BigSteps
e Anuseye
nuovi
cosmonauti a divellere in suono, le mura del Jazz Club Quattro Venti
di
Claudio Milano
La serata, venerdì 17 maggio è una di quelle attese e pubblicizzate da tempo.
Fragagnano è un piccolo centro
dell'entroterra tarantino, che nonostante un completo anonimato “in essere”,
continua a dare i natali ad artisti in ogni ambito, alcuni dei quali di fama
internazionale. E' pure storicamente, polo provinciale devoto a “blues” (in
realtà ben accolto ma non suonato da musicisti del luogo), un tempo di dimora
presso il piccolo pub Ombra Blues (ora pizzeria con altro nome e altra
storia), sul vecchio corso, poi presso il Brazen Head, dello stesso gestore,
Vincenzo Antonucci.
Dal 2000 però il polo d'attrazione
in quanto a musica e teatro è principalmente l'Osteria Jazz Club Quattro Venti.
Fondata da Michele Todaro e con la
direzione artistica in buona misura a discrezione del M° Enzo Lanzo, il luogo è
fucina jazz per eccellenza.
Nelle storiche e spesso
incendiarie jam d'inizio secolo, qui si sono avvicendati quasi tutti i
nomi che hanno fatto grande in Italia il verbo afro-americano nel mondo.
Non sorprende dunque nell'entrare,
di vedere sul piccolo palchetto come “forato” da un trompe l'oeil ad
opera di Chiara Chiloiro, una gigantografia di Franco Cerri, che pure da qui è
passato.
Accanto alla programmazione
istituzionalizzata, si avvicendano però altri eventi, teatro come detto, ma
anche presentazioni di libri, dibattiti e certo concerti di musiche di ogni
sorta, dalla sempre ben accolta “pizzica” (di casa a “La'nchianata” di
Torricella, altro piccolo comune non distante), al rock, il cantautorato
e più di rado qualche dj set.
E' questa evidentemente serata
“rock”, dacché qui in zona il rock più abrasivo e “tossico” è quello
celebrato (Iggy Pop, Lou Reed, l'epopea dark-wave, il grunge e il
resto a far da contorno).
Ma è anche serata “stoner” e per
la prima volta in paese, perché sul palco, assai attesi sono gli Anuseye, band
nei quali oggi milita al basso Giovanni D'Elia, ex Karma in Auge, prima band
rock del luogo ad avere inciso e pubblicato un disco (un EP, “Memorie
Disperse”, nel 2010 e poi un album completo nel 2012, “Rituali ad Uso e
Consumo”, prima di un altro EP , “Socialnoia”, che pur consolidandone il plauso
collettivo ha consegnato i singoli membri a strade diverse).
C'è diversa gente, prevalentemente
con un'età che va dai 20 ai 45 anni, ad affollare il piccolo ingresso che dà
direttamente sulla strada provinciale.
BigStep
– il concerto
A salire sul palco, in qualità di opener
sono i BigStep, anche questa cosa assai inusuale, non si usa avere band
d'apertura in loco.
Sistematomi a sedere ad un tavolo
in prossimità del palco con carta e penna, non nego la mia sorpresa.
E' subito inizio al fulmicotone
per la sezione ritmica (e del resto il duo da basso e batteria è composto).
Il basso emerge nella sua
eccezionalità, per suono, identità specifica (è stato costruito come “pezzo
unico” da Mauro Corvaglia, nella liuteria McLiuter di Lizzano, ad appena 3 km
da qui), tecnica, effettistica applicata, proprietà di linguaggio, disegno
compositivo, impatto scenico.
Si inizia con suggestioni math-rock
ad evocare i migliori Faith No More, ma con coloriture “desert”, in un esposto
quasi “cantato” affidato allo strumento che qui avvicina più una chitarra
elettrica fatta orchestra tutta.
A ruota il secondo brano, sulla
stessa linea seppur di primo acchito meno convincente. Prende quota progressiva
invece, fino a divenire un autentico viaggio cosmico di una potenza magnifica.
Impossibile non farsi venire in mente le progressioni e il suono ad esse
affidato dal basso di Chris Squire su “Yessongs”.
Non meno impressionante l'assalto
in “slap” della terza traccia, appoggiata a doppio pedale di batteria e
variazione ritmiche di gran pregio, a disegnare poliritmie caleidoscopiche.
