Hello, compie gli anni oggi, 10 dicembre, Sophya Baccini, cantante, compositrice,
musicista.
Voce particolarissima, una
delle poche "donne prog" del panorama musicale italiano. Inizia con i
Presence, gruppo di "dark-progressive", per proseguire come solita
con il suo gruppo, Aradia.
Molto richiesta dai
colleghi come corista o seconda voce, specialmente con gli Osanna, dove spesso
è "special guest", sia sui dischi, che in concerto.
Da sottolineare il suo
ultimo lavoro, "Big red dragon",
con dedica a William Blake, un album che non dovrebbe mancare nelle vostra
discoteca prog.
Happy Birthday Sophya
WK
Per saperne di più (intervista di Gianmaria Consiglio)
Ci vuole
coraggio a dedicare un disco a William Blake, di questi tempi. Tempi in cui “tutti”
pretendono di fare “tutto”,
spesso con risultati discutibili. Tempi di saturazione informativa e
culturale, di velocità supersonica e di smisurata dispersione. Tempi in cui
molto spesso i buoni propositi non sono all’altezza dei
risultati, e i limiti non giustificano le ambizioni. Ma soprattutto, tempi di
diffuso e inconsapevole conformismo. Blake, vissuto
tra la seconda metà del XVIII e l’inizio del XIX
secolo, fu e resta un outsider, un genio folle, un illustrissimo sconosciuto,
citato da tutti, letto da quasi nessuno, e pochi tra chi se n’è
servito, hanno mostrato, come recentemente ha fatto la cantante e musicista
napoletana Sophya Baccini, di comprendere a fondo il suo mondo “irriverente” e visionario,
e soprattutto di rispettarlo. E così numerosi musicisti prima di lei, dai
Tangerine Dream agli Ulver, da Van Morrison a Loreena McKennitt, da Bob Dylan
a Marilyn Manson, si sono ispirati ai suoi testi, ma nessuno forse aveva mai
osato dedicare un intero album ai quadri dipinti dal poeta e pittore inglese
a commento dei suoi libri, della Bibbia”e della “Divina
Commedia. Big Red Dragon”,
pubblicato dalla Black Widow lo scorso ottobre e a breve disponibile in
formato Lp Deluxe contenuto in un vero e proprio quadro da appendere, è un
disco concepito come un musical, o un “melodramma rock”,
che si avvale della presenza di alcuni prestigiosi ospiti come Sonja Kristina
dei Curved Air, Christian Décamps degli Ange e Lino e Irvin Vairetti degli
Osanna. Certamente un’opera
della maturità, la sintesi di un lungo percorso, e una raccolta compiuta di
immagini - quelle di Blake appunto - messe in musica, destinata a restare nel
tempo, e meritevole della massima attenzione, che qui Sophya ci racconta in
una maniera appassionata e da vera artista, con un toccante pensiero
conclusivo rivolto a Francesco di Giacomo, il cantante del Banco del Mutuo
Soccorso, recentemente scomparso.
- Ciao Sophya, e grazie per la tua disponibilità. Cominciamo a parlare di te. A partire dal tuo album d’esordio, “Aradía” del 2009, hai deciso di apportare una piccola modifica al tuo nome come segno di una rinascita e di un significativo cambiamento non solo artistico ma anche personale. Cosa distingue la Sophya di oggi dalla Sofia del passato? - Una nuova consapevolezza. Prima ero la cantante dei Presence, scrivevo i testi, qualche melodia, e andava bene così. Poi mi sono resa conto che volevo esprimermi anche in altri modi, per esempio suonando, componendo, arrangiando i miei brani, seguendo un percorso parallelo ma opposto a quello dei Presence. Una mia intima interpretazione del rock, del prog e del dark in particolare. Questo è successo in un periodo molto lungo, dal 2000 al 2008, in cui i Presence non hanno pubblicato dischi. Mi mancava quella musica, mi mancava quel genere, è stata quasi un’esigenza mettermi a scrivere. Sul piano personale è avvenuta una specie di rinascita. Tornare a sedermi al pianoforte mi richiamava prepotentemente verso sensazioni ed emozioni dimenticate, soprattutto cominciavo ad avere fiducia in me, a rispettare il mio talento. Qualcuno mi ha detto che nell’alfabeto greco la lettera “phy” significa proprio rinascita, così ho voluto sottolineare tutto questo con un cambio di nome, come se ripartissi da zero. Ho sostituito “f” con “phy, cambiava l’essenza ma non la pronuncia, ed è stato davvero un nuovo inizio. - Il tuo background musicale proviene dalla grande tradizione classica della musica europea e in particolare dal melodramma italiano. In più di un’occasione hai reso omaggio a Giuseppe Verdi, nel medley verdiano contenuto nell’album “Black Opera” dei Presence e nella citazione di una celebre frase del compositore di Busseto (Torniamo all’antico: sarà un progresso”) all’interno della confezione in digipack di Aradía. Consideri il tuo approccio più affine alla musica classica o al rock? - Sono così profondamente connesse entrambe dentro di me che non so distinguerle. Ho detto più volte che il prog è secondo me l’espressione più alta della musica leggera. Oltre il prog c’è la musica classica, sia lirica che sinfonica. Io mi trovo esattamente sul confine. - Qual è secondo te la più grande aria verdiana? - Difficile la risposta, ci sono delle cose che ha scritto nella sua ultima opera, Falstaff, che sono duecento anni avanti. Comunque se proprio devo citarne una dico: È strano!... è strano!..., l’aria di Violetta dal primo atto de “La Traviata. C’è un’intensità tale nella musica e nel