Weather Report - Sweetnighter
(CBS 1973)
Qualche anno fa andai in vacanza a Parigi. Io e Giannina, mia
moglie, passammo una settimana incantevole tra i boulevards profumati di
tiglio, tra le librerie all’aperto del Quartiere Latino, tra le guglie di Notre
Dame e i camminamenti del Lungo Senna, poi come doveva succedere si avvicinò il
momento del ritorno.
Mancavano tre giorni alla partenza per l’Italia quando in quel crepuscolo di un tiepido venerdì primaverile mentre passeggiavamo mano nella mano in Boulevard Saint Michel, tra parigini e turisti, ci imbattemmo nell’ennesima libreria traboccante di libri esposti ed accumulati all’aperto su bancarelle legnose e traballanti.
Questa però aveva qualcosa di diverso: tra le centinaia di libri attirò la mia attenzione un piccolo reparto di ellepi usati e se quei libri erano in francese che non avrei saputo leggere, la lingua universale della musica pareggiava i conti e mi sollecitava all’osservazione.
Mi misi così a curiosare tra le copertine di quel centinaio di dischi con la golosità di un bimbo che deve scegliere tra i gusti di un gelato.
Fu verso la metà di quella schiera di album che notai la copertina azzurra: le cinque facce celesti di Jo Zawinul, Wayne Shorter, Eric Gravatt, Dom Um Romao e Miroslav Vitous aleggiavano in un cielo dello stesso colore striato dalle nuvole azzurre e biancheggianti che circondavano i visi dei Weather Report.
"Sweetnighter" era il titolo dell’album del 1973 che estrassi dalla pila di dischi, l’osservai davanti e dietro, poi tirai fuori il vinile, ne controllai le buone condizioni e mi rivolsi a mia moglie con assoluta convinzione:
"Sweetnighter" era il titolo dell’album del 1973 che estrassi dalla pila di dischi, l’osservai davanti e dietro, poi tirai fuori il vinile, ne controllai le buone condizioni e mi rivolsi a mia moglie con assoluta convinzione:
“Questo me lo compro!”
Dei Weather Report possedevo già "I sing the body electric" e "Mysterious traveller", due dischi ottimi che mi erano piaciuti molto così mi decisi a fare la tripletta.
Ma io sono molto pigro e mi piace muovermi leggero, senza zainetti, borselli, o altri ammennicoli al mio seguito e soprattutto tra le mani, così dopo un’attenta riflessione dissi a Giannina:
“Se me lo compro adesso mi tocca portarmelo in giro per tutta la sera a passeggio, al bar, al ristorante e magari pure al bistrot nel dopocena. Sai cosa faccio? Me lo prendo domani che è sabato prima di rientrare in albergo e poi domenica mattina partiamo.”
Il giorno dopo tornammo in Boulevard Saint Michel per comprare il disco. Il viale era gremito di persone, molte di più dei giorni precedenti, soprattutto giovani, vestiti in pelle nera o estremamente colorati, con i capelli dalle più strane acconciature, quasi tutti bevevano, in mano lattine e bottigliette di birra, qualcuno era già ubriaco. In lontananza dall’estremità del boulevard proveniva il tonf tonf ritmato e incessante di una musica elettronica e sintetica.
“E ora cosa caspita succede?”, dissi a mia moglie, ma parlando più che altro con me stesso.
Un rapido giro di domande a quei ragazzi tra un francese smozzicato e l’italiano e poi capimmo.
Quel giorno in Boulevard Saint Michel si sarebbe svolta la Tecno Parade, una sorta di carnevale di Viareggio con la sostanziale differenza che su ogni carro era piazzata una micidiale postazione dee-jay di chiara impostazione tecno dai volumi assordanti, con bassi che erano rimbombanti pugni nello stomaco e drum machine che macinavano e vomitavano decibel di pulsazioni tachicardiche.
Ma la cosa più grave, per quanto riguardava me, era che tutti i negozi erano chiusi.
Ogni serranda di ogni esercizio pubblico era abbassata. Per ragioni di sicurezza vista l’enorme mole di persone che si stava riversando nel quartiere i negozianti avevano tenuto chiuso.
Naturalmente anche la libreria dove mi aspettavano i Weather Report era inesorabilmente chiusa.
Ci rimasi veramente male. Ci tenevo tanto a quel disco in vinile ed ero sopraffatto dal disappunto e da un notevole rammarico.
Ma ormai era fatta. Ormai non avrei potuto farci niente. La mattina dopo sarei partito molto presto e "Sweetnighter" era irrimediabilmente perduto.
Così decidemmo di fare necessità virtù. Imbottigliati tra la calca in una situazione sconsigliabile a chi soffre di claustrofobia osservammo passare la profana processione sonorizzata a stecca con gruppi di ragazzi indiavolati che su quei carri ballavano la danza tribale del popolo della tecno.
Devo dire che ci divertimmo persino, lo spettacolo era straordinario per colori, scenografie e coreografie; alcune ragazze erano persino a seno nudo e a parte il volume sonoro che ci investiva, ci sopraffaceva e impediva la conversazione l’unico rammarico era quello di non aver comprato il disco che desideravo.
