Per chi ama le più evolute ed
avanguardistiche frontiere del jazz-rock, Zita
Ensemble è un nome ben noto e molto apprezzato. La loro carriera,
seppur con qualche stop, qualche ripartenza e qualche progetto parallelo nel
mezzo (come è normalissimo che sia nel variegato mondo della musica), dura
ormai da vent’anni esatti. Ovvero da quel 2004, anno della loro formazione,
fino a questo 2024 che vede l’ensemble consegnare alle stampe questo album
omonimo formato da otto tracce.
“Musica strumentale post-moderna” potrebbe
essere un termine bellissimo e onnicomprensivo per descrivere gli universi
sonori di questa formazione, nei quali convergono il jazz-rock, il post-rock,
il math-rock e suggestioni “cinematiche” da colonna sonora.
La opener “The wind” vede
arpeggi di chitarra ridotti all’essenziale, dal suono pulito, appena
riverberato, danzare leggeri su una sezione ritmica mixata in modo presente,
che si snoda con la velocità tipica di generi come il drum’n’bass e con
deliziosi accenti degli splash che fanno capolino qui e là, fino a un crescendo
con un rullante turbinante.
“Atlantico” si regge su un
roccioso giro di basso che fa persino venire in mente certi brani dei Soft
Machine (periodo “Seven”) o del Perigeo, sul quale ancora chitarre ora
minimali, ora dal sapore “desertico” e drumming fantasioso costruiscono le loro
trame sonore.
“Black summer” ha
un’introduzione che potrebbe persino far pensare all’Hendrix di “Little Wing” o
all’Howe di “Roundabout”. Quando la band entra al completo si respira quasi un
clima da “blues fusion del III Millennio” (pur non essendo, in realtà, affatto
un blues nella struttura; semmai nel “mood”).
Accenti dispari introducono “Dance Tape”,
brano che trova il suo punto di forza nelle stratificazioni dei vari temi,
rapidamente cangianti, che ciclicamente ritornano.
“Us” profuma di esotico, di
Bossa Nova. Ma come avevamo detto per “Black Summer”, se quel brano
tecnicamente non è un blues, questo di fatto non è una bossa nova. Ed è proprio
da questi dettagli che si coglie la sottile intelligenza compositiva della
band, capace di far “respirare” all’ascoltatore certi climi, certe atmosfere,
certe suggestioni, ma facendo in realtà tutt’altro. Difficile da spiegare, più
facile da capire ascoltando.
“Amigos” è forse la traccia più
assimilabile al classico concetto di ballad, per la sottile malinconia e per
quel senso di struggimento che la pervade.
“Musica per immagini”, si diceva all’inizio.
Qui le note lasciano che ogni ascoltatore viva, chiudendo gli occhi, il suo
“film personale”. E nei minuti conclusivi sembra quasi di scorgere remoti echi
king-crimsoniani.
“Lipstick”, dopo i languori
della traccia precedente, torna a giocare con il groove in modo poderoso.
Math-funk-jazz ai massimi livelli per un brano che svela tutta l’energia di cui
è capace questa band.
Si conclude con “Sunday”… Quel
raffinato lavoro di bacchette sul bordo del rullante che sorregge tutti gli
intarsi tra chitarra e basso è qualcosa di delizioso. Ascoltare per credere.
Siamo di fronte a un’altra traccia che, dietro al groove intelligente e
raffinato, nasconde una vena di malinconia. Come forse un po’ tutto l’album.
Concludendo: un’opera in cui la perizia
tecnica degli strumentisti, di altissimo livello, è messa sempre al servizio di
una scrittura intelligente, raffinata, senza sterili prove muscolari o gratuite
ostentazioni ma, al contrario, alla costante ricerca di un “mood” elegante e
ricercato.
Sia che voi ascoltatori siate culturalmente
“figli” del prog-rock e del jazz-rock degli anni ‘70, o della new-wave e del
minimal degli anni ‘80, o del post-rock degli anni ‘90 o dell’eclettico mondo
chillout, drum’n’bass, trip-hop dei primi 2000, qui troverete un gran lavoro di
composizione capace di unire almeno quattro generazioni diverse.