testo che mi fa commuovere ogni volta che la riascolto. Ah, forse è lui che l’anima / solinga ne’ tumulti / godea sovente pingere / de’ suoi colori occulti!...: come si fa a scrivere una frase del genere e a metterci su una delle melodie più belle mai concepite? Ci trovo sempre un significato nuovo, e questa è la grandezza che rende una composizione immortale. - Qual è stato da principio il tuo percorso formativo musicale? - Ho cominciato col pianoforte, dai 5 ai 12 anni più o meno, con le sonate classiche di Beethoven e i notturni di Chopin. Poi sono arrivate le lezioni di canto con il maestro di mio padre, che era stato un tenore in gioventù, e poi è arrivato il rock, cioè tutto quanto, che è tuttora il mio punto di riferimento. Non ho mai smesso e non smetterò mai di studiare musica, in tutti i suoi aspetti, anche quello storico, mi piace troppo! - La maggior parte delle tue composizioni ha un mood marcatamente dark, termine che viene comunemente associato ad una corrente della new wave e del post punk degli anni 80 noto come “gothic. Naturalmente atmosfere e tematiche dark sono presenti in generi musicali precedenti e successivi a quell’epoca, e stilisticamente molto distanti tra loro. Secondo Sophya Baccini che cos’è la musica dark? - È quella parte della musica che esplora il lato nascosto, sinistro dell’animo umano. È nata con i Black Widow nel rock, ed è stata in seguito magnificamente confermata dai Black Sabbath, che ne hanno stabilito i canoni, esaltando le quinte diminuite e le tematiche oscure ed ermetiche. Ma anche Mussorgsky, Orff, Verdi, Wagner e molti compositori dodecafonici come Berg rispondono al mio concetto di dark. Ci vorrebbe un trattato per nominarli tutti.
In molti, dopo l’uscita
di “Aradía”, mi
hanno detto che ero “gotica”, e
questo mi ha spinto ad ascoltare più approfonditamente quella corrente.
Conoscevo ad esempio gruppi come i Cure, ma non sapevo che fossero “gotici”.
Però non mi riconosco pienamente nella definizione di “gotico”. Il
“mio”
dark è più energetico, più grintoso, forse meno… depresso?
- Quali sono le band sperimentali italiane degli anni ’70 a cui ti senti più affine? Penso ad esempio ai Pierrot Lunaire di Arturo Stalteri. - Io penso al “Pierrot Lunaire” di Schönberg! No, scherzo, Stalteri mi piace moltissimo, ma della produzione italiana degli anni ’70 preferisco le band classiche: Osanna, Pfm, il Banco, che col suo “Darwin” mi è entrato nell’anima, il Balletto di Bronzo, gli Area con Demetrio Stratos, il Rovescio della Medaglia, i Metamorfosi, le Orme. - E quali sono i musicisti e le correnti musicali che ti hanno maggiormente appassionato? - Il Romanticismo nella musica lirica e sinfonica e il blues sono stati fondamentali per me. Poi mi ha incuriosito il Novecento, con il suo carico di energia, di innovazione e di spinta verso la tecnologia e la scienza, in tutti i campi dell’arte e della tecnica. Quindi il prog, che adesso è sinonimo di obsoleto, ma in realtà la sua essenza è proprio quella di rinnovare, progredire. Il prog ci ha regalato nuovi strumenti, nuove armonie, nuovi linguaggi. Lo stesso ha fatto la musica classica contemporanea con gli esperimenti sull’abolizione della tonalità, con le orchestre completamente rinnovate nell’insieme. E così il teatro, che è diventato multimediale, con l’aggiunta di schermi nelle scenografie. Andare a vedere un’opera oggi significa quasi assistere ad un concerto rock. Tutto questo mi ha affascinato, spingendomi a cercare sempre qualcosa di nuovo, sia con l’uso di effetti sulla voce e di interpretazioni inusuali con i Presence, sia nella struttura delle mie composizioni. Poi sono profondamente legata a tutto l’hard rock classico inglese, ovviamente al progressive in tutte le sue diramazioni, e ammiro tantissimo David Bowie, per la bellezza dei testi e per la sua capacità di non ripetersi mai. Ho ascoltato molto anche il metal, quello vero, gruppi come i Judas Priests e gli Iron Maiden. Tra gli americani amo Lou Reed, Janis Joplin, Joan Baez, i Grand Funk, Frank Zappa, i Tubes, Alice Cooper, e tutto il southern rock. E poi i grandi gruppi melodici degli anni ’70 ’80 e ’90, come ad esempio i Journey, i Kansas, i Boston, i Jefferson (Airplane e Starship, NdR.), e anche i Fleetwood Mac. La matrice comune è questa vocalità intensa, colorata, immersa nella musica quasi come in una pièce teatrale, che mi piace tantissimo e che mi ha insegnato tantissimo. - Chi ti conosce abbastanza bene sa che i Pink Floyd sono una delle tue grandi e numerose passioni musicali, e in tutto ciò che hai fatto c’è qualcosa di loro, al punto che a volte si potrebbe pensare a delle citazioni intenzionali, come nel caso di alcuni passaggi presenti nell’album “Big Red Dragon”, che rimandano in maniera netta a “The Division Bell”, penso ad esempio al tema principale del brano “Angel of the Revelation”. - Questa cosa di “Angel of the Revelation” me la fai notare tu adesso, e pensandoci mi trovi d’accordo. A volte certe cose prima ti ispirano e poi ti entrano nel DNA. Comunque sicuramente un tributo voluto e sottolineato c’è in “Cerberus,” in particolare nella struttura del brano e nei cori. Secondo me i Pink Floyd oltre alla psichedelia hanno inventato anche un modo