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lunedì 11 novembre 2019

OPETH - Alcatraz Milano (9 novembre 2019), di Enrico Meloni


OPETH - Alcatraz Milano (9 novembre 2019)
Di Enrico Meloni

Mi sono interrogato molto sulla necessità di un ennesimo articolo sugli Opeth, una band sulla quale tanto si è scritto e tanto ancora si continuerà a scrivere. Ma mentre mi interrogavo, ho iniziato a scriverlo. Peggio per voi.
I loro fan, oserei dire i loro fanATICI, e scopriremo perché presto, si dividono (dividevano?) in tre categorie principali: i fan della prima ora, quelli che non perdonano a Mikael Åkerfeldt, cantante, chitarrista e compositore principale (unico?), di aver abbandonato il cantato in stile growl che caratterizza tutti gli album fino a “Watershed” (del 2008); i fan del nuovo corso, un nuovo mondo di amanti della musica ma non necessariamente metallari, che segue la band principalmente dall’album “Heritage” (2011), uno dei più controversi della loro carriera già fuori dalle righe; e in ultima istanza, chiunque ami entrambe le incarnazioni della band.

Devo ammettere di aver sempre avuto un rapporto di amore/odio verso gli Opeth: quando stavano “esplodendo” in Italia, ossia a metà degli anni 2000, grazie ad album quali “Blackwater Park”, “Deliverance” e “Damnation”, nella comunità metallara di cui facevo/faccio parte, era considerato abbastanza “eretico” NON amare gli Opeth. Esatto, non parlo qui di gusti, ma quasi di adorazione e venerazione per una band. Band delle cui capacità tecniche e compositiva non ho mai dubitato (e chi sono per farlo d’altronde?).
Gli Opeth come una religione, insomma. Un approccio completamente acritico alla musica che a parte alcune sbandate “in gioventù” (una tra tutti, i Maiden), ho cercato di abbandonare ben presto.
Breve inciso che spiega l’espressione fanATICI usata sopra: lo stesso Mikael Åkerfeldt, man mano che il sound andava allontanandosi sempre più dal “death metal” degli esordi (espressione da prendere con le pinze… gli Opeth hanno suonato sì musica estrema agli esordi e per buona parte della loro carriera, ma sempre mediata dall’incredibile sensibilità melodica e compositiva di Mikael, per cui non si può parlare di death o black metal tout court… sono sempre stati prog in un certo senso), ha ricevuto minacce di morte e, agli albori dell’internet come lo conosciamo oggi, fu costretto a chiudere chat e forum ufficiali (ve li ricordate ancora?) sulla band.
Il motivo? I fan non accettavano le scelte artistiche di Mikael, uno ampiamente abituato a farsi i c***i propri, a fare sempre di testa sua, accusato di essere un dittatore (un altro grande a cui toccò subire le stesse accusa fu il compianto genio Chuck Schuldiner dei Death… great minds think alike). Da non crederci, eppure è così. Il punto di non ritorno è stato, come anticipato, l’abbandono del cantato urlato/growl.
Se la storia degli Opeth vi incuriosisce, consiglio fin da subito l’ottimo “Le stagioni della luna - Gli Opeth dal Death al Prog” di Eugenio Crippa e Filippo Pagani ed edito da Tsunami, che però purtroppo si ferma alla pubblicazione di “Heritage” (spero in una nuova edizione aggiornata prima o poi).