Quella musica tecno, ritmata, così violenta e frastornante com’era diversa però, dal ritmo dolce e sincopato delle percussioni di Dom Um Romao che aprono "Sweetnighter" sulle note di "Boogie Woogie Waltz", brano scritto da Jo Zawinul che per andamento e stile ricorda il suo impegno nel gruppo di Miles Davis ai tempi dell’epocale "Bitches Brew", con il piano elettrico che singhiozza con l’effetto wah-wah per tutti i tredici minuti di durata, mentre Shorter sfodera successivamente sia il soprano che il tenore e svisa da par suo, arabeggiante e arabescante fino al termine del brano, col crescendo ormai famoso dell’unisono ritmato da tutti i musicisti che dal vivo riscuote sempre grandi applausi.
E che dire della successiva "Manolete", lenta e sinuosa composizione di Wayne Shorter ancora all’opera al soprano tra cascatelle pianistiche, nacchere zingaresche e atmosfera da fumoso “Cotton Club” cubano che si trasforma nella successiva "Adios" in uno sventagliare soffuso di sonagli e tintinnanti percussioni dal climax atmosferico dell’avanguardia più ostica e intransigente.
E se nella Zawinuliana "125ht Street Congress" entriamo nuovamente nella “Miles Davis Corporation” per sonorità e rimembranze del famoso e già citato doppio, è un giovanissimo Miroslav Vitous a condurre la danza con un micidiale ritmo macinante di contrabbasso acustico che si muove tra percussioni tribali, mentre il soprano di Shorter balbetta frasi smozzicate e il piano si limita a tintinnare come un cacciaspiriti cinese alla brezza serale; ed è lo stesso Vitous a firmare "Will" imbracciando il basso elettrico in una ieratica elegia di sei minuti di pacate e nude percussioni Santaniane, rivestite dai brevi assoli dei solisti tra cui un corno inglese suonato da Andrew White, mentre la conclusiva e poco incisiva "Non-Stop Home" (Shorter) prelude a una svolta elettronica in realtà mai avvenuta se non nei più mediocri dischi solisti del sassofonista.
Un album, "Sweetnighter", sostanzialmente piacevole, con almeno la metà dei sei brani di ottimo livello, non un capolavoro ma opera di gran classe e mestiere dove le infinite percussioni tra Africa e Sudamerica suonate anche da ospiti esterni al nucleo originario la fanno da padrone incalzanti e, come si direbbe al cinema, presenti in ogni minima sequenza. Un disco molto percussivo con qualche ammiccamento commerciale ma di gusto e che si presta sia all’ascolto da “sottofondo” che a quello più approfondito che ne scopra le infinite sfumature e...
Ma a questo punto qualcuno potrebbe giustamente chiedersi: "...ma se quella volta a Parigi non è riuscito a comprarsi il disco come fa a parlarne e a sapere tutte quelle cose?".
E’ presto detto: alcuni mesi dopo dal mio ritorno da Parigi mi venne voglia di ascoltare un ellepi di Kenny Wheeler, un trombettista jazz che mi piace molto.
Dovetti prendere una sedia e salirci sopra poichè i dischi di jazz, essendo quelli che ascolto meno, li ho dislocati all’ultimo piano della mia discheria, e nel cercare Kenny Wheeler, alla lettera W mi caddero gli occhi sulle costine dei dischi dei Weather Report e... accidenti, erano tre! Osservai meglio e tra "Mysterious Traveller" e "I sing the body electric" spiccava la copertina azzurra di "Sweetnighter". La sorpesa fu immensa; caddi dalle nuvole e quasi dalla sedia: "Sweetnighter", il disco non comprato con grande dispiacere, ora era lì tra le mie mani, ed era proprio lui...
Ora, a me piacerebbe pensare che il potente desiderio di possedere quell’album provocò uno scatenamento sensoriale e psichico, un fenomeno di telecinesi, che, teletrasportando magicamente l’album dalla libreria di Parigi fino all’ultimo piano della mia discheria me lo fece ritrovare lì, ma onestamente non credo che le cose possano essere andate in questo modo...
Quella sera quando Giannina ritornò a casa dal lavoro le andai incontro col disco tra le mani ricordandole la storia e concludendo: “Sicuramente il disco lo possedevo già da molto prima di Parigi, ma me n’ero completamente scordato, non ricordo neppure dove e quando l’ho comprato, o se me l’hanno regalato, so soltanto che era lì insieme agli dischi dei Weather Report completamente dimenticato...”
“E cosa vuoi che sia...” m’interruppe lei: “... pensa che io stamattina ho ritrovato in un armadietto sotto il frullatore trecento euro che avevo nascosto un paio di anni fa e di cui mi ero completamente dimenticata”.
Quella sera, con una parte dei trecento euro dimenticati e ritrovati, andammo a cena fuori, quando tornammo a casa misi sul piatto "Sweetnighter" dei Weather Report e lo ascoltai senza ricordarmi neppure se era la prima volta.
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