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sabato 29 febbraio 2020

ANNIE BARBAZZA – “VIVE”, di Andrea Pintelli


ANNIE BARBAZZA – “VIVE”
Di Andrea Pintelli

Finalmente ci siamo: il 29 febbraio è uscito “Vive”, il tanto atteso primo vero disco di Annie Barbazza, per chi scrive la migliore interprete italiana in ambito Prog, ma non solo, visto che lei è tanto di più. “Vero” perché questo è dav-vero tutto suo. Dopo Annie’s Playlist vol. 1 e vol. 2, Moonchild, e in veste di ospite in vari lavori altrui, è arrivata alla “sua” prima meta. Per agevolare l’ascoltatore e per un ripasso generale sulla sua figura, riporto alcune note rilasciate dalla Dark Companion Records: 

Questo è il primo vero album solista di Annie Barbazza. Era una giovanissima batterista, innamorata del rock progressivo, quando Greg Lake scoprì il suo talento come vocalist e la volle sul suo palco per quel celebre concerto che sarebbe poi diventato il postumo “Live in Piacenza”. Sempre Lake ha successivamente prodotto “Moonchild”, il duo con il pianista Max Repetti per la Manticore Records ove ha affidato all’interpretazione vocale di Annie brani di ELP e King Crimson, riarrangiati in chiave contemporanea per piano e voce, originariamente cantati da lui. Se questi sono stati gli inizi della carriera di Annie, ora vero astro nascente della scena Avant/Prog internazionale, l’amicizia con John Greaves (Henry Cow/National Health, ecc.) la porta a collaborare stabilmente dal vivo con il musicista gallese e a suonare e cantare nei suoi album (Piacenza per la Dark Companion e Life Size per la Manticore). Un’altra delle collaborazioni stabili è quella con il geniale cantautore Paul Roland con il quale Annie si esibisce regolarmente dal vivo come bassista e in studio come batterista, oltre a prestare la sua voce, naturalmente. Di straordinario successo di critica e pubblico la recente collaborazione con la North Sea Radio Orchestra come voce principale in Folly Bololey (Dark Companion DC012), il tributo a Robert Wyatt che ha trionfato al festival Rock In Opposition e al leggendario Café Oto (dove si è esibita anche con Fred Frith), tempio della musica nuova. Su disco collabora, tra gli altri, con Giorgio Fico Piazza e con i Warm Morning Brothers, mentre dal vivo si esibisce assieme, oltre ai già citati, ad artisti come Eugenio Finardi, Osanna, Robyn Hitchock, Aldo Tagliapietra, ecc. Questo album ha una lunga storia: nato dal desiderio di Lake che Annie vi suonasse tutti gli strumenti, la frequentazione di tanti amici musicisti ha fatto sì che il disco si arricchisse e si trasformasse profondamente. Questi amici le hanno semplicemente espresso il desiderio di “volerci essere”. Chi conosce Annie sa del suo carattere schivo: questo album dà voce a sogni e incubi, spettri e segreti. Tutti i brani sono scritti da lei con l’eccezione di due brani scritti per lei per questo Vive da John Greaves e da Paul Roland e da una cover dello splendido classico Blegvad/Greaves, “How Beautiful You Are”, richiesto nei numerosi live di Annie. Un album intimista, coraggioso, innovativo che rispecchia le molte influenze di Annie e che il produttore Max Marchini ha voluto lasciare semplice, essenziale, diretto, bene rappresentando la personalità di questa giovane musicista dalla voce impressionante, della quale si sentirà sempre di più parlare. La copertina del disco è dell’artista visuale William Xerra e la versione in vinile ne contiene una versione in stampa.”