diverso di intendere il blues, rendendolo più liquido, più immerso nella follia. Un nuovo tipo di disperazione dolorosamente sperimentata dall’uomo postmoderno che si trova a fronteggiare impreparato i propri mostri e le proprie paure. Il finale di “Cerberus”, dopo il crescendo dei cori, vuole proprio dipingere questo stato d’animo: il grido del cane a tre teste, mostruoso guardiano dell’Inferno, ma suo prigioniero al pari delle anime dannate che sorveglia. Il linguaggio floydiano riesce a rendere in maniera superba questo senso dell’ineluttabile, e io mi sono sentita quasi in dovere di usarlo. - Sergio Casamassima, Franco Ponzo, Chicco Accetta: tre chitarristi virtuosi, esuberanti, intensi, quasi barocchi, con una marcata impronta metal, la quale però in tutti e tre i casi, manco a farlo apposta, sfocia in tipici passaggi alla David Gilmour dei Pink Floyd (il suono di Accetta talvolta ricorda anche Mike Oldfield). Qual è il ruolo che attribuisci alla chitarra elettrica in “Big Red Dragon”? - Assolutamente fondamentale. Dire che per me “Big Red Dragon” è un buon disco sarebbe troppo scontato, no? Ci ho messo veramente l’anima, ci ho perso il sonno e la fantasia, ho cercato di curare ogni nota, ogni passaggio. Una cosa però posso dirla: la chitarra di Chicco ha veramente fatto la differenza. Se c’era qualcosa di buono, lo ha reso eccellente. Avevo scritto tutte le parti di chitarra, anche qualche assolo, quindi credevo di avere già un’idea precisa del risultato. Ma quando lui è arrivato in studio ascoltarlo è stata pura delizia. A cominciare dal suono, che è proprio il “suo” e di nessun altro, per arrivare ai riff e agli assoli che sono tutti perfettamente centrati, tirati, originali. A volte io e il fonico gli facevamo fare due o tre versioni della stessa parte solo per il gusto di risentirlo. E poi devi sapere che per me il rock e la chitarra sono sinonimi. Mi piacciono moltissimo le tastiere, il piano, è logico, ma se non sento una chitarra distorta non mi diverto. In questo senso Chicco ha veramente incarnato tutti i miei desideri. L’assolo di “Just”, per esempio, è un capolavoro, comincia velocissimo, con un andamento metal, per diventare poi incredibilmente malinconico, con quelle note lunghe, intense, nella seconda parte e nel finale. Sembrano quasi due chitarristi diversi! Mi ricordo che durante le session ad un certo punto gli ho detto che certe cose di Jimmy Page mi fanno impazzire, e lui: “Allora ti faccio un regalo”, e ha concluso il solo di “Big Red Dragon” con la prima frase di “Since I’ve Been Loving You”. Come si fa a non amarlo? - La tua carriera è costellata di numerose collaborazioni artistiche. Quali sono quelle che ti hanno lasciato un segno più profondo? - Quella con Lino Vairetti e quindi con gli Osanna, che continua ancora. La collaborazione con Martin Grice, flautista/sassofonista dei Delirium, che è sfociata come nel caso di Lino in una bellissima amicizia. Devo a Martin se mi sono “lanciata” anche come pianista. Stavo registrando le voci a Genova per “Il Nome del Vento” dei Delirium, e mentre aspettavo che il fonico preparasse il microfono ho visto un pianoforte Yamaha C3, gran coda, impossibile resistere! Mi sono messa a strimpellare un pò, Martin mi è venuto vicino e mi ha detto: “Fammi un passaggio da re minore a fa maggiore”. Io ho suonato un paio di cose e lui senza dirmelo ha registrato. Qualche mese dopo mi è arrivata a casa la copia del disco con un brano, “Cuore Sacro”, che cominciava col mio pianoforte. Quello è stato l’inizio della mia carriera di pianista, oltre che di cantante. Conservo per lui un affetto ed una gratitudine particolari. Poi ci sono le collaborazioni recentissime per “BRD”, quelle con Sonja Kristina, Steve Sylvester e Christian Décamps. Ho avuto la fortuna di conoscere Christian e Sonja personalmente. Sono andata in Francia nell’estate del 2011 a casa di Christian, un ospite stupendo, gentilissimo, una persona affabile e alla mano, che mi ha trattata come se ci conoscessimo da sempre. C’erano anche mio marito e Massimo e Laura della Black Widow. Abbiamo pranzato insieme, suonato e cantato. Davanti a un buon bicchiere di vino abbiamo parlato di musica, di letteratura, dei progetti futuri, e del brano che avrebbe dovuto cantare sul mio disco. Quando ci siamo salutati gli ho detto che avevo vissuto quella giornata come in un sogno, e lui mi ha risposto: “Quelque fois la vie est comme un rêve“ (“A volte la vita è come un sogno”). Sonja l’ho incontrata a Roma un anno fa, abbiamo cantato insieme con gli Oak la sera di Halloween. Sono entrata nel suo camerino e l’ho vista che provava la sua parte col chitarrista con una semplicità ed una professionalità incredibili. Ci siamo abbracciate, abbiamo chiacchierato e giocato con i cellulari come “two school girls”, e alla fine abbiamo cenato tutti insieme facendo un gran chiasso, mentre una delle ballerine ci truccava in maniera terrificante. Mi ha anche dato un sacco di consigli sulla pronuncia della lingua inglese ed è stata molto disponibile e gentile. Con Steve invece c’è stato un lungo scambio di mail. Oltre ad essere un grande artista è anche simpaticissimo. - E a questo proposito mi pare che il tuo ultimo album “Big Red