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mercoledì 23 novembre 2016

OTEME- L’Agguato, L’Abbandono, Il Mutamento-di Claudio Milano


OTEME
L’Agguato, L’Abbandono, Il Mutamento
2016
Ma.Ra.Cash Records / Distribuzione www.SELF.it


Tracks Listing
1. La Grande Volta [02:23]
2. Sarà il Temporale [03:38]
3. Bianco Richiamo [03:22]
4. Camminavo [06:38]
5. L'Agguato [02:26]
6. L'Abbandono [03:48]
7. Il Mutamento (Bolero Secondo) [01:59]
8. Dopo la Pioggia [05:00]
9. Tracce nel Nulla (I-VII) [25:48]
10. Un'Altra Volta [01:52]

Durata totale: 57:05
Line-up / Musicisti
- Stefano Giannotti / voice, piano, classic&electricguitars, banjo, Indianorgan, Jew'sharp, percussion
- Pierluigi Papeschi / guitar
- Milko Ambrogini / bass
- Emanuela Lari / voice, keyboards
- Valeria Marzocchi / flute, piccolo
- Linda Matteucci / flute
- Giorgio Berrugi / clarinet
- Lorenzo Del Pecchia / bassclarinet
- Nicola Bimbi / oboe, English horn
- Marco Donatelli / bassoon
Tracce cardine: Dopo la Pioggia/L’Abbandono/Camminando

Voto: 7.5

Premessa:
E se davvero, fuori dagli obblighi formali e culturali del mainstream, la musica oggi avesse così assottigliato i confini tra i generi, da annullarli? E’ stato un percorso assai lungo e difficile, iniziato dopo la metà degli anni ’60 e fatto di entusiasmi, quanto di diffidenze, ma che oggi sembra essere arrivato a pieno compimento. Lo racconta il jazz più ispirato(quello nordeuropeo, ma anche i percorsi di Gianni Mimmo, Gianni Lenoci, Bruno Romani, Massimo Falascone…), il gran caos che alberga nella rifondazione delle avanguardie classiche, ma anche...la musica popolare. Ne racconta, quest’ultima opera di Stefano Giannotti e del suo progetto OTEME (Osservatorio delle Terre Emerse).

Il disco:

