Yuval Ron - Somewhere
in This Universe, Somebody Hits a Drum
(featurin Marco Minnemann)
Di Andrea Pintelli
Uscito
qualche mese fa, questo album dei tedeschi Yuval Ron
(dal nome del loro leader, chitarra e voce) dal titolo “Somewhere in This Universe, Somebody Hits a Drum”
è stato registrato negli studi Bubble di Berlino, nell’arco temporale che va
dal 2016 al 2019, ad opera dello stesso Yuval Ron.
Fanno
parte della band Marco Minnemann alla batteria (come recita la nota di
copertina), Roberto Badoglio al basso, Matt Paull alle tastiere. I
membri del gruppo si presentano nelle foto interne vestiti con tute da
esploratori spaziali, clichè caro a certi stilemi di fine anni ’70 / inizi ‘80,
nel chiaro intento di celebrare visivamente lo space rock di quel tempo.
Musicalmente, invece, essi ricalcano la scena Progressive degli anni ’90, e
questo è reso palese dall’utilizzo degli effetti della chitarra, ma anche dal
muro di tastiere aggiunto, aspetti già conosciuti.
Ovviamente
il disco non è tutto qui, le idee sono ben palesate, anche perché lo si può
anche leggere come intenzionalmente evocativo fin dalla prima traccia omonima “Somewhere
in This Universe, Somebody Hits a Drum”, dove la voce ricopre tale ruolo,
ma poi un troppo giocoso intro di tastiere (sembra ricavato dai suoni dei primi
videogiochi spaziali) fa da contraltare a un suono di chitarra monocorde.
“Gravitational
Lensing” è più serioso nell’approccio iniziale, meno goliardico; ecco
quindi Yuval Ron stesso che si scatena con un assolo di cui sopra, nel
ripetersi di un refrain che fa da tappeto sonoro alle sue evoluzioni.
“Kuiper
Belt” ha echi da uno spazio profondo che i nostri vorrebbero rappresentare,
soprattutto nel continuo intrecciarsi dei protagonisti principali di questo
disco, che sono, come detto, chitarra e tastiera. Un lodevole e fantasioso lavoro
di basso è quel qualcosa in più che rende onore a questa terza traccia.
Con
“WiFi in Emerald City” arriva il coraggio di spingersi in direzioni più
care alle nostre orecchie, una dignitosa espressione in tempi dispari che viene
svolta con maestria e ben calibrando i suoni d’insieme. Si tratta di una mini-suite
che nella seconda parte sfocia in un intricato assolo di Yuval, come sempre ben
coadiuvato dai suoi compari. La terza parte è un crescendo (soprattutto
chitarristico) inarrestabile, sia come velocità, sia come idea, che poi torna
in maniera netta al motivo iniziale; chiusura del cerchio. Probabilmente il
picco creativo dell’album, ricavato da un’armonia collettiva che avrebbe potuto
essere centrale nella direzione dell’intero lavoro.
“The
Discovery of Phoebe” parte da atmosfere misteriose ma rilassate, nulla di
sinistro ma piuttosto un esercizio fatto in assenza di gravità che ha come
protagonista il basso elettrico. Dopo altro assolo di Yuval, nella seconda
parte si vira verso sonorità più heavy, mai stucchevoli, che poi vengono
sfumate per tornare alla tranquillità d’apertura.
“I
Believe in Astronauts”, ultima canzone-suite, chiude in maniera piacevole
questo lavoro che profuma di lontano. Viene dato risalto alla batteria di
Minnemann, giustamente, che non copre mai gli altri suoni (un bel merito).
Insomma,
un album che può essere ascoltato durante un lungo viaggio o una passeggiata
nello spazio, ammesso che la vostra psiche sia abituata a incontrare le stelle.
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