Il 27 giugno del 2015, a causa
di un male incurabile, ci lasciava Chris Squire,
bassista inglese e membro fondatore degli Yes.
La sua eredità come uno dei più
grandi bassisti nella storia del rock progressivo vive ancora oggi attraverso la
sua musica e il suo impatto duraturo sulla scena musicale.
Chris Squire nacque il 4 marzo 1948 a
Kingsbury, nel Middlesex, in Inghilterra. È diventato famoso come bassista
principale e voce di supporto degli Yes, una delle band più influenti nel
genere del rock progressivo. Squire è stato uno dei membri fondatori della band
nel 1968 insieme a Jon Anderson, Peter Banks, Bill Bruford e Tony Kaye.
Il suono distintivo di Squire al
basso è stato un elemento chiave nel suono unico della band. Utilizzava un
basso Rickenbacker 4001, che gli conferiva un suono ricco e profondo. Oltre a
suonare il basso, Squire ha contribuito significativamente alle armonie vocali
del gruppo.
Durante la sua carriera con gli Yes,
Chris Squire ha partecipato alla creazione di album di grande successo, come
"The Yes Album" (1971), "Fragile" (1971), "Close to
the Edge" (1972) e "90125" (1983), tra molti altri. Il suo stile
di basso innovativo e la sua presenza scenica magnetica hanno reso Squire
un'icona nel mondo del rock progressivo.
Squire ha anche lavorato su alcuni
progetti solisti nel corso degli anni, pubblicando l'album "Fish Out of
Water" nel 1975 e collaborando con altri artisti.
La sua eredità come uno dei più
grandi bassisti nella storia del rock progressivo vive ancora oggi attraverso
la sua musica e il suo impatto duraturo sulla scena musicale.
Nella villa Torlonia
di Frascati, il 27 giugno 2009 il Banco del
Mutuo Soccorsoesegue dal vivo, per
intero l'album "Darwin!".
Per ricordare quella
memorabile giornata ho scelto questo bellissimo articolo di Teo Orlando,
che fa rivivere a chi c'era quelle inconfondibili sensazioni.
Wazza
Articolo
di Teo Orlando
Il Banco del Mutuo
Soccorso ha suonato lo scorso 27 giugno a Frascati a Villa Torlonia presentando
l'opera Darwin! Alla voce Francesco Di Giacomo per una rentrée di tutto
rispetto e del tutto progressive.
Quando l’autorevole
rivista inglese Gnosis stilò una sorta di graduatoria dei migliori album del
genere progressive, molti appassionati del genere non credettero ai loro occhi
vedendo che il primo posto non era occupato da uno dei capolavori di una band
britannica.
Né il seminale In the
Court of the Crimson King degli insuperabili King Crimson del geniale Robert
Fripp o il leggendario Pawn Hearts degli immensi Van Der Graaf Generator con la
stratosferica voce di Peter Hammill, o il cesellato Selling England by the
Pound dei migliori Genesis di Peter Gabriel (che si classificò al secondo posto
di stretta misura) o l’irriverente Aqualung dove Ian Anderson guidava i Jethro
Tull verso rotte blasfeme; e neppure qualcuna delle sofisticatissime opere dei
sottovalutati bardi della sperimentale scuola di Canterbury, dai Caravan agli
Henry Cow fino ai Gong.
A guidare la
classifica e a surclassare cotanta concorrenza fu un disco di un gruppo
italiano, e d’origine romana, per giunta. Siamo nel 1972 quando il Banco del
Mutuo Soccorso pubblica Darwin!, forse il primo concept album compiuto
concepito da una band italiana. Tema e testi di notevole complessità, con
l’intreccio di argomenti biologici, cosmologici e filosofici, e con un tasso di
irriverenza che all’epoca fece gridare allo scandalo.
Per nulla invecchiati
se non anagraficamente i musicisti e la musica, e di sorprendente attualità i
testi, in quest’anno dedicato ai 200 anni dalla nascita di Charles Darwin e ai
150 dall’apparizione del suo capolavoro, ossia Sull’origine delle specie per
mezzo della selezione naturale o la preservazione delle razze favorite nella
lotta per la vita (1859): abbiamo così assistito alla riproposta in concerto di
questo capolavoro del progressive italiano.