Dragon” vada considerato più che come un album solista, piuttosto come un’opera collettiva diretta da Sophya Baccini per il suo progetto musicale chiamato Aradia. Parlaci dei prestigiosi ospiti che hanno partecipato alla sua realizzazione, dei/delle musicisti/e che ti hanno accompagnato in questa avventura, e del significato che si cela dietro al nome Aradia. - Questa definizione che hai dato mi piace moltissimo, perché descrive pienamente lo spirito del disco. Partendo dall’idea di realizzare un omaggio a William Blake, ho focalizzato l’attenzione sui suoi quadri, perché mi sembrava il modo migliore per descrivere l’anima di questo grande genio senza tempo. Dopo averne scelti 11 tra la sua immensa produzione, in maniera puramente istintiva, prima di scrivere un brano per ogni disegno mi sono chiesta chi avrebbe potuto interpretare e suonare le singole tracce. Da qui è partita l’opera collettiva, come hai accennato. Ho cominciato col gruppo, per poi concentrarmi sugli ospiti. Per pubblicizzare “Aradía”, il mio precedente album, avevo fatto alcuni concerti acustici con Chicco alla chitarra e Stella Manfredi al violino, che accompagnavano me al pianoforte e alla voce. “Aradía” è un disco quasi interamente sinfonico, ha delle atmosfere molto soffuse e malinconiche. Per un lavoro su Blake, invece, avevo in mente qualcosa di più potente, ci volevano anche una sezione ritmica e delle tastiere. Dato che una band al femminile è stato sempre un mio desiderio, ho pensato di aggiungere a Stella altre musiciste donne, mantenendo Chicco come punto di riferimento. Così sono arrivate Francesca Colaps alla batteria, tramite Lino Vairetti, e Marilena Striano alle tastiere, che ho conosciuto in extremis e veramente per caso tramite una mia allieva di canto. Io potevo occuparmi da sola delle linee di basso (suonate su un synth, Ndr.), quindi adesso c’era il progetto, c’era la band, ma mancavano gli interpreti, e qui mi sono sbizzarrita. Sono andata da Massimo e gli ho detto: “William Blake meriterebbe come minimo Sonja Kristina e Christian Décamps”. E così, dopo qualche mese, mentre i primi pezzi prendevano forma, mi arriva una mail con gli indirizzi di Sonja e Christian, e in più la proposta di chiedere anche la collaborazione di Steve Sylvester, che Massimo conosce bene. A quel punto ho capito che il gioco si faceva serio, e che non potevo perdere questa occasione. Tutta questa situazione mi ispirava moltissimo, conoscere meglio William Blake mi apriva orizzonti illimitati, e le melodie, gli accordi, fluivano liberamente, quasi con prepotenza. Mi sono chiusa nel mio studio per due anni interi, mangiando panini davanti al pianoforte e dormendo cinque ore a notte. Quando l’album era quasi finito mi sono detta che ci voleva anche qualche musicista oltre ai cantanti, così ho chiesto ad Elisa Montaldo (de Il Tempio delle Clessidre, Ndr.) di fare un assolo di harpsichord per “Love of Hecate”. Nel frattempo gli ospiti cominciavano a spedirmi i file con le voci. Ascoltando l’interpretazione incredibile, per grinta e tecnica, di Steve Sylvester in “The Number”, ho pensato: “Ci vuole Enrico” (Enrico Iglio, tastierista/compositore dei Presence, NdR.). Solo lui con la sua cultura e la sua anima dark poteva affiancare e valorizzare una voce come quella di Steve. Infatti mi ha mandato un assolo di Hammond e alcune parti di Minimoog e di Bells perfettamente inserite nello spirito del brano e del quadro. Non poteva mancare assolutamente Lino Vairetti, che aveva già cantato in un brano di “Aradía”, ma stavolta ho rilanciato. In questi ultimi anni ho partecipato come ospite a moltissimi concerti degli Osanna cantando “‘A Zingara”, incisa nel loro “Prog Family”. Ho sentito cantare Irvin, figlio di Lino, e mi sono innamorata della sua voce. Così potevo scrivere un terzetto ispirandomi alla mia amata lirica su un’illustrazione di Blake dalla “Divina Commedia” di Dante che mi sembrava perfetta, ed è nata “La Porta dell’Inferno”, con Lino che interpreta Virgilio, Irvin che è Dante, suo discepolo e figlio spirituale, mentre io canto la famosa iscrizione “Per me si va…”. A quel punto si era definitivamente risvegliato il mio spirito guerriero, e sono andata da Aurelio Fierro Jr. Aurelio lo conosco da anni, è un cantante eccezionale, ed ero molto affezionata al suo grande omonimo nonno, che era un amico di famiglia. Ha un background molto hard rock, Coverdale e Gillian per intenderci, ma è veramente in grado di cantare qualsiasi cosa. Avrei sempre voluto coinvolgerlo in un mio lavoro. Ho pensato che per lui Big Red Dragon calzava a pennello, così gli ho chiesto di partecipare. È venuto in studio, l’ha cantata, e quando ho sentito il risultato finale ho deciso che quella sarebbe stata la title track. Anche il dipinto è tra i più belli ed immaginifici di Blake, ed il titolo “Big Red Dragon” secondo me dipinge anche la sua personalità. Infine, il fonico che ha registrato sia “Big Red Dragon” che “Aradía” è ormai un amico del cuore, so che posso rivolgermi a lui quando voglio ottenere dei suoni impossibili, delle atmosfere sofisticate, e mi segue con una pazienza ed un senso dello humour a volte addirittura spiazzanti. Siccome poi è anche un bravo tastierista, ha un gran