Usciva
a novembre del 1969, ma noi "provinciali" Italiani,
l'abbiamo avuto nel dicembre del 1969... “Willy And The Poor Boys”,
album dei fantastici Creedence
Clearwater Revival, un
disco che lasciò il segno; tra gli altri brani contiene "Fortunate Son",
canzone contro la guerra in Vietnam, diventato vero e proprio inno di una
generazione.
Wazza
Alla
fine degli anni ‘60 San Francisco è il cuore pulsante della scena musicale
statunitense: qui, tra visioni psichedeliche e deliri in acido, prende forma
la nouvelle vague del rock a stelle e strisce, capitanata da gruppi come Grateful Dead e Jefferson Airplane che ben incarnano i fermenti culturali e
artistici della città. Frisco, però, è anche il
luogo che dà i natali artistici ai Creedence Clearwater
Revival, band formatasi a El Cerrito (piccolo borgo ai confini orientali della
città) e capitanata dal chitarrista e cantante John Fogerty, il quale, a dispetto delle sperimentazioni lisergiche tanto in
voga nella bay area, ha in mente un
solo concetto: il Revival. Fogerty ama senza mezzi termini gli anni ‘50, il rock ’n’ roll primitivo di Chuck Berry, Little Richard e Eddie Cochran, il blues e il folk nelle loro accezioni più pure;
e guarda come riferimento stilistico Dale Hawkins, trentenne musicista della Lousiana che rilegge il rock e il blues delle radici
con accento sudista, creando un sottogenere che prenderà il nome di Swamp Rock.
In
piena rivoluzione power flower, Fogerty attua una sorta di controriforma
tradizionalista, rimette al centro del suo progetto il roots rock e la musica
nera, scrive canzoni essenziali, utilizza le cover (guarda caso una delle più celebri è proprio Suzie Q di Dale Hawkins) per riaffermare il vincolo col passato. Unoperazione, questa che in mano ad altri poteva risultare una stucchevole
operazione di maquillage di sonorità già note, e che, invece, nelle mani di Fogerty e
della sua Band si trasforma, con pochi ma straordinari dischi, in uno stile ben
definito che sarà la salvezza del rock’n’roll. Così, se si può affermare che
senza Elvis Presley i Creedence Clearwater Revival non sarebbero mai esistiti, è altrettanto vero che John Fogerty ha il merito indiscusso di aver traghettato Presley oltre il guado degli anni 60, consegnandolo nelle mani di Bruce Springsteen e Bob Seger, solo per citare due dei nomi che pagano debito
verso i CCR.
Zeppe di riferimenti ai cinquanta e intrise di una negritudine vibrante, le canzoni di Fogerty
mettono al riparo il rock dai mutamenti genetici del nuovo mondo psichedelico,
riportandolo a una forma essenziale, selvaggia, stradaiola eppure altrettanto
policromatica. John Fogerty è il padrone assoluto
della controrivoluzione: la sua penna che omaggia con devozione i classici,
ha il potere di trasformare in note melodie pensate per saccheggiare
programmazioni radiofoniche e scalare le classifiche; la sua voce, potente
e cartavetrata, rievoca il sudore delle piantagioni, possiede la veemenza
di un grido definitivo di libertà. Fogerty canta come vorrebbe cantare
un nero se solo ne fosse capace: strattona l’ascoltatore,
gli graffia le orecchie, gonfiandogli il cuore di ingenuo entusiasmo, per poi
spingerlo a liberarsi dai vincoli delle convenzioni, a ritrovare la purezza
nella catarsi del ballo. E il 1969, l’anno cruciale per la Band che, dopo un esordio
convincente ma ancora acerbo, inanella tre dischi leggendari: Bayou Country, Green River e Willy And The Poor Boys. Un vero
e proprio tsunami creativo: è come se Fogerty sapesse che l’urgenza è tutto e
che il suo rock, così puro, ingenuo ed essenziale, rischi di essere sommerso
dall’imperante cambiamento circostante. I Creedence, allora, in dodici mesi, sparano a
raffica i loro colpi migliori, raggiungendo la perfezione stilistica (che non è
solo forma ma è soprattutto energia allo stato puro) con il
celebratissimo Willy And
The Poor Boys. Uscito il 2
novembre del 1969, il disco scala le classifiche e vende un
milione di copie, certificando in modo definitivo la grandezza della Band,
una delle poche al mondo capace di pubblicare tre album di fila in un
anno e tutti a cinque stelle (pardon, casse).