La performance ha
avuto luogo nella suggestiva cornice di Villa Torlonia a Frascati, il 27 giugno
scorso, e ha visto il Banco nella formazione originale, con l’aggiunta di una
recitazione affidata all’attore Alessandro Haber, preceduta da un’introduzione quasi
teatrale ad opera del cantante del gruppo, Francesco Di Giacomo, che in modo
semiserio ha cercato di ammaestrare” il pubblico sulle teorie di Darwin.
Le premesse
ideologiche del disco del Banco sono in effetti ispirate al darwinismo e alle
sue conseguenze: in particolare, viene pienamente accolta l’idea per cui le
teorie di Darwin abbiano inferto un colpo mortale alla credenza nella creazione
divina dell’uomo e nell’ordine finalistico della natura, voluto
dall’intelligent design di un’entità provvidenziale e orientato verso una
tendenza intrinseca all’armonia.
Secondo Darwin,
infatti, tutte le specie viventi e la loro evoluzione sono determinate da tre
fattori principali: 1) La variabilità spontanea delle popolazioni, sia
vegetali, sia animali: ciò vuol dire che le variazioni genetiche che spiegano
le differenze tra gli individui di una stessa specie sono assolutamente
fortuite; 2) la selezione naturale prodotta dall’ambiente, in base alla quale
gli individui che meglio si adattano alle condizioni ambientali appaiono anche
più favoriti nella lotta per l’esistenza e nelle contese sessuali; 3) la
trasmissione ereditaria dei caratteri, sviluppati liberamente e selezionati
dall’ambiente, a un numero sempre più ampio di discendenti, finché non si forma
una nuova specie.
Il ruolo cruciale
delle variazioni fortuite rendeva superflua ogni ipotesi di un’autoregolazione
finalistica della natura e permetteva di spiegare l’evoluzione biologica
unicamente sulla base di cause meccaniche e naturali. Tuttavia, dato che,
secondo Darwin, l’adattamento all’ambiente non produce direttamente caratteri
nuovi, ma si limita a favorire la permanenza di alcuni caratteri rispetto ad
altri, il modello darwiniano è meno rigido e deterministico di quanto si pensi:
sono i caratteri genetici intrinseci dell’individuo a essere prioritari, ma
essi sono frutto di una variazione casuale di partenza che non si combina
agevolmente con previsioni ferree e necessitate.
Così, l’evoluzione
biologica non può essere rappresentata come una linea retta che dalle forme più
elementari di vita condurrebbe fino alle scimmie antropomorfe e all’homo
sapiens. È più corretto dire che l’evoluzione è un processo aperto, costituito
da salti e deviazioni impreviste, da tentativi ed errori, da rami secchi e discendenze
interrotte fino a possibili regressioni a forme di vita più primitive.
Qualcuno potrebbe
obiettare che i temi darwiniani non si prestano particolarmente ad una
trasposizione musicale e poetica, in nome di un’astratta separazione tra la
creatività artistica e i risultati delle scienze. Ma si tratterebbe di un
giudizio erroneo ed affrettato. Il connubio tra poesia e concetti scientifici
risale almeno al De rerum natura di Lucrezio e, quanto al darwinismo, esso
trovò una notevole trasposizione nella visione pessimistica e agnostica di
Thomas Hardy, che ci sembra molto vicino alle liriche del Banco
Il grande scrittore
inglese obliterò ogni visione provvidenziale dietro lo spettacolo della pena di
vivere e dello struggle for life, come si evince dalla poesia Hap (Il caso,
1898): “Crass Casualty obstructs the sun and rain,/And dicing Time for gladness
casts a moan” (La fortuna balorda ostruisce il sole e la pioggia,/E il Tempo
biscazziere per allegria getta i dadi di un lamento). L’idea centrale di Hardy,
che fonde abilmente il Darwin di On the Origin of Speciescon lo Schopenhauer di
Die Welt als Wille und Vorstellung (Il mondo come volontà e rappresentazione,
1818-19) e la sua concezione della volontà ciecamente operante, è forse
espressa nella maniera più pregnante da Sue Bridehead, una delle protagoniste
del romanzoJude the Obscure (1895): “Il mondo somigliava a una stanza o a una
melodia composta in un sogno; si presentava come mirabilmente eccellente per
un’intelligenza semi-desta, ma irrimediabilmente assurdo allorché ci si è
completamente svegliati. La Causa Prima aveva lavorato automaticamente come un
sonnambulo, e non riflessivamente come un saggio.