gusto, e tra lui e Chicco si era stabilito da subito un feeling eccezionale di reciproca stima, li ho fatti duettare nel solo finale di “Cerberus”. Così il corpus del lavoro era compiuto, c’erano i brani, c’erano gli ospiti, c’erano i musicisti, e c’era la copertina. Mancava solo un nome per la band. E ancora una volta ho capito che si trattava di una nuova partenza. Non volevo più essere una cantautrice e basta, volevo un gruppo, un progetto corale più ampio, che descrivesse anche il nuovo disco e tutto quello che c’era intorno, e che desse continuità al mio percorso. Il mito di Aradia, dea venerata in Italia dalla cultura contadina pre-cristiana, mi aveva già intrigato quando avevo dedicato a lei il mio primo album, ed ora era perfetto per definire tutto questo. Figlia della dea Diana e del diavolo, si poneva come fine ultimo la salvezza del genere umano per espiare il peccato della madre che si era congiunta al demonio. Era il frutto del bene e del male, e al suo culto si fa risalire la nascita della stregoneria. È stata la prima strega di ogni tempo, incarnazione positiva del potere della volontà e della conoscenza. Così sono nati i Sophya Baccini’s Aradia. - In una fase del suo pensiero, quella segnata dai provocatori testi di “The Marriage of Heaven and Hell”, scritti tra il 1790 e il 1793 a ridosso degli sconvolgimenti sociali della Rivoluzione francese e della Rivoluzione industriale, Blake attribuì al diavolo tutti i valori positivi che poneva in contrasto alla natura repressiva dell’ipocrita moralità del tempo e della religione istituzionalizzata della Chiesa. In questo senso le sue illustrazioni dei testi biblici sono un commento critico e irriverente nei confronti dei “sacri” testi. In tutto questo come ti poni nei confronti dei valori espressi ad esempio nella “Rivelazione” (o “Apocalisse”) di Giovanni come il giudizio, l’ira e la punizione divini, la sudditanza dell’uomo nei confronti di Dio, la distinzione manichea tra il bene e il male, la repressione della sessualità ecc…? - Lasciando semplicemente da parte i giudizi universali, l’ira, le punizioni divine, perché secondo me non ci sono. Ci sono forse le visioni di un santo che ha raccontato le sue immagini oniriche, ispirate da una forza trascendentale e superiore. Questo è quello che l’autore dice, e questo è quello che io recepisco. Poi ognuno potrebbe strumentalizzare per i propri fini un racconto come quello dell’”Apocalisse”, che si presta a mille interpretazioni diverse. Puoi trovarci dentro tutto quello che vuoi, la magia, gli alieni, il misticismo, l’Era dell’Acquario, il Giudizio Universale, la Bestia Infernale, ma quello che io proprio non ci vedo è la separazione tra diavolo e Dio, tantomeno il confine netto tra il bene e il male. Tra il bianco e il nero ci sono 16 milioni di grigi! Secondo me i testi sacri sono dei codici, e come tutti i codici bisogna decifrarli per capirli. Questa chiave di lettura è probabilmente andata persa nei secoli, oppure se c’è qualcuno che la conosce se la tiene stretta e non va a parlarne in giro. Ma per me prendere sul serio i racconti della “Bibbia” o di qualsiasi altro testo sacro tralasciandone l’aspetto simbolico è pura follia. “Sotto il velame de li versi strani”, diceva un certo Dante Alighieri, che di visioni un pò se ne intendeva. - In due brani del tuo album, “Satan” e “The Number”, affronti il tema del diavolo, o Satana, o come dir si voglia. Per te che cosa rappresenta il diavolo da un punto di vista simbolico e allegorico? - Il diavolo è la terra, la materia, il corpo, la carne e il sangue che sono provvisori e deteriorabili. Per questo vive e prospera nelle tentazioni, nel vizio, nella debolezza. È quella vocina subdola che ti convince che non serve a niente fare qualsiasi cosa, ma anche quella forza rabbiosa che ti scatena l’ira incontrollabile e il desiderio di vendetta. È sia quella forza interna che ti possiede, che ti soggioga, che quella che ti assale e si avventa dall'esterno. Ma in entrambi i casi il diavolo è una lezione di vita. Ne sa molto di più lui sull’animo umano di qualsiasi altra fantasia mai creata. Se vuoi sapere come vanno le cose in questa valle di lacrime te lo dirà il diavolo, non Dio, lui è un tipo decisamente più spirituale, perché, non dimentichiamoci - e qui mi riallaccio alla forza simbolica di certi racconti sacri - che Caino ha ucciso Abele. - Il brano “Big Red Dragon”, non a caso, pare trovare, coerentemente all'idea di Blake espressa nell’immagine di riferimento, una riconciliazione tra il drago (il demonio) e la donna incinta di un futuro devoto di Dio destinato a diffondere la sua parola e a guidare “tutte le nazioni”. Qual è la tua interpretazione di questo acquerello di Blake che è diventato anche la copertina del tuo album? - Guardando il quadro ho avuto la sensazione che fosse un fermo immagine, un frame. L’idea del movimento è fortissima: i capelli di lei si muovono verso l’alto, il mare è in tempesta, la coda del dragone è attorcigliata verso il basso, le sue ali sono spiegate. Mi è sembrato di vedere chiaramente cosa stava succedendo prima: lei era chinata sullo scoglio, mentre il dragone volava nel cielo in burrasca. Un fulmine le fa alzare la testa ed i loro