Come forse avrete capito, questa premessa è per dire che io originariamente appartengo al secondo gruppo di fan, quelli che hanno iniziato a seguirli da “Heritage” in poi (recuperando gli arretrati, ve lo assicuro) perché a me, all’epoca, gli Opeth proprio non andavano giù. Non mi riconoscevo nel loro immaginario, creatogli attorno dai fan, di miglior gruppo di sempre, di “ma come fai a non emozionarti”, “ma sono geniali”, “ma allora non capisci una mazza”, ma come qui, ma come lì. La musica mi affascinava ma, anche se già ascoltavo qualcosa di progressive anni ’70, non mi ci trovavo troppo tutto sommato.
Unica eccezione: avevo amato moltissimo il loro secondo album “Morningrise”, pubblicato nel 1996 e quindi uscito negli anni d’oro del death metal svedese, filone dal quale i nostri hanno saputo distaccarsi abbastanza presto, creando un percorso unico e affascinante che ne impedisce di fatto una catalogazione. Però il fatto che “Deliverance” e “Blackwater Park” dovessero essere amati e imparati a memoria… proprio non lo sopportavo. Quindi li ho davvero odiati.
Un discorso simile accadde negli anni immediatamente successivi all’uscita di “Nightfall in Middle Earth” dei Blind Guardian. Nel mio piccolo giro il disco era adorato e “non potevi che adorarlo anche tu”. Mi sono incaponito e ho dimenticato entrambe le band, accendendomi in lunghe discussioni (davvero futili, ripensandoci) su come i primi dischi fossero meglio e altri stereotipi classici delle discussioni tra metallari (e, temo, non solo).

Naturalmente, gli Opeth sono una band che non puoi perdere d’occhio se ti interessa la musica di un certo tipo, visto che ogni nuovo lavoro discografico è accompagnato da una promozione davvero massiccia. Per cui sono sempre stati lì, sullo sfondo delle mie altre passioni musicali… finché non ho deciso di dar loro un’altra possibilità ascoltando “Sorceress”.
Questo è avvenuto più di 10 anni dopo rispetto ai discorsi un po’ alticci della mia piccola cricchetta di metallari, per cui ero privo di pregiudizi di qualsiasi tipo, e nel tempo avevo maturato un grandissimo amore per altri generi che non fossero il metal, come funky, altro prog, musica folk ecc ecc. Inoltre, il nome Opeth continuava a circolare con insistenza su circuiti di informazione non prettamente metal, per cui la curiosità cresceva.
L’ascolto di “Sorceress”, che a parer mio è in assoluto il più accessibile dei dischi degli Opeth, mi ha davvero sconvolto e riportato sui miei passi. Come si dice? Ogni cosa al suo tempo. Ora avevo davvero fame di Opeth. Sono stato a un festival in Romania a vederli (un festival metal, naturalmente!) nel 2017, durante il tour di promozione di “Sorceress”, e da lì in poi mi sono ripromesso di vederli ogni volta che ne avessi avuto la possibilità, anche a costo di fare grandi salti mortali (come quello che vi sto per raccontare). Gran concerto, comunque.

Con l’indomito Gianluca si parte da Modena, dove entrambi ci trovavamo per la conferenza Italian Agile Day 2019, e per un pelo non perdiamo il treno. Viaggio a Milano che si inserisce in un mesetto di trasferte e altri viaggi (tra cui quello raccontato nel mio articolo sul HRH Prog Fest VIII di Londra su Mat2020, di prossima uscita) non proprio rilassanti, per cui, ci diciamo a inizio viaggio, è un miracolo se arriviamo a vedere l’inizio del concerto.
Le sfighe iniziano ben presto quando Gianluca si ricorda di aver dimenticato il biglietto a casa. Casino presto risolto dalla sua compagna (grazie Elena, ti devo una birra), w la tecnologia. Taxi a Milano Centrale non se ne vedono, per cui si corre alla metro per raggiungere in men che non si dica l’Alcatraz. Sudati ma puntuali.
L’Alcatraz… una venue davvero impressionante in pieno centro a Milano. Una venue che, giustamente, deve far quadrare i conti e quindi nella stessa serata trovi un concerto e subito dopo la serata discoteca, il che giustifica (ma non dal punto di vista morale) il ridicolo inizio alle 20 degli headliner Opeth.
Aprivano le danze all’ora di merenda i Vintage Caravan, di cui parlo nell’articolo presente sul numero di Mat2020 citato sopra, che ovviamente non riusciamo a vedere.
Entriamo per lasciare le nostre cose nel guardaroba e partono le note dell’intro del nuovo album “In Cauda Venenum” (hai detto Jacula?). Riusciamo a trovare un posto in fondo e lo spettacolo inizia.