Temi analoghi
presentano appunto i testi del Banco, che non a caso vennero percepiti all’epoca
come provocatori e rivoluzionari. E questa carica dirompente si è mantenuta
intatta e vitale anche durante il concerto, che ha seguito fedelmente la
tracklist dell’album originario.
Stupefacente ancora
oggi la possente voce di Di Giacomo, quasi da baritono, che senza il benché
minimo tremolio ha accompagnato le tastiere di Vittorio Nocenzi, le chitarre di
Rodolfo Maltese e Filippo Marcheggiani, il basso di Tiziano Ricci, la batteria
di Maurizio Masi e i fiati di Alessandro Papotto. E questa voce ha cominciato a
cantare le liriche all’interno del primo brano, dopo qualche minuto di
introduzione strumentale. Brano che si intitola significativamente
L’evoluzione. Evoluzione della musica come emblema del progressive ed
evoluzione dell’universo senza necessità di postulare una Causa Prima: “Prova,
prova a pensare un po' diverso/niente da grandi dèi fu fabbricato/ma il creato
s'è creato da sé.
La visione è
senz’altro orientata verso un deciso materialismo: sono solo cellule, fibre,
energia e calore”ciò che spiega la genesi del cosmo e della vita. Ogni
creazionismo di matrice biblica viene apertamente contestato: “E se nel fossile
di un cranio atavico/riscopro forme che a me somigliano/allora Adamo non può
più esistere/e sette giorni soli son pochi per creare/e ora ditemi se la mia
genesi/fu d'altri uomini o di quadrumani.
E come il cosmo si è
originato da pochi elementi, così il progressive ha dilatato i confini del rock
ampliando la base blues, aprendosi al jazz e alla musica classica, utilizzando
i cosiddetti metri additivi (ossia i tempi dispari), che caratterizzano questo
brano e tutti gli altri dell’album. Notevolissimo l ’uso dei sintetizzatori che
richiamano alla mente il dispiegarsi dell’universo dal caos originario, scene
di origini primordiali e vulcani in eruzione.
Dopo i 20 minuti del
primo brano, che si chiude con una polifonia strumentale memore degli impasti
sonori dei Gentle Giant, si viene proiettati ex abrupto nell’evoluzione della
specie umana: La conquista della posizione eretta ci ricorda irresistibilmente
la scena iniziale di 2001: Odissea nello spazio, nella quale il genio di
Stanley Kubrick aveva messo in scena una tribù di australopitechi che si
ergevano trionfanti, dopo aver conquistato la capacità di camminare come bipedi
eretti, brandendo un osso d’animale trasformato in arma offensiva. Prima di
trasformarsi in ominide, la scimmia antropomorfa cammina a quattro zampe,
inseguendo l’odore di bestia” e l’orma di preda. Poi, provando e riprovando (il
trial and error, che daDarwin stesso a Karl R. Popper caratterizza così tanto
l’intelligenza umana!), ergendosi e cadendo ripetutamente, si avvierà verso la
definitiva emancipazione dal mero stato animale, proiettandosi verso traguardi
infiniti: “E dove l’aria in fondo tocca il mare/lo sguardo dritto può guardare.
Segue poi a mo’ di
intermezzo la Danza dei grandi rettili: il mellotron e le chitarre intrecciano
una sorta di ballo funky-progressive. Poco importa che cronologicamente questo
brano avrebbe dovuto precedere il secondo: come è noto, infatti, i dinosauri si
sono estinti molti milioni di anni prima della comparsa dei primi ominidi. Ma
l’anacronismo serve anche a sottolineare la dimensione profondamente
“preistorica” in cui si muove tutto l’album e la performance che ne deriva.