sguardi si incontrano. Rimangono come ipnotizzati, incapaci di muoversi e di reagire, mentre intorno a loro tutti e quattro gli elementi sono in tempesta. Le loro braccia formano un cerchio perfetto, all’interno del quale sembra quasi di percepire il flusso dei loro pensieri, immuni dall’agitazione che li circonda. Il Bene è inequivocabilmente rappresentato da lei, la donna vestita di sole che si trova in basso, mentre il dragone, il Male, è in alto, in grado di volare nel cielo notturno. È il capovolgimento delle idee ancestrali, oggi diremmo dell’inconscio collettivo. È l’amore che congiunge gli opposti, la luce che illumina dal basso, il buio che ti fa volare. Il dialogo impossibile tra Bene e Male, che fa di due esseri uno soltanto. Il Matrimonio tra Paradiso ed Inferno che partorirà l’idea, impossibile per noi da concepire, della conciliazione dell’antico dualismo. Un’altra tematica ricorrente di Blake che ha influenzato tutta la cultura rock, tutte le arti del Novecento e quelle contemporanee, cinematografia compresa. - Tra tutti i testi di “Big Red Dragon” “Love of Hecate” risulta essere il più enigmatico. In che maniera hai reinterpretato qui il significato allegorico della Dea greca Ecate? - Ecate è spesso rappresentata come la triplice dea in grado di passare dal regno dei vivi al regno dei morti, accompagnando le anime dall'una e dall'altra parte. Il disegno di Blake infatti mostra un paesaggio notturno, con un terzetto di figure in primo piano al centro. Nel cielo vola un gufo, simbolo della magia e di tutto ciò che si cela oltre l’apparenza, e di lato c’è un asino, che io ho interpretato come la mente sciocca che vede tutto questo ma non è in grado di comprenderlo. Infatti, e qui veniamo al significato principale che ho attribuito alle immagini, la dea seduta al centro mostra un libro aperto, mentre due figure umane inginocchiate accanto a lei sono di spalle, imprigionate, con la testa girata dall'altro lato, impossibilitate a leggere, muoversi e capire. Sono un uomo ed una donna, nudi, senza difese, al contrario dei magnifici abiti di lei, intrappolati proprio da quell'idea che cercano di penetrare. Ho immaginato che quello fosse l’Amore di Ecate, “Love of Hecate”, l’amore negativo che ti imprigiona invece di liberarti, il rancore che ti lega alla terra e non ti permette di vedere altro, grazie anche al potere della dea che in questo caso è la guardiana dell’occulto che non va svelato a chi non può sopportarlo. “L’amore di Ecate è dolore / l’amore di Ecate è catena, è pioggia / che acceca il tuo essere arcano / è una deformazione di cenere e polvere, un grano / di sciocco desiderio che arrugginisce il varco […]” (“The love of Hecate is pain / the love of Hecate is chain, is rain / that blinds your arcane / is strain of ashes and dust grain / of foolish desire that ruts the gate […]” dal brano “Love of Hecate”, NdR.). In questo stato d’animo non vedi il cielo in cui volano le tue aspirazioni e i tuoi talenti, non c’è un ideale che possa liberarti. “Così io resto senza le mie stelle / Così io prego, senza la mia propria stella” (“So I stay without all my stars / So I pray, without my own star”, ibid.). - Il brano più ispirato e commovente dell’intero album è certamente “Beatrice”, con una interpretazione vocale e pianistica molto impegnativa e sentita. Ci racconti come è nato e come è stato realizzato? - “Beatrice” l’ho scritta espressamente per Marilena, la tastierista. Come ti ho detto l’ho conosciuta in extremis, quando il disco era praticamente finito, e non c’era più il tempo per farle suonare le parti di tastiere e di pianoforte. Però lei è un’artista sensibilissima, ha una grande cultura classica e pop, e per questo volevo che fosse presente nell’album in qualche modo. Ho pensato così di aggiungere un ultimo disegno, e cercando qua e là ho trovato quest’illustrazione della “Divina Commedia”: “Beatrice che indirizza Dante” (verso il Paradiso). Mi ha colpito subito, e come testo ho preso un estratto dal “Canto I” del “Paradiso”, ho scritto in un pomeriggio un brano per pianoforte e voce, l’ho registrato in MIDI nello studio di casa mia, lasciando delle armonie semplicissime per non influenzarla, e gliel’ho mandato. Dopo una quindicina di giorni lei mi ha spedito la sua versione, con l’armonizzazione diversa e due piccole parti strumentali al centro. Incantevole… Ci siamo viste poco dopo in studio dove l’abbiamo registrato in diretta con un piano a coda. Per la prima volta in vita mia quando abbiamo finito di registrare abbiamo detto: “Buona la prima”. - “Big Red Dragon” fin dall’inizio, col rullare dei tamburi ed il trillo orchestrale, pare essere concepito come un musical o un’opera che comincia con l’apertura di un sipario. In particolare i duetti con Christian Décamps in “Au Matin du Premier Jour”, Aurelio Fierro Jr in “Big Red Dragon”, Sonja Kristina in “While he’s Sleeping”, Steve Sylvester in “The Number”, Roberto Tiranti in “Just”, e Lino e Irvin Vairetti in “La Porta dell’Inferno”, sembrano fatti su misura per una rappresentazione teatrale. In che maniera hai elaborato le musiche e i testi ispirati ai quadri di William Blake? - L’opera lirica è il teatro in musica, mi appartiene nelle ossa, e ho