Già, proprio un album intimo; sì, perché in esso c’è Annie, che come creatura lieve e importante, luccicante e profonda, ci fa captare fin da subito i crismi della sua volontà di mettere a nudo il suo cuore in quest’opera, libera di esprimersi a tutto tondo. Talmente e sinceramente meravigliosa, pervasa in maniera totale dal suo essere, è un flusso continuo di emozioni: è come se ci stesse dicendo “ecco, io sono questa”. Si comprende appieno che questa decisione viene da lontano, in un processo che l’ha portata ad affrontarsi, scendendo nelle cavità del suo io per riportare a sé stessa i gioielli che vi ha (ri)trovato, ora regalati a noi sottoforma di stupefacente bellezza. Questo disco è popolato da aspetti interiori che pochissimi artisti avrebbero il coraggio di esternare; è come essersi liberata del proprio baco per (ri)cominciare ad essere farfalla dai mille colori, volando e facendoci volare insieme a lei. Non ha prezzo tutto ciò. Per cui voi comprerete questo disco, ma capirete ben presto che la cifra sborsata sarà infinitamente inferiore alle sensazioni che proverete vivendolo.
I complimenti continui che possiamo solo farle sono nulla in confronto a ciò che lei ci offre, per due motivi, sostanzialmente: primo se li merita tutti, secondo non ha eguali.
Siccome la sua immensa intensità ha poco in comune con la media dei viventi, vorrei invitarvi (se non l’avete già fatto) ad andare a vederla, ascoltarla, viverla (usate il verbo che volete) dal vivo. Ne rimarrete rapiti e pervasi dal suo candore e dalla sua forza interpretativa. Davvero, non perdetevela. Nell’attesa delle nuove date dei sui concerti, ascoltiamola in quel che lei stessa così definisce: “Questo disco racconta la mia storia. Una storia che non avrei potuto raccontare senza l’aiuto dei miei amici, musicisti meravigliosi, a cui va la mia eterna gratitudine. Grazie”. Capite, vero?



Ys”, con Daniel Lanois alla pedal steel guitar e Annie alle prese con l’harmonium, apre le danze in modo netto: la soave voce ha sfumature dense e pressoché infinite, con la solita carica che la contraddistingue. Una sirena da cui ci lasciamo beatamente ammagliare. “June”, interamente suonata dalla nostra, profuma di dolcezza, sospesa fra la poesia e la sensazione che possano esistere altri colori oltre a quelli che conosciamo. “From Too Much Love of Living”, di John Greaves e Swinburne, con John stesso al basso e Olivier Mellano alla chitarra, vede Annie in veste di pianista. La sua interpretazione è da lacrima. Non posso aggiungere altro, sarebbe superfluo. “Time”, col maestro Lino “Capra” Vaccina al vibrafono e percussioni e Camillo Mozzoni all’oboe (stupendo), è un minuto di Annie suonato da loro due soli. Ne fanno un omaggio leggiadro. “Nebulae”, ogni strumento suonato da Annie, è avanguardistico, realmente musica altra. Se fosse stato scritto negli anni Settanta, saremmo tutti qui a ricordarlo come una pietra miliare del genere. Invece è odierno. Miracolo nel miracolo. Bellezza che cresce in progressione. “Wrote Mysfel a Letter”, di e con Paul Roland, ma anche con Vaccina e Michael Tanner all’autoharp, ha intimismo nelle sue corde, qui elevato alla decima da un’Annie che sembra angelo, o meglio, è colei che dà voce e cuore a creature d’altrove. Certo, le riesce molto bene. “How Beautiful You Are” di e con John Greaves, coadiuvato da Max Marchini al piano e Oliver Mellano alla chitarra, pone Annie in quello che pare sia l’ultima canzone che si vorrebbe cantare ad un concerto per suggellarne l’eternità, il picco dell’Amore con la A maiuscola. Annie ne dà una lettura davvero da pelle d’oca, tanto che sembra una canzona da lei partorita, cioè la fa sua. “Lost at Sea”, con Fred Frith alla chitarra, più tremante delle precedenti, causa tinte più oscure, mostra quanti registri vocali riesce ad esprimere la nostra, toni bassi compresi, di un’oggettiva difficoltà che lascia basiti. Un’onda che ci travolge dolcemente, la cui schiuma marina, Annie, riesce a farci sentire anche a livello olfattivo. Oltre i sensi. “Phantoms”, con Max Marchini al basso e Franz Soprani alle campane tibetane, affronta la parte più oscura di Annie, qui alle prese con tutti gli altri strumenti. Un (credo) tremendo sforzo interiore, che Annie con stile e verità riesce a esorcizzare come fosse la cura di sé stessa. “Tide” è la canzone sorella di “Time”, sempre col maestro Lino “Capra” Vaccina al vibrafono e percussioni e Camillo Mozzoni all’oboe (ancora stupendo); un sogno di Annie ora realtà grazie all’interpretazione di questi due grandi musicisti. “Les Ruines du Sommeil”, con Daniel Lanois alla pedal steel guitar, è un’ipnotica meraviglia che Annie ha scritto, arrangiato e creato, per lasciarci senza fiato. Va in cielo per poi tornare, fugge e si ripresenta, ci guarda e si fa guardare; lei è la luce e il vento, la nuvola e la pioggia. In suo battito di ciglia c’è di più che in un libro di avventura. L’archeologia dei tempi nostri. “Lotus Flower”, con Vaccina e Paolo Tofani (altro infinito musicista), pone Annie ancora al piano alle prese con un sogno che ha come protagonista, come dice il titolo, uno dei fiori più belli che esistano, che Annie respira per donarcene il profumo. In pratica un fiore che ne abbraccia un altro. “Boîte à Tinanes”, Annie e Fred Frith alle chitarre, si avvale della produzione originale del suo mentore Greg Lake, ed è l’ultima gemma di questa miniera di emozioni. Canzoni così dovrebbero durare due giorni, non avremmo mai sonno e potremmo nutrircene a sazietà. Ma che meraviglia!