Le trame sono sempre dense, è
incredibile pensare a come la band possa produrre un simile impatto pur
essendo un duo e senza ausilio di laptop a colorarne la materia. Il
lavoro sui tom della batteria si fa asfittico, prossimo al parossismo e
si inizia ad avere la certezza di avere avvicinato “per caso”, qualcosa di
realmente inaudito.
Cerco segnali di materiale in
distribuzione, CD, vinili, ma mi viene detto che il duo non ha ancora inciso...
mi sembra così assurdo, ma è il 2019 signori e questa è la realtà.
Le linee di melodia e armonia
(perché il basso è usato spessissimo ad armonizzare con bicordi, triadi) del
pezzo a seguire usano intervalli arditissimi, in mezzo c'è davvero il miglior
“avant rock” strumentale mondiale, da quello che fu (Bill Bruford Quartet;
Bruford Levin Upper Extremities; Mick Karn) a quello che è oggi (TU; le epopee
David Torn e Marc Ribot tutte; The Nels Cline 4; Secret Chiefs 3...).
Ciò che manca a tratti è solo la
presenza di qualche apertura sonica.
La coda con batteria in controtempo
ricercatissimo è cosa per palati raffinatissimi e l'uso di scale cromatiche con
le armonizzazioni prima dette, rende tutto tanto più prezioso.
Neanche a chiamarle le aperture e
arrivano col brano a seguire (nessuna presentazione nel mentre, solo musica).
Armonizzazioni aperte (possibile
che quel basso di corde ne abbia solo 5?) e singhiozzare ritmico a fermare
l'aria in modo clinico, sembra di precipitare nel baratro più cupo e
l'invenzione ritmica si fa sempre più importante, al pari di un'intesa matematica.
La lunga durata dei pezzi è tale
da rendere il suono scorrevole, ampiamente discorsivo.
Il penultimo brano ha trame
variegate, ma non riesce a forare del tutto la cortina dell'ascolto, se non nei
momenti più serrati.
Dopo l'entusiasmo iniziale, il
pubblico del luogo alla sola idea e alla sola parola “progressive”, che esce
dalla bocca di qualcuno, inizia a reagire con diffidenza... “atavica”.
In una dimensione ancora più
morbida esordisce il brano conclusivo che trova però e subito, variazioni
ritmiche stratosferiche e fughe virtuose, picchettate dai piatti della batteria
a fermare il respiro e a richiamare un'attenzione che cresce.
L'atmosfera torna densissima,
cupa, evocativa. La chiusura “noise” è pur essa non meno che magnifica e
soprattutto attinente a quanto sta ora per giungere su palco.
Un plauso sincero.
Al
basso: Peppe Scalone;
alla
batteria: Antonio Airò.
Le
composizioni dei BigStep sono attribuite ad ambo i musicisti.
Qui
la loro pagina Facebook: https://www.facebook.com/BigStepMusic/
Anuseye
– il concerto
E' quasi mezzanotte quando salgono
sul palchetto gli Anuseye, orario qui desueto tanto più per un venerdì sera non
festivo o estivo.
La loro tavolozza di colori è ben
più ampia. Il basso solidissimo di Giovanni D'Elia emerge appieno. La voce di
Claudio Colaianni, di cui non si comprendono per bene i testi, complice anche
un registro assai grave che si distingue per declamazione più che per canto
italiota in prima linea, trascina progressivamente nel racconto “mentale” che
va a definirsi.
L'elettrica di Stefano P Jesus ha
un suono sommerso da wah wah, la batteria di Damiano Ceglie è incisiva e
marca in maniera marziale gli andamenti picchiando con vigore metronomenico su tom
e i piatti.
Tutto è “sincrono” e diretto in un
wall of sound dichiarato e pure appare come “rallentato” nell'enunciare
con determinazione ieratica (ma sotto Roipnol) esposti che si muovono nell'aria
densificandola di onde sinuose e magmatiche.
Uno schermo proietta immagini
psicotrope ordite in un vero e proprio meltin' pot di citazioni underground
(cinematografiche e non) e su una regia oggettivamente illuminata.
E' un baleno e si è già al terzo
brano, non meno che eccellente. Qui le maglie del suono incontrano variazioni
armoniche che hanno crolli verticali, al punto da apparire (benedetta
l'elettronica applicata agli strumenti) microtonali, ma l'organizzazione
armonica tutta è non meno che mesmerizzante.
Tutto suona perfetto, tange e
satura cellule. E' “di genere” certo, ma perfettamente a fuoco. L'identità
maggiore nel mucchio, spetta a parere di chi scrive, alla chitarra solista.