sempre pensato che non esiste un’altra forma musicale più completa e più appagante per la vista e per l’udito. È stata una naturale conseguenza, guardando i disegni di Blake, pensare di inserirli in un contesto musica/teatro. Non solo, è stato il “fil rouge” che mi ha accompagnato durante tutta la creazione dell’album, rendendo facile un lavoro che all’inizio addirittura mi spaventava. C’era il timore di non rendere giustizia all’immaginazione potente, feconda, variegata di Blake, che ha affrontato temi titanici e si è ispirata ad altrettanti capolavori come la “Divina Commedia”, il “Paradiso Perduto” di Milton, e non ultima la “Bibbia”. L’Opera in queste tematiche si trova completamente a suo agio, ed è un terreno a me familiare. Così si è accesa la lampadina, ho messo il portatile sul pianoforte con l’immagine che volevo descrivere sul monitor, e guardavo e suonavo, guardavo e scrivevo. Facile ed emozionante, come ascoltare “La Traviata”! - In molti brani come “La Porta dell’Inferno”, e in particolare nell’arpeggio introduttivo di “Just”, si sente un forte influsso delle atmosfere claustrofobiche e ossessive delle colonne sonore di John Carpenter, tipo “Halloween”, “Il Signore del Male”, “1997: Fuga da New York” e “La Cosa”. Qual è il tuo rapporto con le musiche di Carpenter? - Wow, le adoro! Con i Presence aprivamo i concerti con il tema di “1997: Fuga da New York”. Un film come “Il Signore del Male”, ad esempio, non sarebbe così bello senza quella colonna sonora. Sai, io credevo che dopo i Black Sabbath non si potesse più fare del buon dark basato sul minimalismo geniale, non so se mi spiego… poi ti arriva questo regista, musicista, autore, che per quasi tutta la durata di un film è capace di usare una nota, una sola, lunga, bassa, inquietante ed oppressiva, ritmica, industrial e postmoderna… un pò come i Tangerine Dream di “Ricochet”, ma più ineluttabile. Ecco un’altra grande lezione di musica legata alle immagini, che per me è stata una fonte di creatività inesauribile! - Current 93, Death in June, Sol Invictus, Cocteau Twins di Elizabeth Frazer, Shadow Project, Christian Death di Rozz Williams (quelli di “Only Theatre of Pain” e “Catastrophe Ballet”, per intenderci). Ti hanno influenzato in qualche modo questi artisti? - No, ma sicuramente abbiamo degli influssi comuni. - Hai tenuto conto di altri musicisti che si sono ispirati all’opera di Blake prima di te quando hai cominciato a lavorare a “Big Red Dragon”? - Volutamente no, non volevo farmi influenzare in alcun modo. Quello che volevo fare era esaltare la capacità visionaria di William Blake, filtrandola attraverso la mia visione delle sue visioni. Specchiandomi nel suo specchio. - Nel brano “While he’s Sleeping”, cantato insieme a Sonja Kristina dei Curved Air, c’è un innesto di batteria elettronica nella seconda strofa cantata da Sonja/Eva: “Time is moving / and starting for its gold rush […]”. Al primo ascolto di questo passaggio ho pensato subito alla musica ambient e chill-out degli anni ’90. A cosa è dovuta una scelta così lontana, forse solo apparentemente, dal tuo mondo musicale? - Sempre all’atmosfera che ho intravisto nel disegno. C’è questo giardino dell’Eden, immerso in una penombra serena e tranquilla, colmo di fiori e di piante rigogliose tra le quali Adamo dorme profondamente come solo i neonati possono fare. Al suo fianco c’è Eva, bellissima, in piedi, nuda e dolcissima, che sorridendo tende la mano verso l’Albero della Conoscenza, avvolta dalle spire del Serpente, anche lui silenzioso e magnificamente colorato. Non avrei mai potuto rappresentare tutto questo con dei suoni troppo forti o distorti, ci voleva piuttosto qualcosa che ti facesse adagiare nell’ovatta. Ho trovato un loop di batteria, una batteria vera però, suonata con le spazzole. Ci ho messo su una parte di contrabbasso, con una figurazione che viene definita walking bass, e da lì è partito tutto. Pensando che l’interprete doveva essere Sonja, e sapendo che nella band c’è Stella, ho inserito una frase di violino che è il tema portante del brano. Come sai tutte le band di Sonja hanno sempre un bellissimo violino come tratto distintivo. Ne è uscita fuori quest’atmosfera soffusa, completamente atonale, che tu hai definito benissimo come ambient e chill-out. Volevo che si sentisse anche il freddo, perché di lì a poco Eva mangerà la mela e le conseguenze saranno agghiaccianti. Lei agirà con le migliori intenzioni di questo mondo, spianandosi invece la strada per l’Inferno della materia e della morte. Ma tutto questo succederà dopo, per ora c’è ancora un giardino incantato, una luna gravida di promesse, un uomo che serenamente dorme, ed un serpente dal sibilo elegante ed affascinante. - Come mai, secondo te, l’opera di Blake è, come ha scritto il critico letterario canadese Northrop Frye, “il corpus poetico in lingua inglese meno letto”, nonostante sia stato uno degli artisti più influenti nello sviluppo delle ideologie degli anni ’60 e ’70 e sia spesso citato da scrittori, musicisti, registi, filosofi, sociologi e storici? - Perché la mente dell’uomo, specie quello contemporaneo, è troppo bombardata da continui stimoli, mentre purtroppo la sua curiosità si è addormentata. Tanto c’è chi