Questo, forse, non è nemmeno un disco, un’opera. È qualcosa che trascende la terminologia comune, talmente si spinge in là nella ricerca di sé stessi e nella riscrittura delle proprie emozioni. Sì, è anche un regalo come anzidetto, ma soprattutto è un punto di arrivo e di ripartenza per Annie, sicuramente verso lidi che di diritto le spettano, oltre i confini della nostra povera patria. Chi non si accorgerà di Annie Barbazza, dovrà ritenersi colpevole di un delitto, ma credo saranno in pochi. Chi l’ascolterà per la prima volta, poi non la lascerà più.

Si avrà sempre fame di Annie Barbazza, cibo per l’anima, occhi per il futuro, amore per l’arte. Ognuno di noi è unico per definizione; lei va oltre questo concetto. Oggettivamente.
Abbracci diffusi.

giovedì 27 febbraio 2020

Stolen Apple - "Wagon Songs", di Luca Paoli



Stolen Apple – Wagon Songs (Autoproduzione) 2020
Di Luca Paoli

In questi giorni sto ascoltando un interessante gruppo fiorentino... gli Stolen Apple.
La band, infatti, ha pubblicato il 21 febbraio, per il momento solo in formato digitale, il nuovo lavoro “Wagon Songs”, che segue di tre anni "Trenches" (Audioglobe e Clearspot).
La formazione nasce nel 2008 a Firenze dalle ceneri dei Nest, autori di due lavori,Drifting” del 2001 e Isnt’ it?” del 2007.
Di quella formazione restano i due membri fondatori, Riccardo Dugini (voce, chitarra) e Luca Petrarchi (voce, chitarra) a cui si aggiungono Massimiliano Zatini  (basso) ed Alessandro Pagani (batteria).
Questa è la line up che dà vita oggi agli Stolem Apple.