Manifesto dello Swamp Rock, Willy And The Poor Boysproietta
il passato nel futuro, è un disco classico e al contempo avveniristico, suona naif ed esuberante ma è
tinteggiato anche di sfumature dark che risentono dei tempi funestati dal
doloroso conflitto del Vietnam. La copertina e l’iniziale country rock della
solare Down On The Corner esplicitano il contenuto di quello che potremmo definire una sorta
di concept album: riportare la
musica in strada (Down on the corner, out in the street)
in mezzo alla gente, riscoprirne così la vera essenza che è aggregazione,
condivisione, divertimento e stare insieme. Niente intellettualismi dunque, la
musica è solo genuinità, purezza, è il linguaggio semplice delle radici (Willy and the Poorboys
are playin Bring
a nickel; tap your feet. Rooster
hits the washboard a nd people just got to smile). Non è un caso che in scaletta ci siano anche due
sublimi cover (Cotton
Fields di Leadbelly e il traditional, anche questo passato dalle mani di Leadbelly, Midnight
Special, un divertito r’n’b dal mood festaiolo)
e uno strumentale, forse superfluo se decontestualizzato (Poorboy Shuffle) necessarie però tutte e tre a rimarcare il concetto
di una musica che per essere vitale deve tornare alle radici, alla terra
del blues o alla strada dei buskers,
patrimonio della gente semplice che si innamora della melodia ma fatica a
comprendere i voli pindarici del movimento psichedelico.
Se Dont Look Now vibra d’amore per Elvis Presley, reinventato
in chiave country folk, la gemma hard rock di Fortunate Son indica che il revivalismo di
Fogerty sa sposarsi anche con la stretta attualità. Brano fortemente
antimilitarista che sbertuccia il malvezzo dei figli di ricchi, notabili e di
militari di imboscarsi per evitare la leva obbligatoria, Fortunate Son è una scelta di barricata audace e ironica che
si innesta nella querelle politica dellepoca, come una decisa presa di
posizione a favore della working class (It aint me, it aint me, I aint no senators son, son. It aint me, it aint me; I aint no fortunate one, no). Chiude una scaletta di straordinaria intensità Effigy, ballata elettro acustica dall’incedere crepuscolare che, pur
non rientrando fra i brani più popolari della band, è senz’altro uno degli episodi più
riusciti della carriera di Fogerty. La chitarra del leader guida il gruppo in sei minuti in cui si coagulano melodramma,
amarezza e innovazione. E uno scarto riuscitissimo rispetto alla formula collaudata del
revivalismo, un lungo lamento epico e tristissimo che segnerà in futuro il songwriting di Neil Young o quello di un antieroe misconosciuto ma
geniale chiamato Jason Molina. Da questo disco in avanti, la carriera dei Creedence inizia però la sua
parabola discendente. Se il successivo Cosmos Factory (1970) mantiene alto il livello di ispirazione di Fogerty
(qui, le grandi hits si
sprecano) ma comincia a mostrare la corda di un suono che non conosce più
sorprese. Con Pendulum (1971) e soprattutto con Mardi Gras (1972) la Band, orfana di Tom Fogerty, attirato dalle sirene di una carriera solista che
non decollò mai, arriva al capolinea e si scioglie. La storia dei Creedence Clearwater Revival è durata solo quattro anni eppure, nonostante il breve periodo di
attività, i quattro ragazzi di El Cerrito sono entrati nella leggenda; è bastato un anno, il 1969, e tre dischi favolosi, l’ultimo dei quali,Willy And The Poor Boys, ha rappresentato l’anello di congiunzione tra
passato e futuro, e ha riscritto le regole del rock’n’roll come oggi ancora le
conosciamo.
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