Dalla preistoria si
passa comunque alla protostoria con Cento mani e cento occhi. Siamo immersi in
una dimensione hobbesiana, dove cominciano a formarsi i primi consorzi sociali,
seppure finalizzati alle battute di caccia: “Laggiù altri ritti vanno
insieme/insieme stan cacciando carni vive/bocche affamate braccia
forti/scagliano selci aguzze con furore. Si pone però il dilemma all’incerto
ominide: unirsi alla forza di cento mani e alla vigilanza espressa da cento
occhi, propri di esseri che diventeranno da branco una tribù e costituiranno
prima villaggi e poi città? Oppure fuggire dagli altri uomini, praticando un
solitario bellum omnium contra omnes?
Il vero culmine
poetico viene però toccato con 750.000 anni fa ... L'amore, forse la canzone
più celebre del disco. Il sentimento dell’amore viene espresso con gesti
delicati, che precedono addirittura l’elaborazione di un vero e proprio
linguaggio verbale: “Se fossi mia davvero/di gocce d'acqua vestirei il tuo
seno/poi sotto i piedi tuoi/veli di vento e foglie stenderei. Ma “il labbro
inerte non sa dire niente” e quindi nella mente dell’ominide si mescola
l’istintiva brama di possesso con un’oscura consapevolezza dell’impossibilità
di possedere una donna che non è stata prima gentilmente corteggiata. Sembra di
sentire il poeta statunitense Langdon Smith (1858-1908), che nella celebre
poesia Evolution, quasi immedesimandosi in esseri primitivi, dice che “Mindless
we lived and mindless we loved” (Dimentichi abbiamo vissuto e senza pensieri
abbiamo amato).
Il concerto volge alla
conclusione con un’accorata meditazione sul destino dell’umanità. È Miserere
alla Storia, dove i versi “Quanta vita ha ancora il tuo intelletto/se dietro a
te scompare la tua razza?, alludono sinistri alla possibile autodistruzione del
genere umano. E in effetti, l’ultimo brano dal disco, Ed ora io domando tempo
al Tempo, ed egli mi risponde…non ne ho! sembra scandire le eterne domande che
assillano gli uomini dai loro albori: qual è la nostra vera origine e quale
sarà la nostra fine? Qual è il senso del tempo?
“Ruota eterna, ruota
pesante/lenta nel tuo cigolio/stai schiacciando le mie ossa e la mia volontà: è
la ruota del Mulino di Amleto, per usare il titolo di un libro di Giorgio De
Santillana ed Hertha von Dechend, che coincide con il tempo ciclico e
qualitativo, ritmato da scansioni scritte nel cielo, fatali perché si
identificano con il Fato stesso.
A questo punto,
conclusa l’esecuzione del disco, tocca ad Alessandro Haber riprendere alcuni
brani leggendone i testi senza accompagnamento musicale e dando una veste
teatrale a quella che Darwin chiamava The Descent of Man (l'origine dell'uomo).
Il concerto continua
ancora con la ripresa de L’evoluzione e con due altri brani dalla produzione
del Banco, la pacifista R.I.P. e Non mi rompete: una conclusione perfetta per
un connubio tra il progresso nella scienza e il progressive nella musica.
“Annie’s Playlist, e di conseguenza le testimonianze
discografiche, qui giunte al terzo appuntamento, nascono da un invito che, ormai
più di dieci anni fa, mi rivolse Greg Lake, con lo scopo di affinare la mia
tecnica vocale, il mio modo di suonare e la pronuncia inglese. “Agli inizi
della mia carriera” - mi diceva Greg Lake - “con gruppi come gli Unit 4
e gli Shy Limbs suonavamo cover: è un esercizio che qualsiasi musicista
professionista ha nel suo background”. Naturalmente i consigli tuonati da
Greg non lasciavano molto spazio ai “se” e ai “ma”. Col tempo, l’occasione di
condividere con il mio pubblico e i miei amici le canzoni che hanno segnato la
mia vita è diventato un piacere, non più un esercizio. Sono canzoni che hanno
lasciato non solo un segno indelebile nella mia anima, ma mi danno la forza, lo
stimolo, l’orgoglio di sentirmi parte di un’accolita di estimatori di qualcosa
di più grande non solo di noi, ma forse degli autori stessi. Con umiltà e
devozione, eccomi a proporvi il terzo volume, con l’aggiunta di qualcosa di
mio.”
