultimo album ad entrare nella top 10 italiana),
quindi l'Italia decise di scordarsi del gruppo di Mestre. E se finalmente si
trovasse un modo di rimediare a tanta sconsideratezza?
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