Usciva il 28 agosto 1974 “Hergest Ridge”, secondo album di Mike Oldfield.
La legenda narra che l’inaspettato
successo commerciale e di critica del suo album di debutto, “Tubular Bells”,
colpì Oldfield che decise di non andare in tour ed evitò la stampa.
Questa
improvvisa notorietà lo mise in crisi, e si ritirò al confine tra Inghilterra
e Galles, dove registrò l’album.
Hergest Ridge è il nome della collina che si
vedeva da casa sua.
Di tutto un Pop…
Wazza
Mike e un piccolo aeroplano a
controllo remoto-Hergest Ridge, Herefordshire, UK, 1974
L'album che sto per recensire non è
tra i più famosi di Oldfield, successore di "Tubular Bells" e dal
quale eredita la pressione del successo ottenuto e la voglia e necessità di
comporre un lavoro dilatato e rarefatto più vicino ad atmosfere ambient e new
age. Ed è proprio in questo album che vengono temperate e filtrate dalla sua
creatività l'impulsività e i guizzi di genio emersi in "Tubular
Bells". Il risultato di questa equazione dà vita al migliore disco di
Oldfield. Ispirato dal paesaggio dell'Herefordshire l'album si presenta
suddiviso in due suite strumentali.
La prima introdotta da fiati che
inizia a tessere la delicata trama su cui si sviluppa l'intero album, in un
crescendo di strumenti su cui spicca la chitarra dal suono suadente e
malinconico che a tratti segue, a tratti profana la struttura geometrica
dell'intero album. Spettri melodici che si compenetrano senza soluzione di
continuità un po' come i paesaggi autunnali del Galles fatti di tenui luci, del
brillante controluce delle foglie e le ombre fresche del crepuscolo.
La seconda parte si apre con una
delicata chitarra acustica e si dischiude lentamente in un universo sognante
fatto di melodie quasi pastorali dal sapore Folk per poi incupirsi come si
fosse sorpesi in piena campagna da un violento apocalittico temporale. Ed ecco
venti o più chitarre suonate in serie che tessono una melodia sghemba,
segmentata e claustofobica che
gira su sé stessa finché quando meno
te lo aspetti dal nulla riappare la luce tiepida dalle tinte oniriche che
conclude l'album in un crescendo di abbracci orchestrali e acustiche minimali.
Il disco più ombroso ed incompreso dell'Oldfield più ispirato e creativo.
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