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martedì 27 giugno 2023

Racconti sottoBanco: il 27 giugno 2009 il Banco del Mutuo Soccorso esegue dal vivo e per intero l'album "Darwin!"

Darwin, Frascati 2009

Racconti sottoBanco

Nella villa Torlonia di Frascati, il 27 giugno 2009 il Banco del Mutuo Soccorso esegue dal vivo, per intero l'album "Darwin!".

Per ricordare quella memorabile giornata ho scelto questo bellissimo articolo di Teo Orlando, che fa rivivere a chi c'era quelle inconfondibili sensazioni.
Wazza



Articolo di: Teo Orlando

Il Banco del Mutuo Soccorso ha suonato lo scorso 27 giugno a Frascati a Villa Torlonia presentando l'opera Darwin! Alla voce Francesco Di Giacomo per una rentrée di tutto rispetto e del tutto progressive.
Quando l’autorevole rivista inglese Gnosis stilò una sorta di graduatoria dei migliori album del genere progressive, molti appassionati del genere non credettero ai loro occhi vedendo che il primo posto non era occupato da uno dei capolavori di una band britannica.
Né il seminale In the Court of the Crimson King degli insuperabili King Crimson del geniale Robert Fripp o il leggendario Pawn Hearts degli immensi Van Der Graaf Generator con la stratosferica voce di Peter Hammill, o il cesellato Selling England by the Pound dei migliori Genesis di Peter Gabriel (che si classificò al secondo posto di stretta misura) o l’irriverente Aqualung dove Ian Anderson guidava i Jethro Tull verso rotte blasfeme; e neppure qualcuna delle sofisticatissime opere dei sottovalutati bardi della sperimentale scuola di Canterbury, dai Caravan agli Henry Cow fino ai Gong.

A guidare la classifica e a surclassare cotanta concorrenza fu un disco di un gruppo italiano, e d’origine romana, per giunta. Siamo nel 1972 quando il Banco del Mutuo Soccorso pubblica Darwin!, forse il primo concept album compiuto concepito da una band italiana. Tema e testi di notevole complessità, con l’intreccio di argomenti biologici, cosmologici e filosofici, e con un tasso di irriverenza che all’epoca fece gridare allo scandalo.
Per nulla invecchiati se non anagraficamente i musicisti e la musica, e di sorprendente attualità i testi, in quest’anno dedicato ai 200 anni dalla nascita di Charles Darwin e ai 150 dall’apparizione del suo capolavoro, ossia Sull’origine delle specie per mezzo della selezione naturale o la preservazione delle razze favorite nella lotta per la vita (1859): abbiamo così assistito alla riproposta in concerto di questo capolavoro del progressive italiano.

La performance ha avuto luogo nella suggestiva cornice di Villa Torlonia a Frascati, il 27 giugno scorso, e ha visto il Banco nella formazione originale, con l’aggiunta di una recitazione affidata all’attore Alessandro Haber, preceduta da un’introduzione quasi teatrale ad opera del cantante del gruppo, Francesco Di Giacomo, che in modo semiserio ha cercato di ammaestrare” il pubblico sulle teorie di Darwin.

Le premesse ideologiche del disco del Banco sono in effetti ispirate al darwinismo e alle sue conseguenze: in particolare, viene pienamente accolta l’idea per cui le teorie di Darwin abbiano inferto un colpo mortale alla credenza nella creazione divina dell’uomo e nell’ordine finalistico della natura, voluto dall’intelligent design di un’entità provvidenziale e orientato verso una tendenza intrinseca all’armonia.


Secondo Darwin, infatti, tutte le specie viventi e la loro evoluzione sono determinate da tre fattori principali: 1) La variabilità spontanea delle popolazioni, sia vegetali, sia animali: ciò vuol dire che le variazioni genetiche che spiegano le differenze tra gli individui di una stessa specie sono assolutamente fortuite; 2) la selezione naturale prodotta dall’ambiente, in base alla quale gli individui che meglio si adattano alle condizioni ambientali appaiono anche più favoriti nella lotta per l’esistenza e nelle contese sessuali; 3) la trasmissione ereditaria dei caratteri, sviluppati liberamente e selezionati dall’ambiente, a un numero sempre più ampio di discendenti, finché non si forma una nuova specie.
Il ruolo cruciale delle variazioni fortuite rendeva superflua ogni ipotesi di un’autoregolazione finalistica della natura e permetteva di spiegare l’evoluzione biologica unicamente sulla base di cause meccaniche e naturali. Tuttavia, dato che, secondo Darwin, l’adattamento all’ambiente non produce direttamente caratteri nuovi, ma si limita a favorire la permanenza di alcuni caratteri rispetto ad altri, il modello darwiniano è meno rigido e deterministico di quanto si pensi: sono i caratteri genetici intrinseci dell’individuo a essere prioritari, ma essi sono frutto di una variazione casuale di partenza che non si combina agevolmente con previsioni ferree e necessitate.

