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martedì 23 dicembre 2014

GIANMARIA SIMON - L'ennesimo Malecon, di Claudio Ramponi



GIANMARIA SIMON
L'ennesimo Malecon
di Claudio Ramponi

Innanzi tutto vorrei ringraziare Athos Enrile per avermi dato la possibilità di ascoltare (e recensire) in anteprima questo album, che magari per altre vie non sarei riuscito a scovare facilmente.
Un album che si può ben definire multietnico, dove l'artista riversa in musica le esperienze vissute e maturate nel suo peregrinare attraverso l'Europa, soprattutto Francia e Germania, ma che si arricchisce anche di sapori balcanici, tzigani ed ispani.
Si comincia con "Marizibill", rivisitazione di una poesia di Guillaume Apollinaire messa in musica ed interpretata da Leo Ferré (solo dal vivo, mai registrata in studio), qui riproposta da Gianmaria con un arrangiamento in stile Django Reinhardt, in cui dimostra un'ottima padronanza della lingua di Molière (e di Apollinaire, bien sure).
Seguono nove brani scritti di proprio pugno:
"Ussaro", la cui introduzione riporta subito alle festose ed incalzanti atmosfere di Goran Bregović in cui predominano fisarmonica ed ottoni, con un testo che passa fluidamente dall'italiano al francese e viceversa.
"Calò" un valzer introdotto da un clarinetto e una fisarmonica che evocano immagini in b/n di fumose balere e antiche sagre paesane dove vecchie giostre coi cavalli di legno girano pigramente all'imbrunire; poi a metà del brano cambia repentinamente il ritmo sfociando in una specie di polka-ska introdotta da un violino tzigano. Anche qui si passa fluidamente dall'italiano allo spagnolo in una sorta di esperanto da giostrai girovaghi.
"Lo mismo de ti", uno swing-rock alla Fred Buscaglione (Il mio amico c'ha la tosse, forse saranno le MS) anche questo cantato metà in italiano e metà in spagnolo, con un pregevole assolo di sax tenore deliziosamente vintage.
"L'ennesimo Malecon", una bachata che sembra uscita dalla penna di Paolo Conte o dalle tavole di Hugo Pratt, una storia di vite sciupate tra locali malfamati e bische fumose, di notti affogate in pessimi liquori dal nome esotico e giorni che nascono gelidi e piovosi con in bocca il sapore del vino nero ed amaro, di anime perdute che cercano di riscattare i propri sbagli e cancellare i cattivi ricordi nel calore effimero di un rapporto occasionale e senza futuro... Ay, suerte maldida!
"Romalen", una rumba gitana per dipingere una quadro naïf sulla vita di una comunità di nomadi.
"Prima che venga giorno", malinconica beguine con uno scarno arrangiamento di chitarra, pianoforte e violino, la fine di una passione, l'abbandono di un abbandonato che si abbandona all'oblio affogando i ricordi nella terapia del mosto, nel "lieve soccorso d'ogni piccolo sorso... e vado prima che venga giorno, stavolta più non torno da te".
"La Mante Amante", ancora atmosfere balcaniche in lingua francese, fisarmonica, ottoni, chitarra e sax soprano in evidenza.
"Il baro", un brano che sembra estratto dal repertorio di Fred Buscaglione, introdotto dal siparietto di una partita di poker recitato in slang americano, improbabili personaggi come il Gobbo(?), Ronnie "il grasso", l'Allibratore, Tony Barracuda, il Capo e lui, il Baro, cui "basta un'occhiata soltanto per capire come tira il vento".
In "Lo chiamerei Goliardo" torna l'atmosfera balcanica, inframezzata ed alternata con una ballata che ne spezza (spiazzando un po' l'ascoltatore) il ritmo incalzante.
È il primo singolo estratto dall'album, un brano che parla di anarchia e libertà, con una visione disincantata e distaccata della vita, restando importanza ai valori che l'educazione borghese e perbenista ci ha inculcato, riducendone il succo ad un essenziale "carpe diem".
Il brano che chiude l'album è una cover di Leonard Cohen, "Dance me to the end of love", intensa interpretazione su di una scarna ma struggente base di chitarra e violoncello.
In sintesi un album interessante ed un artista da tenere d'occhio.

Certamente l'approccio, soprattutto per chi è abituato alle super produzioni che da troppo tempo ci propina la musica pop, può risultare difficile, ma è un album sincero ed onesto, non privo di difetti (qualche introduzione è troppo lunga, qualche situazione può risultare ripetitiva, la voce secca ed un po' ingolata va a discapito dell'immediata intellegibilità dei testi) ma chissenefrega... Lasciatevi conquistare dalle inconsuete atmosfere che questo artista ha saputo creare, dentro le quali c'è tutto un mondo da scoprire.


Cenni biografici / Gianmaria Simon nasce nel 1976 a Sarzana (La spezia) ma da tempo è residente a Massa. Cresce sotto l'egida delle petrose e anarchiche alpi Apuane dove, a seguito di studi poco brillanti, si dedica a coltivare passioni tutt'altro che redditizie come la musica e la poesia. Impara a suonare la chitarra e compone le prime canzoni che mette a sedimentare in un cassetto. A diciotto anni indossa una salopette, suona blues del delta e dice di voler sposare una nera del Mississipi. In seguito viaggia in Germania e in Francia suonando per strada musica di Dylan e di Neil Young.  Una notte guardando The House di Šarūnas Bartas ascolta la più triste delle melodie suonata da una fisarmonica e decide di imparare la fisarmonica. Continua a scrivere versi seduto sopra un albero. Suona musica d'autore coi Bandido Maria, musica tradizionale coi Mus, gipsy rock con Mira Leon, combat folk coi Visibì, studia Bach al conservatorio. Dà quindi vita ai Trajet Karavani e le canzoni sopravvissute agli anni vedono finalmente la luce. Il progetto muta e si evolve e prende forma il primo album solista dal titolo “L'ennesimo Malecon”.



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