Forse saprete, e se non lo sapete già lo state per scoprire, che il nuovo disco degli Opeth è stato pubblicato sia in lingua inglese che in lingua svedese. E il nostro Mikael in che lingua ha deciso di cantare le canzoni tratte dall’ultimo album questa sera? In svedese, naturalmente. Una scelta che ho molto apprezzato e che denota ancora una volta come a Michelino, come viene spesso apostrofato dal pubblico (il concerto è sold-out? Non l’hanno annunciato come tale ma sembrerebbe di sì), non gliene freghi davvero nulla e faccia come pare e piace a lui.
Con un outfit a metà tra D’Artagnan, il capitano dei pirati Francis Drake e “un signorotto borghese dell’800”, Mikael è un piacere da ascoltare tra una canzone e l’altra. Una specie di stand-up comedian British-style, Mikael ha dovuto inventarsi questo ruolo di intrattenitore durante un concerto per prendere tempo a causa di problemi tecnici sul palco. Da lì, il resto è leggenda. Se il baraccone Opeth dovesse andare in malora, avrebbe certamente un ottimo piano b.

Che dire del concerto degli Opeth di Milano? Ho assistito al loro concerto al Gods 2012 prima di Ozzy & Friends ma ero in fase di denial degli Opeth, e ad ogni modo non ha senso fare paragoni, né con quello né con le altre esibizioni a cui ho assistito (tra cui quella come headliner all’Alcatraz Fest - nome omen - quest’estate in Belgio).
La scaletta è chiaramente sbilanciata, ma neanche troppo, sui pezzi del nuovo album (vi è piaciuto? A me molto), e per il resto pesca a piene mani da tutti gli album “più recenti”, in quanto non si va mai più indietro del 2001, anno di pubblicazione di “Blackwater Park”.
Vi dirò di più (grazie al sito SetlistFM): a parte le 3 canzoni tratte dall’ultimo disco, c’è stato un brano da ciascuno degli album pubblicati da “Blackwater Park” in poi. Una scaletta davvero notevole per quanto mi riguarda, in quanto faccio parte dei fan degli Opeth che preferiscono il nuovo corso. Grazie, Michelino. ;-)
Alcune delle canzoni in scaletta sono state bellissime sorprese, altre sono “le solite note”. Come la conclusiva “Deliverance”, durante la quale un simpaticone che stava dietro di noi a disturbare tutti da circa metà concerto ha iniziato a fare un verso con la bocca imitando le mitragliate di doppia cassa che chiudono la canzone, il che nel suo essere molesto ha avuto un effetto davvero comico nonostante l’avremmo voluto menare tutti quanti. Perché non l’han buttato fuori? Misteri.

I restanti Opeth fanno il loro e pure alla grande (curiosità: sapevate che tecnicamente la band NON fu fondata da Mikael?). Il più longevo dopo Mikael è il bassista Martin Mendez, abbiamo inoltre i “nuovi” innesti Joakim Svalberg alle tastiere, alla chitarra solista e il potentissimo-ma-anche-delicatissimo-quando-serve Martin Axenrot, che ha avuto la (s)fortuna di sostituire forse il componente degli Opeth più amato di tutti i tempi dopo Mikael, ossia l’ormai ex-batterista Martin Lopez, che lasciò la band a causa di problemi legati ad ansia e attacchi di panico.

Mikael, come dicevamo, è un grande nerd del prog, passa pomeriggi interi a spulciare vinili nei negozi di musica e come mi aspettavo non sono mancati siparietti in cui ha rinnovato il suo amore per l’Italia e per la grande musica prodotta negli anni ’70 e non solo. Ringrazia sentitamente i presenti e l’Italia intera, a dir suo uno dei primi “mercati” dove la musica degli Opeth ha avuto seguito.
Mikael confessa che prima dello show ha comprato un disco che già possedeva, ossia “Land of Misery” dei veronesi Black Hole, pubblicato nel 1985, grande esempio di prog/doom underground prodotto in Italia negli anni d’oro del metal e con una copertina misticheggiante uscita dai peggiori incubi d’infanzia di ciascuno/a di noi.