Così, l’evoluzione biologica non può essere rappresentata come una linea retta che dalle forme più elementari di vita condurrebbe fino alle scimmie antropomorfe e all’homo sapiens. È più corretto dire che l’evoluzione è un processo aperto, costituito da salti e deviazioni impreviste, da tentativi ed errori, da rami secchi e discendenze interrotte fino a possibili regressioni a forme di vita più primitive.
Qualcuno potrebbe obiettare che i temi darwiniani non si prestano particolarmente ad una trasposizione musicale e poetica, in nome di un’astratta separazione tra la creatività artistica e i risultati delle scienze. Ma si tratterebbe di un giudizio erroneo ed affrettato. Il connubio tra poesia e concetti scientifici risale almeno al De rerum natura di Lucrezio e, quanto al darwinismo, esso trovò una notevole trasposizione nella visione pessimistica e agnostica di Thomas Hardy, che ci sembra molto vicino alle liriche del Banco
Il grande scrittore inglese obliterò ogni visione provvidenziale dietro lo spettacolo della pena di vivere e dello struggle for life, come si evince dalla poesia Hap (Il caso, 1898): “Crass Casualty obstructs the sun and rain,/And dicing Time for gladness casts a moan” (La fortuna balorda ostruisce il sole e la pioggia,/E il Tempo biscazziere per allegria getta i dadi di un lamento). L’idea centrale di Hardy, che fonde abilmente il Darwin di On the Origin of Speciescon lo Schopenhauer di Die Welt als Wille und Vorstellung (Il mondo come volontà e rappresentazione, 1818-19) e la sua concezione della volontà ciecamente operante, è forse espressa nella maniera più pregnante da Sue Bridehead, una delle protagoniste del romanzoJude the Obscure (1895): “Il mondo somigliava a una stanza o a una melodia composta in un sogno; si presentava come mirabilmente eccellente per un’intelligenza semi-desta, ma irrimediabilmente assurdo allorché ci si è completamente svegliati. La Causa Prima aveva lavorato automaticamente come un sonnambulo, e non riflessivamente come un saggio.
Temi analoghi presentano appunto i testi del Banco, che non a caso vennero percepiti all’epoca come provocatori e rivoluzionari. E questa carica dirompente si è mantenuta intatta e vitale anche durante il concerto, che ha seguito fedelmente la tracklist dell’album originario.


Stupefacente ancora oggi la possente voce di Di Giacomo, quasi da baritono, che senza il benché minimo tremolio ha accompagnato le tastiere di Vittorio Nocenzi, le chitarre di Rodolfo Maltese e Filippo Marcheggiani, il basso di Tiziano Ricci, la batteria di Maurizio Masi e i fiati di Alessandro Papotto. E questa voce ha cominciato a cantare le liriche all’interno del primo brano, dopo qualche minuto di introduzione strumentale. Brano che si intitola significativamente L’evoluzione. Evoluzione della musica come emblema del progressive ed evoluzione dell’universo senza necessità di postulare una Causa Prima: “Prova, prova a pensare un po' diverso/niente da grandi dèi fu fabbricato/ma il creato s'è creato da sé.

La visione è senz’altro orientata verso un deciso materialismo: sono solo cellule, fibre, energia e calore”ciò che spiega la genesi del cosmo e della vita. Ogni creazionismo di matrice biblica viene apertamente contestato: “E se nel fossile di un cranio atavico/riscopro forme che a me somigliano/allora Adamo non può più esistere/e sette giorni soli son pochi per creare/e ora ditemi se la mia genesi/fu d'altri uomini o di quadrumani.
E come il cosmo si è originato da pochi elementi, così il progressive ha dilatato i confini del rock ampliando la base blues, aprendosi al jazz e alla musica classica, utilizzando i cosiddetti metri additivi (ossia i tempi dispari), che caratterizzano questo brano e tutti gli altri dell’album. Notevolissimo l ’uso dei sintetizzatori che richiamano alla mente il dispiegarsi dell’universo dal caos originario, scene di origini primordiali e vulcani in eruzione.
Dopo i 20 minuti del primo brano, che si chiude con una polifonia strumentale memore degli impasti sonori dei Gentle Giant, si viene proiettati ex abrupto nell’evoluzione della specie umana: La conquista della posizione eretta ci ricorda irresistibilmente la scena iniziale di 2001: Odissea nello spazio, nella quale il genio di Stanley Kubrick aveva messo in scena una tribù di australopitechi che si ergevano trionfanti, dopo aver conquistato la capacità di camminare come bipedi eretti, brandendo un osso d’animale trasformato in arma offensiva. Prima di trasformarsi in ominide, la scimmia antropomorfa cammina a quattro zampe, inseguendo l’odore di bestia” e l’orma di preda. Poi, provando e riprovando (il trial and error, che daDarwin stesso a Karl R. Popper caratterizza così tanto l’intelligenza umana!), ergendosi e cadendo ripetutamente, si avvierà verso la definitiva emancipazione dal mero stato animale, proiettandosi verso traguardi infiniti: “E dove l’aria in fondo tocca il mare/lo sguardo dritto può guardare.