sceglie per lui. “Too much informations” cantava Sting con i Police negli anni ’80, e questo è il riassunto della nostra tragedia, cominciata molto, molto tempo fa. Anche il Gargantua di Rabelais, nel 1500, si disperava di non poter “mangiare” tutta la conoscenza che aveva a disposizione. Abbiamo appena finito di assimilare, di capire i grandi poeti romantici come Joyce, Keats, Browning, Dickinson, che ti arriva questo signore che li ha preceduti tutti ed è qualche secolo avanti a loro… È veramente troppo, ce n’è abbastanza, così molti lo hanno parcheggiato nel limbo, in attesa di riuscire a capirci qualcosa. La grande contraddizione è che in realtà lo conosciamo benissimo, perché tutti i contemporanei hanno attinto a piene mani da lui. - Al momento cosa bolle nella pentola di Sophya Baccini? - Sto organizzando una serie di concerti per pubblicizzare “Big Red Dragon”, e sto cantando i brani per il nuovo album dei Presence. Anche Enrico e Sergio (Iglio e Casamassima, NdR.) stanno vivendo un momento di creatività molto positivo, e mi hanno chiesto di cantare e scrivere testi, come sempre, ma adesso è tutto molto diverso, c’è più entusiasmo, più rispetto. Sophya ha cambiato anche Sofia, e poi qualche idea un pò folle mi frulla nel cervello, per il momento non dico di più. - Com’è il tuo rapporto con la religione? - In continua evoluzione. - Secondo te è vero che il rock è mezzo morto? - Questo è quello che vorrebbero farci credere. È la discografia ufficiale che sta cambiando, perché la musica ormai è gratis ovunque, scaricabile ovunque, in formati tra l’altro qualitativamente vergognosi, e allora ti dicono che nessuno compra più i dischi. Poi ti arrivano questi rockettari fastidiosi che sfornano prodotti pieni di fantasia, con le copertine che sembrano quadri, con i testi scritti a lettere d’oro, i libretti interni che sembrano libri, pieni di disegni e fotografie, e queste cose ricominciano a vendere, addirittura il vinile più del CD, come ultimamente sta succedendo, perché la gente lo vuole, e non si accontenta più di un mp3 che può andare bene al massimo come una demo. Buffo no? Basterebbe dare un po’ di spazio sui media ufficiali a tutto questo mondo sotterraneo - affollatissimo di scarti, è vero, ma anche di proposte estremamente interessanti - per far capire a tutti che il rock è vivo e vegeto, e che sono soprattutto i ragazzi che lo suonano. Perché quando sei giovane sei assetato di vita, vuoi gli eroi, vuoi un modello forte, vuoi le emozioni devastanti, la tua mente non si è ancora arresa alla monotonia e al grigiore, e ti piacerebbe intravedere un futuro. Il rock non è certo avaro di tutto questo! Il rock ha creato la discografia, prima del rock non si poteva nemmeno immaginare che fosse possibile vendere centinaia di milioni di copie di dischi, ed è ancora e sempre il rock che crea la tendenza. Anche nella moda, nelle abitudini di vita, tutti inconsapevolmente aspettano il rock per capire dove andare e cosa fare. Questo non è sinonimo di moribondo! E comunque quando dico rock, più che dei musicisti parlo principalmente di quelli che lo ascoltano, che lo diffondono, che lo comprano. Sono loro che non lo faranno mai morire. - Da poco ci ha lasciato senza preavviso Francesco Di Giacomo, voce, anima, pensiero e corpo del Banco del Mutuo Soccorso. Qual è il ricordo più caro che hai di lui? E cosa pensi che succederà adesso al Banco?
- Sono
moltissimi i ricordi che ho di Francesco, che conoscevo personalmente anche
se non benissimo. Sono amica da tanto tempo di Vittorio Nocenzi e di Rodolfo
Maltese. Quello che più mi piaceva di Francesco, e che suscitava in me un’ammirazione
sconfinata che si rinnovava ad ogni concerto, oltre naturalmente alla voce
stupenda, era quel suo modo unico di sdrammatizzare e di prendere con
leggerezza tutto quello che il Banco e la sua musica rappresentava. Parlava
di argomenti scottanti e profondissimi, cantava una musica difficile e
complessa, ma attraverso di lui tutto acquistava una semplicità ed una
bellezza disarmanti. Sembrava tutto facile quando lo faceva lui. I testi che
scriveva erano magnifici, e non gli ho mai sentito presentare un brano nella
stessa maniera. La cosa tremenda di tutta questa situazione è proprio questa:
Francesco secondo me è insostituibile, sia per il timbro unico della sua
voce, sia per la sua personalità inimitabile. Ora è troppo presto per
azzardare un’ipotesi,
ma credo che il Banco si esibirà ancora, forse più che altro per ricordarlo,
magari con una serie di cantanti ed amici del gruppo che interpreteranno i
suoi brani alla propria maniera. Ma non credo che ci sarà mai un altro al suo
posto, è impossibile. Ci sentiamo tutti orfani di un’avventura
e di un sogno meraviglioso, finito troppo presto… L’unica
cosa che mi ripeto per consolarmi è che se non altro c’è
stato, è esistito, e noi siamo stati fortunati ad avere il privilegio di
assistere, di conoscere, e di amare un gruppo che ci ha accompagnati nel
periodo più bello della nostra vita. Se i ragazzi continueranno a suonarla, questa musica non morirà mai. E’ dal
1607 che si suona dal vivo l’Orfeo di Monteverdi, ed è sempre meraviglioso.
- Grazie, a presto! |
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