Nathan
– Uomini di Sabbia
(AMS
Records, 2022)
Di Alberto Sgarlato
Il 25 febbraio di questo 2022 è
uscito il terzo album dei Nathan, dopo i
titoli “Nebulosa” ed “Era”. Chi scrive questo articolo ricorda
benissimo di avere seguito con affetto e curiosità i primi passi di una
formazione, agli inizi ancora embrionale, poi via via più strutturata, nei
piccoli teatri della provincia di Savona. Era lì che i Nathan prendevano forma
all’inizio degli anni ‘90 e, come molte bands, hanno visto la loro storia
costellata di cambi di formazione.
Oggi più che una band i Nathan
sono un vero e proprio progetto, un collettivo di musicisti che si avvicendano
nelle varie tracce seguendo una rotta dettata dal timone saldamente stretto
nelle mani del duo Lugaro/Abba, autori di tutti i titoli, testi e
musiche.
Bruno Lugaro alla voce e Pier
Giorgio “PJ” Abba, tastiere e chitarre acustiche, per questo “Uomini di sabbia” hanno potuto contare su uno
schieramento di validi strumentisti: le chitarre di Giulio Smeragliuolo,
le batterie di Luca Grosso e di Fabio Sanfilippo, i bassisti
Fabio Zunino, Dino Cerruti, Mauro Brunzu.
Chi ha apprezzato i due precedenti
lavori non potrà fare a meno di notare una trasformazione del sound: i Nathan,
infatti, “figli” soprattutto di Genesis e Pink Floyd (band delle quali, in
passato, hanno tributato le gesta dal vivo), sono sempre stati collocabili nel
filone del cosiddetto “neo-prog”, uno stile quindi melodico e “cantabile”,
grintoso e moderno, legato sì ai suddetti Genesis e Floyd ma anche alla scena
‘80/’90 di gruppi come Marillion, Iq e Arena.
Ma il nostro pianeta sta vivendo
strani giorni, tra una pandemia che dopo due anni non è ancora finita, venti di
guerra che dai tempi della Bosnia non erano mai stati così vicini all’Europa
Occidentale e preoccupazioni per l’economia di oggi e di domani.
E tutto questo, inevitabilmente,
si riflette nella scrittura di Abba e Lugaro, che sia nei testi, sia nei suoni,
sia nelle strutture delle varie tracce, si fa più cupa, tesa, nervosa. E del
resto gli “uomini di sabbia” del titolo siamo noi, tutti noi, persone fragili e
sgretolate dall’ansia e dalle paure.
La prima traccia, “Fatti non
foste”, è pienamente ascrivibile al metal-prog, una svolta quasi
inaspettata per i Nathan; “Monoliti” è scandita da geometrie
batteristiche che ricordano i Rush del periodo più anni ‘80 (quelli di brani
come “Mystic Rhythms” o “The Body Electric”), mentre i ricami del piano e
dell’organo trasportano tutto il sound su profumi più da ballata vintage;
particolare nota di merito per il cantato di Lugaro che, a tratti, ricorda
quasi Aldo Tagliapietra in questa traccia. Non mancano però, anche qui i
crescendo in cui la chitarra torna a “ruggire” in un disco dove le sorprese non
mancano e dove, persino nei momenti più rilassati, la svolta fatta di durezza e
di inquietudine è sempre dietro l’angolo. E proseguiamo con “Delirio
onirico”: qui pad lunghi e sibilanti delle tastiere a supporto di
arpeggi organistici ci riportano verso sonorità hard-prog, ben scandite da un
lavoro davvero solido di chitarra/basso/batteria. Anche qui menzione di merito
speciale per l’intensità dell’interpretazione vocale. Dal quarto minuto in poi
i “duelli” tra chitarra e organo richiamo il prog italiano più classico, quello
di gruppi come il Biglietto per l’Inferno.
“Il pianto del cielo”,
con la sua introduzione affidata all’intrecciarsi della chitarra e del
pianoforte, è la traccia che più di tutte rivela il passato dei Nathan, quello
legato ai Genesis e ai Marillion. Dal minuto e mezzo in poi il “botta e
risposta” serrato tra sintetizzatori e chitarra è pura, godibilissima, scuola
neo-prog. Il tutto verso un crescendo finale intenso e toccante, fatto di
continue “altalene” tra ricami acustici e momenti più elettrici.
Di nuovo lo spettro dei Rush, con
il basso in primo piano, un gran lavoro di piatto hi-hat e lunghi tappeti di
synth, nell’intro di “Madre dei sortilegi”, che poi, sempre per
restare al di là dell’Oceano, si sposta dalle coordinate canadesi dei Rush a
quelle dei Kansas grazie a un gran lavoro di organo distorto e chitarra. Il
punto di forza dei Nathan è quello di saper fare loro le influenze sia
britanniche sia d’oltreoceano senza mai dimenticare o accantonare quella che è
stata la tradizione italiana. E infatti, dopo avere menzionato in questa
recensione le Orme e il Biglietto per l’Inferno qui tutta la melodia cantata è
quella che, più di altre nel disco, evoca il Banco. La storica band romana
affiora anche in alcune sezioni strumentali del brano dall’incedere molto
“mediterraneo”. E prima di ritornare alla ripresa del riff e poi, di nuovo,
alla chiusura “rushiana”, le divagazioni soliste dei vari strumenti sono
davvero spettacolari per velocità e tecnica.
“Nel giardino di Maria”
è un brano scandito e sorretto nei suoi vari momenti dal pianoforte ma è
tutt’altro che una ballad romantica. Anzi: sia nel testo, sia nelle musiche, è
forse uno dei brani che riescono a generare le sensazioni più angoscianti di un
album, come già detto fin dall’inizio, pervaso da questo senso di inquietudine.
Anche gli squarci più eterei della traccia hanno sempre quel qualcosa “tra le
righe”, che turba l’anima. E poi, ovviamente, anche qui non mancano i crescendo
strumentali funambolici che contribuiscono a indurire il pezzo.
Lo stesso si potrebbe dire per “L’Acrobata”:
l’intro dal profumo “cameristico” potrebbe far tirare un sospiro di sollievo
dopo gli scossoni emotivi delle tracce precedenti, ma in realtà così non è.
Perché c’è sempre qualcosa di cupo e di struggente in ogni singola nota, che
non è messa lì per caso ma che contribuisce a tracciare un sentiero emotivo
complesso, proprio come quello percorso dall’acrobata che dà titolo al brano.
A questo punto, che dire di “Egos
(la Terra dei Perduti)”? La suite, di un quarto d’ora di durata, chiude
l’opera e costituisce al tempo stesso la “summa” della cifra stilistica
dell’intero disco. Troviamo la partenza lenta, arpeggiata, sorretta da tappeti
cupi, inserti tra il fiabesco e il medievaleggiante (ve li ricordate gli
alessandrini Arcansiel e il loro splendido album “Stillsearching” di fine anni
‘80?), momenti dall’incedere marziale, frammentazioni della linea cantata
figlie dei Gentle Giant, indurimenti e rarefazioni, dal nono minuto le
accelerazioni che ci riportano su territori neo-prog, poi l’entrata di una
chitarra che, nei momenti più languidi, fa apparire in controluce il profilo di
Steve Hackett, fino ad arrivare, in un turbinio di suoni e di emozioni, al
doveroso crescendo conclusivo (seppur sfumato), degna parola “fine” di una
traccia e di un album di cotanta caratura.
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