Direttamente dalle parole della stupendamente brava Annie Barbazza, ecco l’introduzione al suo terzo
volume della serie “Annie’s Playlist”.
Come al solito prodotto dalla Dark Companion Records di Max Marchini,
è uscito lo scorso maggio questo generoso, notevole, coloratissimo lavoro
dell’artista piacentina che sta pian piano conquistando il pubblico europeo
grazie al suo innegabile talento. La sua crescita professionale, nel tempo, è
andata incrementandosi tramite illustri collaborazioni con musicisti di fama
mondiale (sia in studio, sia live), nonché per meriti ottenuti durante i suoi
illuminati concerti, nonché grazie al suo “Vive”, disco incredibilmente
meraviglioso (da me commentato alla sua uscita nel Febbraio 2020), ristampato
poco tempo fa. A tal proposito Max Marchini spiega meglio questa situazione: “La
fortunata serie “Annie’s Playlist”, da sempre un best seller ai concerti, qui
giunta al terzo appuntamento è stata concepita da Greg Lake quando, a partire
dal 2012, scoprì il talento di Annie Barbazza e al quale si dedicò. Una specie
di compito delle vacanze che iniziò con Lake che “commissionava” ad
Annie di registrare un certo brano, da lui stesso scelto - suonando tutti gli
strumenti - per poi spedirglielo sottoponendolo ai suoi famosi severissimi
giudizi e, successivamente, ai paterni insegnamenti e consigli. Visti gli
eccellenti risultati di questi esercizi, Greg suggerì infine di costruire degli
spettacoli principalmente di cover, per prendere confidenza con la propria voce,
cimentarsi con i tanti strumenti che Annie suonava già. In effetti, come
sempre, i consigli di Greg Lake si rivelarono vincenti: nel 2015 Annie pubblicò
la prima raccolta “Annie’s Playlist”(nome suggerito sempre da Lake),
alla quale fece seguito nel 2017 “Annie’s Playlist 2”, entrambi pubblicati
dalla nostra Unifaun Productionse
che vedevano, così come gli spettacoli del tempo, la Barbazza accompagnata da
Lorenzo “Trek” Trecordi alla seconda chitarra e flauto. È interessante
osservare come vi sia una sorta di evoluzione artistica in questi album, tutti
rigorosamente registrati live, oltre che una rappresentazione dei gusti
eclettici di Annie che dal rock progressivo, si muovono verso il folk, la psichedelia,
gli adorati Beatles, ma già arrivano a Captain Beefheart e ai Residents. Questo
terzo volume vede rappresentato l’enorme salto compiuto dalla giovane musicista
in questi ultimi anni, i quali l’hanno catapultata verso le vette
dell’avant/prog internazionale: l’uscita nel 2020 del suo primo album solista,
“Vive”(nel quale hanno partecipato amici come Daniel Lanois, Fred
Frith, Lino Capra Vaccina, Paolo Tofani, Greg Lake, John Greaves, Olivier
Mellano, Michael Tanner e altri ancora), la collaborazione stabile come
bassista, vocalist e batterista con Paul Roland, il sodalizio
artistico con l’ex Henry Cow John Greaves con il quale si esibisce regolarmente
dal vivo, sia in duo (dello scorso anno l’album “Earthly Powers”), che con la
nuova band del musicista gallese che comprende, tra gli altri, gli ex King
Crimson Mel Collins e Jakko Jakszyk; i diversi concerti in solo, il progetto di
grande successo (ancora sotto la produzione di Greg Lake) del duo Moonchild con
il pianista Max Repetti, con il quale ripercorre in chiave minimalista e
contemporanea i brani più importanti del repertorio di Lake. Inoltre, Annie è
entrata a far parte della North Sea Radio Orchestra, con la quale ha registrato
l’album “Folly Bololey”, che rivisita il capolavoro “Rock Bottom” di Robert
Wyatt (il quale la ha ringraziata e incoraggiata di persona), e del Michael Mantler’s
New Songs Ensemble, con cui ha tenuto diversi concerti e ha un album in uscita
questa estate. Poi come non citare le collaborazioni con gli Henry Cow, Fred
Frith (con cui sta registrando), l’orchestra di percussioni Tempus Fugit,
Giorgio “Fico” Piazza e tanto altro ancora. Questo nuovo capitolo rispecchia i
nuovi spettacoli di Annie, per i quali ha preferito una dimensione intima,
suonando da sola e alternandosi ai vari strumenti e inserendo proprie
composizioni. Le registrazioni sono prese da due spettacoli in streaming tenuti
da Annie durante il lockdown dallo studio Elfo di Tavernago (PC); altri da uno
spettacolo sempre in streaming causa lockdown che ha tenuto Eugenio Finardi dal
Teatro Manzoni di Monza, al quale Annie ha partecipato e aperto, appunto, in
solo.”
