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venerdì 18 novembre 2016

ALCUNE RIFLESSIONI SUI MITI MUSICALI, di Franco Vassia


ALCUNE RIFLESSIONI SUI MITI MUSICALI

Un caro amico, colpevole di aver espresso una semplice opinione sugli annessi e connessi che gravitano intorno al mondo musicale, è finito sulla graticola del web. La sua colpa? Mortale! Quella di essere un amante della buona musica e aver dissipato gran parte della sua vita per correrle incontro, spesse volte controvento: “Sorry, ma non spendo 80 euro per andare a vedere uno che sembra ti stia facendo un favore a suonare. Non puoi fotografare, non puoi filmare, non puoi parlare, non puoi scoreggiare... Con tutto il rispetto, ma il rock per me è libertà e condivisione, tutto quello che manca in certi concerti dove tutto è ‘omologato’, freddo e calcolato! Mi hanno rotto i coglioni, queste ‘prime donne’, questi esseri che si credono delle divinità soprannaturali, che camminano sollevati da terra, che ti concedono solo di guardarli...”. La maggior parte dei commenti denigratori si sono soffermati nel guardare il dito piuttosto che la luna, attaccandosi alle foto, ai filmati e alle scoregge cose, comunque, che è sempre bene non fare. Nello scrivere, spesse volte si usa l’iperbole ma quel che è sfuggito, agli occhi dei più, è il nocciolo della questione: “Il rock per me è libertà e condivisione, tutto quello che manca in certi concerti dove tutto è ‘omologato’, freddo e calcolato...”. Amo anch’io i King Crimson (e Fripp, nonostante tutto e nonostante le tre batterie che, in quanto a provocazione, non sarebbero venute in mente neppure a Salvador Dalì..) alla follia, ma siccome la penso esattamente come Wazza (al secolo Aldo Pancotti, core de Roma...) devo dire che neppure io sono andato a vederli. Mi infastidivano i 160 euro spalmati in due date (diverse tra loro in quanto a scaletta ma buonissime per circuire gli aficionados) ma soprattutto per il clima da guerra fredda e da campo di concentramento, con tanto di laser, sgherri e rottweiler muniti di chitarra. Assistere a un concerto indottrinato - fin dall’inizio - in perfetto stile Grande Fratello di Orwell, controllato a vista e col terrore di muoverti quasi fossi all’Asilo Mariuccia, sono timori e sensazioni che non rientrano più in quelle che - nonostante qualche migliaio di concerti vissuti - sono le mie corde. Sarebbe troppo tornare a essere degli appassionati ed evitare il ruolo di sudditi? Come sarebbe stato bello, e dignitoso, se l’intera platea, anziché osannarle sulle onde di “ciao mama, sono qui”, si fosse negata alle fotografie imposte a Tony Levin.

A prescindere dal valore, dalla passione e dall’amore per la buona musica, quel che fa specie è la spocchia e la presunzione di alcuni miti invecchiati ma pur sempre convinti - fors’anche giustamente - di essere i soli depositari del verbo. Così come patetica e puerile è la danza di un’altra istituzione che ha segnato la storia del folk e del rock: Bob Dylan. Che sia ormai un lontano parente del menestrello timido e spaurito degli inizi lo si evince dagli ultimi lustri, dove anche al fan più incallito - perché provocatoriamente deformate in modo che il pubblico non le possa cantare in coro - sfuggono e sfioriscono nei suoi concerti anche le ballate più celebri. Il Nobel, più che meritato, era la chiave dorata affinché il rock avesse finalmente la sua giusta reputazione. Il puerile balletto del “vado, non vado (a ritirare il premio, ndr), non mi faccio trovare”, è il metro di misura di quanto certi artisti abbiano da tempo dimenticato le loro origini: quelle di suonare con la gente e per la gente.

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