A chi avesse avuto il coraggio e la pazienza di arrivare fin qua ma avesse ancora dubbi sulla legittimità di un articolo sugli Opeth su Mat2020, ricordo che gli Opeth sono stati fondamentali nel far scoprire il mondo del prog a tantissimi metallari, che hanno potuto conoscere band incredibili come i Camel, da sempre adorate da Mikael.
Non solo il nostro ha sempre parlato di Latimer & Co. nelle interviste come una delle maggiori fonti di ispirazione per gli Opeth (negli anni ’90 non era cosa comunissima che chi suonasse metal estremo parlasse di band di questo tipo), ma i Camel sono omaggiati abbastanza spudoratamente nel brano “Benighted” (dai, ascoltatela e ditemi nei commenti cosa vi ricorda. A me fece sobbalzare) tratto dal bellissimo “Still Life” del 1999. Per non parlare di chissà quante altre piccole citazioni e omaggi ci sono e non ho colto (un po’ come nei dischi di Elio… non si finisce mai!).
Che dire poi del titolo dell’ultimo album? La battuta sugli Jacula l’ho già fatta. ;-)

Lo show va avanti tra una battuta e l’altra, ed è da rilevare come sia la seconda volta in una settimana (la prima è stata al Legend Club per gli Annihilator, che ci hanno davvero annichiliti, almeno nelle loro intenzioni) che il sound in una venue al chiuso a Milano sia assolutamente inadeguato. Non solo impastato in alcuni punti (all’inizio di “Sorceress” sembrava quasi di ascoltare un asciugacapelli acceso… non ve l'hanno detto che questa musica richiede suoni cristallini?) ma anche e soprattutto basso. Avevano paura ci venisse l’acufene? Stavano risparmiando elettricità per la discoteca?
Non lo saprò mai, sta di fatto che ancora una volta si poteva discutere col proprio vicino senza alzare troppo la voce, occasione d’oro che più di una persona non s’è fatta scappare per raccontare tutte le ferie e i piani per le ferie dell’anno prossimo agli amici durante le parti arpeggiate… No comment.
Ma non eravate fanATICI sfegatati pronti a ricevere ogni nota degli Opeth come manna dal cielo in silenzio e adorazione? Ve possino. Ai concerti non si parla. Punto.

Menzione speciale anche all’aspetto visual del concerto, con un palco su cui apparivano video e animazioni persino sul pavimento del palco stesso, creando un effetto davvero coinvolgente, sembrava quasi di stare sul palco con loro. Immaginario molto fricchettone a tratti, a tratti più “spaziale” e altre volte ancora a tinte più oscure/demoniache.

Lo show è stato davvero impeccabile, gli Opeth professionalissimi, cori da paura, capacità tecniche mostruose e un grandissimo groove. Anche i pezzi nuovi, già bellissimi su disco a mio avviso, hanno spaccato.
Saranno stati contenti i fan di tutte e tre le categorie elencate a inizio articolo? Chissà. Chi si aspettava pezzi vecchi… sa da tempo che gli Opeth ora suonano principalmente “roba nuova”, anche se non mancano, e non sono mancate in passato, piacevolissime sorprese con brani (che si portano via un terzo dell’intero set da quanto sono lunghi, va detto) tratti dagli album degli anni ’90.
E chi ama il nuovo corso… non credo possa ritenersi deluso. Anzi!

In qualche modo riusciamo a riconquistare la libertà e le nostre cose dal guardaroba, Gianluca nel frattempo è riuscito a farsi strada anche al banchetto del merchandising, assicurandosi una copia autografata digipack di “Sorceress” … una vera chicca, nel segno del pavone.

Chiudiamo con una birretta al Beda House, pub stile irlandese vicino al nostro albergo, prima di esplodere di sonno a letto.

Gianluca, che ringrazio pubblicamente per avermi accompagnato in questa ennesima zingarata offrendomi persino ospitalità nella sua stanza (doppia) in un albergo VERO, mi racconta di quando i genitori gestivano il “bar dello sport” del suo paese negli anni ’80, e di come ha scoperto il metal.
Ma questo potrebbe essere un altro articolo, ed è stato sicuramente il modo migliore di chiudere la serata. To the next one! :-)


VIDEO DI REPERTORIO... FANTASTICO!

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