Les
Ruines du Sommeil apre il disco, voce e chitarra, ed è subito grande musica; la
propria. Annie ha feeling da vendere, fin da subito l’emozione è veramente
tanta mentre la si ascolta. Ti entra dentro per regalare brividi di beltà. E
ogni volta è un’esperienza straniante: non ha alcun termine di paragone. Jumbee, targata Paul Roland, fa capire
quante capacità d’interprete ha accumulato la nostra artista nel corso del
tempo. Vestita di solennità e profondità, la canzone aumenta come non mai.
Carezza d’anima. By This River: voce
e piano, delicatezza e grandiosità; come scrutare l’infinito e venirne a
contatto. Brian Eno e Hans-Joachim
Roedelius ringraziano. Frame By Frame
dei King Crimson (of course), apre la strada al ritmo ora più sostenuto, dove
Annie si ritrova con apparente disinvoltura. In realtà per arrivare ad un
risultato simile, bisogna sentire dentro di sé quel qualcosa che pochi sanno di
avere e pochissimi riescono a trovare. A questo “qualcosa” dategli pure il nome
che volete, ma sarà sempre sbagliato, siccome, noi ascoltatori, possiamo solo
captarlo. E sarebbe già tanto. Children
Of The New World, del geniale Daevid Allen, soave e giocosa già di suo, è
qui reinterpretata con notevole bravura, in un non facile esercizio
partecipativo. Difficile far scendere lacrime trasformandole in sorrisi. Già,
molto difficile. Phantoms, della
stessa Barbazza, rende chiaro quanto lavoro su sé stessa abbia fatto durante
questo tempo, innalzandosi ad autrice di ricca sostanza. Cattura e coccola. June, di nuovo dal suo carnet di
composizioni, è fresca come l’aria di questo splendido mese. Soffice come un
petalo portato in giro dalla brezza, che arriva fino al cuore di chi la sta
vivendo. Sorprendente la ragazza, ogni volta di più. Time Has Told Me, del mai troppo osannato Nick Drake, voce e piano,
è commovente e tenera allo stesso tempo. Annie ne fornisce una versione di
un’intensità che mette quasi soggezione. Heaven,
by Robyn Hitchcock, per chi scrive è una delle più riuscite canzoni degli anni
’80, no doubt. Preziosa e rara, è qui presentata con magia riconducibile all’originale.
Sea Song, di quel Robert Wyatt che
Annie ama tanto, con pochi rintocchi di piano e parecchia suggestione, è
portata ad un livello superiore. Permettetemi di pensarlo e scriverlo. Volo Magico, del compianto Claudio
Rocchi, eroe degli anni ’70, è ora stravolta dalla carica emotiva della nostra.