Segue poi a mo’ di intermezzo la Danza dei grandi rettili: il mellotron e le chitarre intrecciano una sorta di ballo funky-progressive. Poco importa che cronologicamente questo brano avrebbe dovuto precedere il secondo: come è noto, infatti, i dinosauri si sono estinti molti milioni di anni prima della comparsa dei primi ominidi. Ma l’anacronismo serve anche a sottolineare la dimensione profondamente “preistorica” in cui si muove tutto l’album e la performance che ne deriva.
Dalla preistoria si passa comunque alla protostoria con Cento mani e cento occhi. Siamo immersi in una dimensione hobbesiana, dove cominciano a formarsi i primi consorzi sociali, seppure finalizzati alle battute di caccia: “Laggiù altri ritti vanno insieme/insieme stan cacciando carni vive/bocche affamate braccia forti/scagliano selci aguzze con furore. Si pone però il dilemma all’incerto ominide: unirsi alla forza di cento mani e alla vigilanza espressa da cento occhi, propri di esseri che diventeranno da branco una tribù e costituiranno prima villaggi e poi città? Oppure fuggire dagli altri uomini, praticando un solitario bellum omnium contra omnes?
Il vero culmine poetico viene però toccato con 750.000 anni fa ... L'amore, forse la canzone più celebre del disco. Il sentimento dell’amore viene espresso con gesti delicati, che precedono addirittura l’elaborazione di un vero e proprio linguaggio verbale: “Se fossi mia davvero/di gocce d'acqua vestirei il tuo seno/poi sotto i piedi tuoi/veli di vento e foglie stenderei. Ma “il labbro inerte non sa dire niente” e quindi nella mente dell’ominide si mescola l’istintiva brama di possesso con un’oscura consapevolezza dell’impossibilità di possedere una donna che non è stata prima gentilmente corteggiata. Sembra di sentire il poeta statunitense Langdon Smith (1858-1908), che nella celebre poesia Evolution, quasi immedesimandosi in esseri primitivi, dice che “Mindless we lived and mindless we loved” (Dimentichi abbiamo vissuto e senza pensieri abbiamo amato).



Il concerto volge alla conclusione con un’accorata meditazione sul destino dell’umanità. È Miserere alla Storia, dove i versi “Quanta vita ha ancora il tuo intelletto/se dietro a te scompare la tua razza?, alludono sinistri alla possibile autodistruzione del genere umano. E in effetti, l’ultimo brano dal disco, Ed ora io domando tempo al Tempo, ed egli mi risponde…non ne ho! sembra scandire le eterne domande che assillano gli uomini dai loro albori: qual è la nostra vera origine e quale sarà la nostra fine? Qual è il senso del tempo?
“Ruota eterna, ruota pesante/lenta nel tuo cigolio/stai schiacciando le mie ossa e la mia volontà: è la ruota del Mulino di Amleto, per usare il titolo di un libro di Giorgio De Santillana ed Hertha von Dechend, che coincide con il tempo ciclico e qualitativo, ritmato da scansioni scritte nel cielo, fatali perché si identificano con il Fato stesso.

A questo punto, conclusa l’esecuzione del disco, tocca ad Alessandro Haber riprendere alcuni brani leggendone i testi senza accompagnamento musicale e dando una veste teatrale a quella che Darwin chiamava The Descent of Man (l'origine dell'uomo).

Il concerto continua ancora con la ripresa de L’evoluzione e con due altri brani dalla produzione del Banco, la pacifista R.I.P. e Non mi rompete: una conclusione perfetta per un connubio tra il progresso nella scienza e il progressive nella musica.




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