Il Cerchio d’Oro
racconta il Cerchio d’Oro
“Il fuoco sotto la
cenere” e altre storie…
di Alberto Sgarlato
Articolo già apparso su MAT2020 di novembre 2017
La scorsa
estate è uscito “Il fuoco
sotto la cenere”, terzo
album pubblicato per la Black Widow Records dalla band
savonese di rock progressivo Il
Cerchio d’Oro, dopo i
riuscitissimi “Il viaggio di Colombo” e “Dedalo e Icaro”.
Avremmo
potuto regalarvi la solita recensione, ma abbiamo fatto molto di più: Athos
Enrile e Alberto Sgarlato di MAT 2020 hanno
incontrato la quasi totalità della band in una vera e propria “riunione” per
parlare del disco e della sua genesi. Presenti all’incontro il
tastierista Franco Piccolini, la sezione ritmica formata dai
gemelli Giuseppe e Gino Terribile, il cantante e chitarrista Piuccio
Pradal, lo storico paroliere Pino Paolino e il nuovo
acquisto Massimo Spica alla chitarra. Assente a causa di
impegni solo il tastierista e chitarrista Simone Piccolini. È
interessante notare che, a parte l’ingresso di Massimo e Simone, tutti gli
altri componenti della band sono componenti storici fin dal 1974! Un
bell’esempio di coesione e di visione d’insieme da dedicare a tutti quei
musicisti, italiani e stranieri, che portano ancora avanti il nome di una band
pur con solo uno o due dei membri originali ancora in squadra.
Il
Cerchio d’Oro ci racconta che “Il fuoco sotto la cenere” è a tutti gli
effetti un concept album, ma vissuto e concepito in maniera totalmente diversa
dai due precedenti: “Il viaggio di colombo”, in realtà, non raccontava
la scoperta delle Americhe, ma piuttosto il “viaggio interiore”, lo
struggimento di un individuo che con coraggio sfidava la storia e la scienza
per dimostrare ciò che riteneva giusto. Stesso concetto alla base di “Dedalo
e Icaro”: la leggenda delle ali di cera la conosciamo tutti, ma qui il
tormento di un padre che vuole liberare il figlio assurgeva a vero
protagonista. E ancora una volta il dramma interiore, il tumulto emotivo è
protagonista di questo “Il fuoco…”, ma non più incentrato su una singola
storia: le canzoni sono tante piccole vicende indipendenti ma legate tra loro
da quel fuoco che, per qualche motivo, arde dentro ognuno di noi. Tutti abbiamo
un fuoco che brucia, anche quando cerchiamo di sopirlo sotto la cenere di un
disagio, di un’apparenza: nel disco troviamo una title track ben
rappresentativa di queste trame e di queste emozioni. Poi c’è il fuoco dettato
dallo spirito di sopravvivenza e dal desiderio di salvezza di “Thomas”,
che si salva proprio da un incendio, c’è il fuoco che arde con il legame alla
propria terra in “Per sempre qui”, storia di un uomo portato lontano da
casa per lavoro, c’è il fuoco del disagio mentale in “I due poli”, c’è “Il
fuoco nel bicchiere”, una spinta all’alcoolismo che non si riesce a domare,
c’è il fuoco della passione per la musica in “Il rock e l’inferno”.
Infine, sorpresa del tutto inaspettata, c’è una bellissima cover: è “Fuoco
sulla collina”, di Ivan Graziani, che doveva uscire come 45 giri a sé
stante e invece è stata inclusa nel disco. Anche questo brano non parla di un
incendio reale, ma piuttosto di un incubo, in un tormento interiore, fil rouge
dell’impronta autoriale del Cerchio d’Oro.
Nella
nostra allegra conversazione i musicisti della band savonese hanno espresso
parole di stima e di simpatia verso i musicisti che hanno collaborato come
ospiti nell’album, tra cui Giorgio Usai e Paolo Siani,
rispettivamente organista e batterista de La Nuova Idea, altra storica band
ligure. Ma in particolare, chi ha creato un solido legame con il Cerchio d’Oro
è stato Pino Ballarini, cantante de Il Rovescio della Medaglia:
quest’uomo è stato portato per lunghi anni lontano da casa per lavoro e, al
momento di confrontarsi con il testo di “Per sempre qui”, l’ha fatta sua
senza esitazione, sentendola proprio come se fosse stata scritta per lui.
Il sound
della band, in questo album forse lievemente più spinto sul pedale dell’hard,
rispetto ai dischi precedenti, anche in virtù del “focoso” tema trattato,
riesce a essere una certezza e una sorpresa al tempo stesso: una certezza
perché le straordinarie armonie vocali costruite dalla band, loro vero tratto
distintivo, ci proiettano prepotentemente nell’universo del grande prog
italiano dei ’70, così come il preciso e pulsante lavoro fatto dalla sezione
ritmica, che “macina” senza sosta dando un eccellente supporto e un bel groove
alle tracce. Tuttavia, l’inserimento di un chitarrista e un tastierista di
generazione successiva, con altre coordinate e altri miti, ha portato una
ventata di novità al sound della band, con sonorità ricche, calde, varie e spesso
in aspettate.
Ed ecco
un album perfetto, che suona “vintage” ma mai “vecchio”, suona “fresco” ma mai
“leggero”, suona “diretto” ma mai “banale”: esattamente come il progressive
rock deve essere.
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