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lunedì 8 giugno 2015

Van der Graaf Generator, di Giuseppe Scaravilli


Pur facendo parte a tutti gli effetti del cosiddetto “Progressive Rock”, i Van Der Graaf Generator hanno fatto (e continuano a fare) semplicemente musica dei Van Der Graaf Generator. Il primo disco, “The Aerosol Grey Machine” (1969), avrebbe dovuto essere pubblicato come disco solista del giovane cantante (nonché chitarrista e pianista) Peter Hammill, ma, alla fine, uscì a nome della band. Per anni, in Italia, si nutrirono anche dubbi se questo lavoro esistesse davvero (!). Nell’album successivo al bassista Keith Ellis subentrò Nic Potter e, soprattutto, il sassofonista e flautista David Jackson, che divenne una sorta di icona non solo “sonora”, ma anche “visiva” della band, con la sua caratteristica di suonare due sax elettrificati contemporaneamente, seminascosto dai capelli lunghi che venivano fuori da un berretto di pelle con visiera, e dagli occhiali. Quando Potter abbandonò il gruppo, i VdGG non lo sostituirono, utilizzando per le frequenze basse i pedali dell’organo di Hugh Banton. Si costituì in questo modo la formazione “classica” che schierava Hammill, Banton, Jackson ed il funambolico batterista Guy Evans. Il brano “Killer” fece furore soprattutto in Italia; la band rappresentava inoltre l’attrazione principale del “Six Bob Tour” del 1971, che portava in giro per il Regno Unito  sia loro che Audience e Genesis (ai quali si era aggiunto da poco Steve Hackett). Scherzando Peter Hammill amava ricordare che su quel “tour bus” davanti sedevano i Genesis coi loro cestini da pic-nic, al centro gli Audience con le birre, e in fondo loro, con le droghe! Vero o no che sia l’aneddoto, la loro musica alternava momenti di caos ad altri molto melodici, se non addirittura strazianti. E a Peter capitava davvero di avere le lacrime agli occhi, mentre cantava in studio. Per il resto la sua voce, a volte soffusa, veniva più spesso travolta da un’enfasi rabbiosa, con note tenute lunghe, vibrate e potenti, in grado di mandare in frantumi i bicchieri. O i timpani, a seconda dei gusti. Il punto era comunque che si trattava di un gruppo rock senza né la chitarra elettrica, né il basso (una specie di contraddizione in termini), ma capace di sprigionare un fragore ed un impatto mai uditi prima. Lo stesso Jackson, quando imparò a collegare i suoi sax all’impianto di amplificazione, rimase impressionato (e quasi travolto) dalla potenza che riusciva a sprigionare coi suoi strumenti, facendo quasi fatica a gestire e controllare quei suoni! Ancora in Italia il grande successo arrivò con l’album “Pawn Hearts”: il disco conteneva solo tre brani (altri sarebbero riemersi in ristampe successive), ma uno di questi era la lugubre suite “A Plague of Lighthouse Keepers”: una lunghissima cavalcata sonora ricca di stacchi, cambi di dinamiche, timbriche e indovinati chiaro-scuri, che indusse Peter Hammill a ritenere, quando il gruppo ascoltò per la prima volta il pezzo per intero, che a quel punto avrebbe anche potuto morire. Stranamente, però, i Van Der Graaf non misero mai in scaletta questa suite, se non durante l’apparizione alla TV Belga del 1972. Decidendosi a farlo, infine, solo nel 2013 (!!!). Durante il loro primo tour italiano, nel 1972, mentre si recavano in macchina al luogo nel quale si sarebbero esibiti, videro una folla enorme e chiesero dal finestrino cosa  stesse succedendo. “Suonano i Van Der Graaf Generator!” fu la risposta. Non se lo aspettavano: come già nel caso di Genesis e  Gentle Giant, fu nel nostro Paese che raccolsero i primi grandi consensi di massa. Nonostante ciò quello stesso anno decisero di sciogliersi (per motivi mai chiariti del tutto): Peter Hammill proseguì con la sua carriera solista (mai abbandonata, in verità), e nel dicembre di quello stesso 1972 aprì i concerti de Le Orme, mentre David Jackson, l’anno successivo, accompagnò in tour un Alan Sorrenti non ancora “figlio delle stelle”. Nei lavori solisti di Hammill, comunque, gli altri componenti della band continuavano a partecipare, e nel 1975 il gruppo tornò insieme, su disco e in tour: Godbluff (1975), Still Life (1976), World Record (ancora 1976: il disco che li ha fatti conoscere al sottoscritto, e che li ha portati per la prima volta negli USA). Dopo questo breve ma intenso “tour de force” di fatto il gruppo si scioglie di nuovo: per lo meno, perde Banton, Jackson ed anche la parola “Generator” dal proprio nome. Torna la chitarra acustica di Hammill (abbandonata nel periodo ’75-’76), mentre il violino sostituisce il sax, con conseguente, inevitabile mutamento del sound complessivo. Il maestoso organo “da chiesa sconsacrata” di Banton, in ogni caso, in quella che era ormai diventata epoca di Punk, sarebbe risultato con ogni probabilità fuori luogo.
Paradossalmente, invece, David Jackson, pur fuori da questa formazione, è presente su entrambi i dischi pubblicati dai nuovi “Van Der Graaf”: i suoi strumenti a fiato (anche se poco e male) possono sentirsi infatti sia sul disco in studio (1977) che in quello dal vivo (1978), mentre il gruppo riesce a conservare una sua credibilità pur con il cambiare dei tempi (il cantante dei Sex Pistols viene notato mentre fa la fila per un loro show), mentre gli altri “dinosauri” del rock più “magniloquente” vengono massacrati o dimenticati (più dalle nuove leve della critica musicale che dal pubblico, in verità: erano sempre Pink Floyd, Genesis e Led Zeppelin a riempire gli stadi, e non certo i Damned o i Clash). Ad ogni modo anche questa incarnazione del gruppo guidato da Peter Hammill cessa la sua attività nel 1978, per decidersi a riprenderla quasi trent’anni dopo (!), nel 2005, con nuovo disco e relativo tour, nella classica formazione di “Pawn Hearts” (io riuscirò a vederli a Roma e a Taormina). Quello però è anche l’unico anno che vede David Jackson far parte della squadra: per motivi mai del tutto chiariti (di nuovo!) i Van Der Graaf Generator proseguiranno fino ad oggi in trio. Rimanendo insieme, a volerci far caso, più in tempi recenti che negli anni ’70!    

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