THE
FAR CRY: If only…
Autoprodotto - 2021 - USA
Di Valentino Butti
Una delle annose questioni che
coinvolgono gli appassionati è la presunta “incapacità” delle band statunitensi
di produrre prog di buon livello. Non appartenendo a questa “corrente di pensiero”
ed anzi considerando il prog made in Usa, sin dagli anni Settanta, ricco di
creatività (seppur non supportato da grandi numeri alla voce “vendite” …) e di
notevoli band, talvolta, misconosciute, ecco che quando scopro qualche nuovo
gruppo statunitense, mi ci fiondo nella speranza di trovarci qualcosa di qualitativamente
interessante.
Così è successo per i THE FAR CRY: attirato dalla bella copertina, dopo
una rapida scorsa alla durata delle tracce e al “parco” degli strumenti presenti,
l’ascolto era d’obbligo. Non mi aspettavo certo un capolavoro, ma l’ora
abbondante di musica proposta suddivisa su otto tracce, ha ampiamente
giustificato l’approfondimento. Robert Hutchinson (batteria) e Jeff
Brewer (voce, basso, chitarra) si conoscono sin dagli anni Settanta e negli
anni Ottanta hanno fatto parte di una prog band, gli Holding Pattern, piuttosto
nota tra gli appassionati più attenti.
Nel 2013 i due si ritrovarono per
dare vita ad un nuovo progetto che, aggregatesi anche Bryan Collin
(chitarre elettriche ed acustiche) e Chris Dabbo (tastiere e voce), col
nome di “The Far Cry” giunge finalmente al debut-album.
Le due “vite” artistiche di Hutchinson e Brewer (quella 70/80 e quella di oggi) creano un ibrido in cui le sonorità proposte ricordano gli Yes, gli Styx, ma anche gli Spock’s beard e i Dream Theather.
La parte del leone su “If only…” la
fanno le tre tracce più lunghe: l’iniziale “The mask of deception”, “Simple
pleasures” e la title track.
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L’approccio in “The mask ofdeception” è piuttosto heavy, con chitarra elettrica e tastiere a decollare
in modalità Spock’s beard, ma sempre con un occhio di riguardo all’aspetto
melodico che, fortunatamente, non viene mai a mancare. Molto bello il “romantico”
frammento strumentale nella seconda parte del brano, prima che riprenda il
sopravvento la grinta iniziale.
“Simple pleasures” sviluppa l’anima
più sinfonica del quartetto statunitense, avvicinandosi alle suggestioni
proposte dagli Yes o, per il lato più pomp, agli Styx. Molto riuscito, anche
qui, l’inserto centrale con pianoforte e chitarre acustiche a prendersi la
ribalta, prima dell’eccellente “solo” di synth.
La title track racchiude, nei suoi
sedici minuti, non solo il meglio dell’album, ma anche un compendio del miglior
prog sinfonico dai ’70 ad oggi. C’è l’introduzione acustica affidata alla
chitarra, ci sono le brillanti tastiere di Dabbo, c’è il momento “ambient” e, ancora,
il “divertissement” à la Gentle Giant, oppure il new prog alla I.Q (in zona “The
wake”) senza scordarsi qualche scintilla heavy. Insomma, un florilegio di
sensazioni diverse, ma ben assemblate tra loro.
Se queste tracce sono il fulcro di “If
only…”, non dimentichiamo la breve “Winterlude”, dolce intermezzo per
chitarra acustica e “Winterlude waning” per solo pianoforte.
Più lunghe ed articolate (ma sempre
solo strumentali) sono l’epica “The missing floor” e l’eterea e
raffinata “Dream dancer”.
Il quasi rap (!!!) di “Programophone”
non va ad inficiare il valore di un album che si è dimostrato una piacevole
sorpresa a dimostrazione che, con un poco di pazienza, si possono scovare
ancora realtà e band degne di nota.
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