Si sta parlando di una delle canzoni simbolo di quel tempo, un tempo che tanti
rimpiangono (pur con i vari problemi che ne costellavano la quotidianità):
riproporla è già fuori dall’ordinario, renderla così singolare quasi un
miracolo. Nebulae, di Annie stessa,
viaggia fra l’oggettiva eccellenza e l’inaudito: chi fa Musica simile in Italia
nel 2024? Chi ha in sé tutta questa arte per riuscirci? Chi va assolutamente
contro le attuali tristissime mode? Purtroppo, solo lei. Onori e meriti,
quindi. Lotus Flower, sempre uscita
dal suo cilindro, porta in una dimensione parallela, dove il turbamento va a
braccetto con la gigantografia della propria passione, che ascoltando questa
canzone cresce di secondo in secondo. Anatomy
Of Love, portata al successo dal duo Shelleyan Orphan, è densa e abbagliante,
per continuità di gioia donata dalla voce di Annie. O meglio, quella voce, la
sua voce, è lo strumento musicale che permette alla sua interiorità di arrivare
fino a noi: unica. Islands, ancora
King Crimson, altro amore di Annie, veleggia impetuosamente come un galeone
nell’oceano. La poesia che ne è tratta resta uno degli esempi di maggior presa
del repertorio della nostra, assolutamente matura e professionale, la cui
estrema bravura è giustamente riconosciuta a livello europeo. In Te, creata da Annie insieme al grande
John Greaves ed a Max Marchini, permette ancora di notare e apprezzare le
pressoché infinite sfumature della vocalità della Barbazza. Singolare e incantevole
canzone. Boĭte A Tisane, by Annie:
sublime, affascinante, adorabile. Senz’altro uno dei pezzi migliori di questa
raccolta di emozioni in Musica. Ys,
chiude in maniera magniloquente il disco, essendo dedicata all’isola scomparsa
al largo delle coste bretoni, essendo che Annie è una vera e propria isola che
brilla di luce propria, nel bel mezzo di un mare pieni di rifiuti, decadenza e
banalità.
Non lasciatevi sfuggire l’occasione di vivere bene: ascoltando
Annie Barbazza molti dei vostri dubbi in merito, spariranno, lasciando spazio
alla serenità.
Abbracci diffusi.
Tracklist:
01. LES RUINES DU SOMMEIL (Barbazza) 2:38
02. JUMBEE (Roland) 3:59
03. BY THIS RIVER (Eno/Roedelius) 2:56
04. FRAME BY FRAME (Belew/Fripp/Levin/Bruford) 2:36
05. CHILDREN OF THE NEW WORLD (Allen) 3:19
06. PHANTOMS (Barbazza) 1:55
07. JUNE (Barbazza) 3:19
08. TIME HAS TOLD ME (Drake) 4:13
09. HEAVEN (Hitchcock) 4:16
10. SEA SONG (Wyatt) 3:59
11. VOLO MAGICO (Rocchi) 4:00
12. NEBULAE (Barbazza) 1:44
13. LOTUS FLOWER (Barbazza) 2:56
14. ANATOMY OF LOVE (Tayle/Crawley) 4:12
15. ISLANDS (Sinfield/Fripp) 3:29
16. IN TE (Greaves/Marchini/Barbazza) 3:08
17. BOÎTE À TISANE (Barbazza) 3:25
18. YS (Barbazza) 2:27
Annie Barbazza: electric and acoustic guitars, piano, indian
harmonium and vocals
Recorded, mixed and mastered by Alberto Callegari
Produced by Max Marchini
Recorded live, Mixed and Mastered at Elfo Studios by Alberto
Callegari 2020-2024, No overdubs.
Volo Magico recorded live in streaming at
Teatro Manzoni, Monza on November 15, 2020.
All Photographs by Franz Soprani except album and booklet cover
photos by Francesco Renne.
Avrebbe compiuto gli anni il 25
giugnoIan McDonald,
polistrumentista.
Dopo varie esperienze
giovanili, nel 1969 fondò insieme a Robert Fripp, Greg Lake, Michael Giles e
Pete Sinfield, i King Crimson: il loro primo album rivoluzionò il mondo della
musica.
Insieme al batterista
Mike Giles realizzò un altro piccolo capolavoro, l'album "Mc Donald and
Giles".
Ma fu con i Foreigner,
gruppo americano, che risollevo le sue finanze!
Successivamente tornò nel giro prog con i Tokio Tapes di Steve Hackett, e per un po’ di tempo rimise su la band di amici, i "21st Century Schizoid Band".