ALCUNE RIFLESSIONI SUI MITI MUSICALI
Un caro amico, colpevole di aver espresso una semplice opinione sugli
annessi e connessi che gravitano intorno al mondo musicale, è finito sulla
graticola del web. La sua colpa? Mortale! Quella di essere un amante della
buona musica e aver dissipato gran parte della sua vita per correrle incontro,
spesse volte controvento: “Sorry, ma non
spendo 80 euro per andare a vedere uno che sembra ti stia facendo un favore a
suonare. Non puoi fotografare, non puoi filmare, non puoi parlare, non puoi
scoreggiare... Con tutto il rispetto, ma il rock per me è libertà e
condivisione, tutto quello che manca in certi concerti dove tutto è
‘omologato’, freddo e calcolato! Mi hanno rotto i coglioni, queste ‘prime
donne’, questi esseri che si credono delle divinità soprannaturali, che
camminano sollevati da terra, che ti concedono solo di guardarli...”. La maggior
parte dei commenti denigratori si sono soffermati nel guardare il dito
piuttosto che la luna, attaccandosi alle foto, ai filmati e alle scoregge cose,
comunque, che è sempre bene non fare. Nello scrivere, spesse volte si usa
l’iperbole ma quel che è sfuggito, agli occhi dei più, è il nocciolo della
questione: “Il rock per me è libertà e
condivisione, tutto quello che manca in certi concerti dove tutto è
‘omologato’, freddo e calcolato...”. Amo anch’io i King Crimson (e Fripp,
nonostante tutto e nonostante le tre batterie che, in quanto a provocazione,
non sarebbero venute in mente neppure a Salvador Dalì..) alla follia, ma
siccome la penso esattamente come Wazza
(al secolo Aldo Pancotti, core de
Roma...) devo dire che neppure io sono andato a vederli. Mi infastidivano i 160
euro spalmati in due date (diverse tra loro in quanto a scaletta ma buonissime
per circuire gli aficionados) ma soprattutto per il clima da guerra fredda e da
campo di concentramento, con tanto di laser, sgherri e rottweiler muniti di
chitarra. Assistere a un concerto indottrinato - fin dall’inizio - in perfetto
stile Grande Fratello di Orwell, controllato a vista e col terrore di muoverti
quasi fossi all’Asilo Mariuccia, sono timori e sensazioni che non rientrano più
in quelle che - nonostante qualche migliaio di concerti vissuti - sono le mie
corde. Sarebbe troppo tornare a essere degli appassionati ed evitare il ruolo
di sudditi? Come sarebbe stato bello, e dignitoso, se l’intera platea, anziché
osannarle sulle onde di “ciao mama, sono
qui”, si fosse negata alle fotografie imposte a Tony Levin.
A prescindere dal valore, dalla passione e dall’amore per la buona
musica, quel che fa specie è la spocchia e la presunzione di alcuni miti
invecchiati ma pur sempre convinti - fors’anche giustamente - di essere i soli
depositari del verbo. Così come patetica e puerile è la danza di un’altra
istituzione che ha segnato la storia del folk e del rock: Bob Dylan. Che sia
ormai un lontano parente del menestrello timido e spaurito degli inizi lo si
evince dagli ultimi lustri, dove anche al fan più incallito - perché
provocatoriamente deformate in modo che il pubblico non le possa cantare in
coro - sfuggono e sfioriscono nei suoi concerti anche le ballate più celebri.
Il Nobel, più che meritato, era la chiave dorata affinché il rock avesse
finalmente la sua giusta reputazione. Il puerile balletto del “vado, non vado
(a ritirare il premio, ndr), non mi faccio trovare”, è il metro di misura di
quanto certi artisti abbiano da tempo dimenticato le loro origini: quelle di
suonare con la gente e per la gente.
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