Clemente “Canzoni nel cassetto”
(2016)
Di Alberto Sgarlato
Un violino
intenso, drammatico, dalle sonorità più attinenti alla ruvidezza del folk che
all’ostentata perfezione formale della classica, ci introduce alle prime note
di “L’essenziale”, brano che apre “Canzoni nel cassetto” e che diventa quasi un
manifesto del Clemente-pensiero: l’autore ci spiega chi non vale la pena
ascoltare, di chi non è opportuno circondarsi, per ritrovare l’amore delle
piccole cose, il profumo del mare, l’essenziale per vivere. Una canzone
dolcissima, che arriva subito al cuore. Dopo quell’intro di chitarra e violino
entrano tutti gli strumenti, creando un “pieno” bellissimo che prende
immediatamente l’ascoltatore.
Antonio Clemente (che ormai si firma semplicemente Clemente), pittore/cantautore/poeta
di Castelvetrano che – in vari periodi della sua vita – spesso diventa ligure
d’adozione, giunge così al suo terzo album. Il disco completa perfettamente una
trilogia, legata da un fil rouge fatto di emozioni, colori, profumi e sapori
nel cuore dell’artista ma, senza nulla togliere ai due lavori precedenti,
entrambi bellissimi (che si intitolavano “Infinito”
e “Davvero”), questo è probabilmente
il lavoro più completo, più maturo, più intenso dei tre.
Abbiamo parlato
delle emozioni che legano le varie tracce dell’opera clementiana e, appunto, “Piccole emozioni” si intitola il secondo
brano, un delizioso e delicato acquarello in fingerpicking che può a tratti
ricordare la penna di Fabio Concato. Anche qui il tema è quello di “L’essenziale”: tutto il tempo che
perdiamo nella vita dietro a cose, persone, situazioni di cui faremmo
volentieri a meno, dimenticandoci così dei nostri sogni e, appunto, delle
nostre piccole emozioni quotidiane.
“Canzone del poeta bambino” ha questo
bizzarro titolo che sembra un po’ evocare Guccini; il brano, invece, è quello
che procede con l’incedere più duro, più asciutto, rispetto alla dolce magia
delle due tracce precedenti. La storia di questo bambino che sogna correndo nei
prati e guardando la luna, si evolve nella vita triste di un uomo costretto al
precariato e a situazioni di fortuna, finché l’amore di una donna non gli fa
ritrovare almeno un po’ la gioia e la purezza dell’infanzia. I ricami del
flauto, che ben volteggia attorno ai pochi ma giusti accenti del piano, danno
al tutto un tocco quasi progressive rock.
In “Veni l’estati” (viene l’estate, per chi
non è avvezzo al dialetto siciliano), Clemente riscopre le sue origini, canta
in dialetto e ne nasce un brano stupendo, uno dei veri “highlights” del disco,
fantastiche sonorità tra folk e prog che ci riportano a gruppi leggendari come
il Canzoniere del Lazio e la Nuova Compagnia di Canto Popolare. Il testo, per
chi è stato in Sicilia almeno una volta nella vita, fa venire i brividi: un
quadro perfetto, con i sassi caldi per il sole, i fiori bruciati e lo scirocco
che soffia.
“Alla difesa dei sogni” ci riporta un po’
alle due precedenti opere di Clemente, quelle un po’ influenzate dal De Gregori
più dylaniano, con l’armonica a bocca in primo piano e una bella ritmica un po’
country.
“Canzone di Natale” è di nuovo un brano
che va a esplorare le sonorità folk delle due tracce precedenti. Il testo è una
forte denuncia nei confronti di che cos’è diventato il Natale oggi: ipocrisia,
opportunismo, consumismo, cura dell’immagine in primo piano. Stiamo vivendo un
periodo storico difficile, questo è inutile negarlo; eppure sembra che dietro
un augurio di “Buon Natale” si possa buttare alle spalle, come la polvere sotto
il tappeto, la crisi, la disoccupazione, la fame, la guerra.
“Non è un gioco” è forse il capitolo più
amaro dell’intera opera, ben supportato da tappeti oscuri e sonorità tenebrose:
come sta cambiando la società attuale? Arrivismo, arroganza, rabbia, avidità.
“La libertà” ci riporta, dopo due brani
molto drammatici, alla dolcezza delle prime due canzoni. Ritroviamo chitarre
arpeggiate e violini a supporto di una storia che ci racconta quanto sia
importante viaggiare, esplorare, guardarsi attorno, capire, conoscere e,
soprattutto, sentirsi liberi.
“Cuori al vento”: qui Dylan emerge
prepotente nelle note dell’armonica a bocca iniziale, a “condire” un bellissimo
testo che ci dice quanto è importante lottare, cercare emozioni e non lasciarsi
andare mai allo sconforto. E la citazione, a un certo punto, arriva: “Blowin’ in the wind”.
Anche “Tango delle circostanze avverse” ha di
nuovo un titolo dal sapore gucciniano e, in effetti, stavolta, qualcosa del
Maestro di Pàvana, nelle atmosfere, c’è… Storie di bar frequentati da gente
noiosa e che parla a vanvera, finché a un certo punto arriva lei: un amore
bellissimo, seppur fallimentare; una storia problematica, ma emozionante.
“E non ne parliamo più” è, di tutto il
disco, il brano che avrebbe le migliori potenzialità di “hit single”: le
sonorità son quelle del resto dell’opera, giocate su chitarra arpeggiata e
pianoforte, ma melodie e atmosfere virano verso un pop elegante, raffinato,
intelligente e di grande qualità. Un pezzo che meriterebbe tantissimo spazio
nella programmazione radiofonica e televisiva italiana.
“Vivere” ha un arrangiamento complesso,
con intrecci di più archi, ricami pianistici molto variopinti e un bel riff di
chitarra acustica, che riporta Clemente nei territori del cantautorato più
vicino al prog. Un brano interessante che costituisce un’ennesima sterzata in
un album brillante e variegato, ricco di atmosfere.
E si finisce
con una “Stupida canzone” che,
ovviamente, a dispetto del titolo, stupida non è affatto. Siamo di nuovo al
cospetto del Clemente più intimista, che ci parla di sentimenti ingabbiati
nelle regole, spesso troppo severe, della quotidianità. E qui, a sorpresa, fa
capolino anche una marimba ad arricchire l’arrangiamento.
Il brano
finisce, tra gli ultimi tintinnii delle percussioni intonate e l’arpeggio
conclusivo della chitarra, verso i 2 minuti e 40” ma… Dopo un minuto abbondante
di silenzio spunta una Ghost track senza titolo. Clemente sceglie di concludere
il disco così, con un brano semplice, per sola voce e chitarra, nel quale ci
racconta una storia d’amore “bruciata in fretta come una Marlboro”. Il resto è
“rabbia e solitudine”. Un finale pieno di amarezza, che però suona come
un’ottima chiosa in un album per il quale non è eccessivo l’aggettivo
“memorabile”. Una delle perle più preziose nel ricco panorama dell’attuale
cantautorato italiano.
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