Si inizia con La Grande volta, brano che potrebbe avere come sottotitolo “Frank Zappa in Africa”. Armonizzazioni jazz, suggestioni e scale mediorientali. Stefano Giannotti, si afferma il più grande arrangiatore italiano contemporaneo, considerando e non escludendo, alcun ambito, giacché, tutti gli ambiti ha esperito, dal rigore classico, alla scrittura di commenti sonori, all’improvvisazione. In Sarà il temporale, compare la voce, le meravigliose immagini dei testi, alla continua ricerca della bellezza, seguono delle metriche impervie e assai ritmiche, pur non rinunciando a melodie che rimangono nella mente, per quanto forti di continue trascolorazioni (il tutto a metà tra lied neo-lirico e canzone astratta). Forte è il richiamo all’ultimo Battisti, mentre la voce riporta alla mente Elio e negli intervalli, a Wyatt (è quando le fonti diventano le più varie, che nasce “il nuovo”), il tutto trasportato a casa del più ispirato Rock in Opposition, che qui però, perde ardori e morbidezze canterburiani, per divenire matematica capace di emozione. Non ci sono mai asperità nella composizione, nessuna dissonanza. Le trame polifoniche, si snodano con grande levità, lasciando un senso di “morbidezza” addosso. E’ un esercizio percettivo quello messo in atto, fatto di sottili invenzioni, mai urlate, ma di una rigorosità che rasenta la purezza più assoluta. Ne è un esempio Bianco Richiamo, col suo fare evocativo. Percussioni, certo tra Africa e Medioriente, strumentazione che fa suoi Boulez, Zappa (gli episodi più sinfonici di “HotRats”,Little Umbrellas, su tutti), Stravinsky. Qua e là affiora qualche progressione post rock a la Rachel’s, o qualche sentore da camera che riporta alla mente la Penguin Cafe Orchestra, ma si tratta di brevissimi “flashback”, su un telaio che ha un ordito assolutamente personale. Una musica di assoluto confine, in realtà molto più vicina alla classica di oggigiorno (Nico Muhly), che ha abbandonato durezze, in favore di una distensione che trovi un legame meno cerebrale col suo pubblico. Camminando, in questo senso, è una vera e propria gemma, dal finale splendido, giostrato tra noises di chitarra e un bell’assolo di clarinetto. L’agguato, esordisce direttamente a casa di Stravinsky (Storia del Soldato), come chiamare questo anche “chamber rock”, è impossibile, nonostante basi ritmiche trattate elettronicamente e a un passo da un “tribal-jungle” che subito si scompone e tornare nei reami di Edgar Varése (Ionisation). Questa è musica classica. Punto. La forma canzone, resa distonica, i piccoli interventi di elettricità, sono solo funzionali ad essa, come nel percorso “romitelliano” e guai, ma davvero guai a rapportare questo disco alle facilonerie buffonesche del “progressive rock” contemporaneo e non. Qui non c’è esibizione alcuna. Brian Eno, parlava di come nel rock si tenda a riempire e lui si assicuri invece (oggi), di svuotare. Qui, ogni tassello, non potrebbe essere mosso in altro modo e non c’è una minima connessione alla “manifestazione”, il che è un autentico miracolo. Il peccato è invece, come siano portate nei teatri musiche di Johnny Greenwood(cosa in merito alla quale avrei assai da ridire) o Nils Frahm (non da meno, in negativo), in qualità di classica e non questa (allo stesso modo, che è ben altra cosa, potrei dire di Francesco Zago e dei sui Kurai, più che di Yugen, giacché Zago, senza averne consapevolezza, ha creato un parallelo tra rock e classica, pari a quello che Romitelli aveva creato col rock e distinguerli, a tratti, è impossibile, quanto meraviglioso). Troppa diffidenza viene ancora riservata all’Italia e al suo sottobosco di ricerche, che in realtà sono tra le più floride e rimarchevoli della scena mondiale (un invito a tal fine a dare una lettura a “Solchi Sperimentali Italia” di Antonello Cresti – Crac Edizioni).L’eleganza degli ottoni, in contrappunto con arpa, su L’abbandono, sono un’autentica meraviglia, una di quelle cose che non si dimenticano facilmente, se si ha mente aperta a cosa sia stato prodotto nei ranghi dell’avanguardia dal secolo scorso ad oggi e la lunga sospensione della nota finale, ne è sugello carico di magia e tensione. Più giocoso il bolero di Il Mutamento, che flirta anche con la musica sudamericana. Torna la voce in Dopo la pioggia, che accoglie un post-romanticismo struggente e questa volta, davvero. Un brano che fa della sua semplicità il punto di forza, con testo esistenzialista meraviglioso e intervento di voce da contralto a donare incanto, fino al crollo finale, a diffondere un senso di profonda inquietudine e risollevarsi infine in fitti intrecci d’arrangiamento di fiati emelodia più mossa negli intervalli. Per chi scrive, il brano più bello e rappresentativo del lotto, assieme a L’Abbandono e Camminando, da ascoltare più e più volte, per afferrarne i segreti che lo rendono tanto, facile, complesso, non manifestato con evidenza, eppure dolente. Il pop-rock, arriva con la lunga suite Tracce nel Nulla, qui l’ermetismo “dada”, comunque significante del testo, si alleggerisce, anche nelle trame assai fitte dei fraseggi ritmici del canto e nella cacofonia di alcune chiuse e cadenze dal suono aspro, a un passo da una sorta di “hip hop atonale”, grazie alla bellezza senza “se e ma”, degli arrangiamenti di fiati, che in tutto il disco, rappresentano il punto più alto della composizione. Brusca interruzione intorno agli undici minuti del brano, con favoloso arrangiamento per chitarra classica, clavicembalo, flauto, harmonium, fiati vari e che qui invece raggiunge il culmine della dissonanza, che si stempera in drones e lunghi accordi di pianoforte. Questo, è l’unico brano del disco a cui può essere approcciato l’appellativo “progressive rock” e quello che pur mantenendo una chiara identità, in alcune soluzioni, ha rimandi assai facili ad un genere che di sé, già molto, se non troppo, ha raccontato. Al minuto 16’11, inizia una nuova sezione, con percussioni assai creative, su cui si innestano flauto, harmonium, chitarra a la Hackett. Anche questa sezione, deflagra in territori informi, sorretti da tastiere e drones di chitarra. La mancanza di teatralità, ma anzi, la assoluta ricerca di asetticità degli intrecci vocali di Giannotti ed Emanuela Lari, chiede all’unico impianto strumentale di definire le dinamiche, cosa, a volte riuscita, a volte no, cosa che rende gli oltre venticinque minuti del pezzo, un po’ difficili da ascoltare con adeguata e continua attenzione (senza andare a ricercare gli estremi espressivi di Tim Buckley, Hammill, Gabriel, Ian Anderson, Roger Wootton, Fish, qui manca anche quel senso di dramma, inteso, come “dare da sé”, che è stato della Krause e Catherine Jauniaux). A chiudere, Un’altra Storia, bozzetto mediterraneo, dai sapori ancora sospesi tra Medioriente e Mitteleuropa. Gustosissimo. In breve, una collezione di bozzetti di scrittura classico contemporanea, a cui sono associati lied altrettanto moderni, senza risultare mai privi di grazia, che finché non superano i 5-6 minuti, non solo, non hanno equivalenti nella scrittura, ma sanno intrigare e a tratti emozionare. Disco che potrebbe avere un’audience amplissima, dagli amanti della classica, del jazz, della musica etnica contaminata, al cantautorato colto, ma raggiungere anche i grandi festival. Nel suo essere più spoglio, L’Agguato, L’Abbandono, Il Mutamento, sa essere a tratti, anche più gustoso dell’episodio che lo ha preceduto, Il Giardino Disincantato (notare, che per curiosa sorte del destino, questo, doveva essere il disco d’esordio e non l’opera seconda…). Un album che conferma Stefano Giannotti compositore e arrangiatore illuminato, senza dubbio, tale da creare attorno a sé un seguito da culto, che aumenterà con gli anni e gli consentirà di avere l’eco internazionale che merita, giacché tutto questo è, tranne che musica destinata a rimanere confinata nella patria che gli ha dato origine. A suono e geometrie che non cercano steccati, non si possono imporre barriere di diffusione alcuna. Vivamente consigliato l’ascolto e ampiamente auspicata adeguata accoglienza in ambienti accademici ed extra-accademici poco affini alla liberazione ormonale di tribalismi contemporanei nei nuovi luoghi di culto e aggregazione, perché è questa musica per immagini della mente e flussi emotivi, sottopelle.
Claudio Milano


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