D'impatto a muso duro il quarto
pezzo, la voce non emerge in frequenze dal magma che si fa via via più denso,
ma il suono è magnifico, un afflato psichedelico che resuscita i Kyuss in
chiave adrenalinica.
Tutto si muove come in un Festival
stoner di gran lusso, per quanto il locale sia oggettivamente piccolo e
sempre più deserto, visto l'orario.
Osservare le immagini sul
videoschermo ascoltando la musica, è un piacere difficilmente descrivibile.
Pure la band è bellissima da vedere in quanto a tenuta di palco. Rockers
purosangue che ad aprire Malstrøm tra queste mura nate per tutt'altro.
Non a caso di una potenza inaudita
il brano a seguire. Il gioco è più o meno lo stesso, con un muro sonico a
muoversi in modo unilaterale e l'elettrica solista o il basso, a turno, a
ricamare geometrie trasversali.
L'impatto però qui si fa
devastante e puramente contemporaneo, in barba a qualsiasi reminiscenza dei '90
e due centimetri sopra i Motorpsycho.
Davvero, sembra di essere in una
dimensione spazio-temporale altra.
Il brano che segue (i titoli
vengono enunciati, ma non si capisce molto di quanto detto) trova nella
magmatica e neanche a dirlo, imponente sezione centrale, il suo apice.
Fango (e la mente torna indietro a
Sonoria del 1995, trasformata in una “fangoria” da piogge torrenziali, mentre
sui palchi si avvicendavano Jimmy Page & Robert Plant, Faith No More, The
Cure, Massimo Volume, C.S.I., un redivivo e in grandissima forma Terence Trent
D'Arby, Paul Weller, Sheril Crow...).
Un acquitrino che dura a lungo,
come il lento movimento di un ghiaccio in progressiva disgregazione.
Se questo è il “suono del Giorno
del Giudizio”, è cosa ben accetta (chi è memore, intorno a metà anni '90, dei
Cathedral di Lee Dorrian, quelli del “Carnevale Bizzarro”, potrebbe capire).
Un brano che si dispone in un
finale lentissimo, dalla spazialità pari a sfavillio di lapilli tra poliritmie
assortite.
Ci sono sempre colori assortiti
nel suono Anuseye, ad aprire prospettive diverse dal primo impatto, il che è un
gran bene, perché garantisce dinamiche ad una progettualità talmente a fuoco da
evocare altrimenti agiti altrui.
Giustamente, un brano
applauditissimo.
Altra presentazione con “titolo
criptico” e arriva l'inatteso...
Un brano che si apre già con un
incedere magnifico, quasi una rapsodica citazione a “Set the Controls for the
Heart of the Sun”, ad incontrare però i Nirvana strada facendo.
Un ordito fascinoso, il migliore
fin qui ascoltato.
La sezione centrale affidata ad un
ostinato di basso e ai suoni di chitarra prepara ad un'esplosione che rivela
infine un'identità propria e bella.
E' questo un brano di sensibilità,
corpo, colore, potenza e soprattutto dalle così tante referenze culturali da
suonare “unico” e autentico, senza forzatura alcuna. Un capolavoro vero.
Assai ben strutturata la scaletta
prevede alternanza di brani atmosferici come quello trascorso, ad altri ben più
aggressivi, come quello che ne segue, a chiudere la scaletta.
Un'iniezione energica certo
gradita a chi ama e ha amato gli Smashing Pumpkins post “Mellon Collie”,
ma che trova pure un pubblico non propriamente abituato a “tanta materia”.
Si perché questa sera, in questo
piccolo borgo è accaduto un piccolo miracolo. Quasi mai è qui accaduto che due
proposte, pur così diverse per poetica ma con altrettanto grandi qualità e
peso, si siano esibite sullo stesso palco.
L'abitudine alla luce di verbi extra-rock,
qui di casa, quando essa diviene legge, pur con tecnicismi stellari e titoli
altisonanti, talora ha effetto opposto, cosa che oggi non è accaduta.
Un
sentito grazie a musicisti e organizzatori dell'evento.
Gli
Anuseye sono
Claudio
Colaianni: voce, chitarra
Stefano P Jesus: elettrica solista
Damiano Ceglie: batteria
Giovanni D’Elia: basso elettrico
Stefano P Jesus: elettrica solista
Damiano Ceglie: batteria
Giovanni D’Elia: basso elettrico
L'ultimo
album della band “3:33 333” su Bandcamp: https://anuseye30.bandcamp.com/album/3-33-333
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