Diciamo che con questi ragazzi si respira aria di rock americano anni ‘90 e protopunk.
Quindi una miscela intrigante che non disdegna anche chitarre in odore di psichedelia.
Neil Young che incontra i Pearl Jam potrebbe essere un buon indizio... ma non solo, qui ci si spinge ad esplorare anche territori punk.
Già il brano che apre l’album, “Suicide”, sta a testimoniare quanto scritto sopra.
Renegade Sun (Brexit) si apre con un riff di chitarra alla Keith Richards, ma più nervoso, dove la voce, arrabbiata al punto giusto, grida in faccia alla Brexit (in uscita a breve il video del brano).
Rock come se non ci fosse un domani, suonato con tutta la passione e la voglia di urlare le proprie convinzioni.
Ci sono anche momenti più pacati - come nel caso della bella ballata “A Looking Behind Kid”-  che ci riportano ad un certo cantautorato americano degli anni ‘90.
Molto bella e intensa.
Le chitarre si fanno sentire in “Tattoo”, un bel rock tirato e punkeggiante al punto giusto.
Nel disco convivono molto bene vari generi e stili, come il punk attuale, il rock, la psichedelia, il noise e il dark targato ‘90.
Gran bell’album che conferma la band ai vertici sia a livello compositivo che interpretativo e musicale.
Tutti i brani sono di ottimo livello, senza cadute di tono e con tutti gli ingredienti per candidarsi come miglior album rock dell’anno ascoltato finora dal sottoscritto.
Allora che aspettate, fate il pieno di gasolio, infilate il cd nel lettore della vostra auto e partite per una corsa sulle strade sabbiose della vostra fantasia.

Track List:
Suicide
Renegade Sun (Brexit)
It's Up Your Mind
Masturbation
Out Of Fashion
A Looking Behind Kid
Tattoo
Passion
Easier



mercoledì 26 febbraio 2020

Ricordando Rodolfo Maltese nel giorno in cui nacque...


 Di Fernando Pessoa

La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto.
Se ascolto, sento i tuoi passi
esistere come io esisto.
La terra è fatta di cielo.
Non ha nido la menzogna.
Mai nessuno s’è smarrito.
Tutto è verità e passaggio.

Buon compleanno Rudy!
Wazza


 Vittorio Nocenzi, Francesco Di Giacomo e Rodolfo Maltese

 Rodolfo Maltese e Francesco Di Giacomo a Palermo il 10.05.09 interpretano i Beatles


lunedì 24 febbraio 2020

Weather Report - "Sweetnighter", di Pupi Bracali


Weather Report - Sweetnighter
(CBS 1973)

Qualche anno fa andai in vacanza a Parigi. Io e Giannina, mia moglie, passammo una settimana incantevole tra i boulevards profumati di tiglio, tra le librerie all’aperto del Quartiere Latino, tra le guglie di Notre Dame e i camminamenti del Lungo Senna, poi come doveva succedere si avvicinò il momento del ritorno.
Mancavano tre giorni alla partenza per l’Italia quando in quel crepuscolo di un tiepido venerdì primaverile mentre passeggiavamo mano nella mano in Boulevard Saint Michel, tra parigini e turisti, ci imbattemmo nell’ennesima libreria traboccante di libri esposti ed accumulati all’aperto su bancarelle legnose e traballanti.
Questa però aveva qualcosa di diverso: tra le centinaia di libri attirò la mia attenzione un piccolo reparto di ellepi usati e se quei libri erano in francese che non avrei saputo leggere, la lingua universale della musica pareggiava i conti e mi sollecitava all’osservazione.
Mi misi così a curiosare tra le copertine di quel centinaio di dischi con la golosità di un bimbo che deve scegliere tra i gusti di un gelato.
Fu verso la metà di quella schiera di album che notai la copertina azzurra: le cinque facce celesti di Jo Zawinul, Wayne Shorter, Eric Gravatt, Dom Um Romao e Miroslav Vitous aleggiavano in un cielo dello stesso colore striato dalle nuvole azzurre e biancheggianti che circondavano i visi dei Weather Report
"Sweetnighter" era il titolo dell’album del 1973 che estrassi dalla pila di dischi, l’osservai davanti e dietro, poi tirai fuori il vinile, ne controllai le buone condizioni e mi rivolsi a mia moglie con assoluta convinzione:
Questo me lo compro!
Dei Weather Report possedevo già "I sing the body electric" e "Mysterious traveller", due dischi ottimi che mi erano piaciuti molto così mi decisi a fare la tripletta.
Ma io sono molto pigro e mi piace muovermi leggero, senza zainetti, borselli, o altri ammennicoli al mio seguito e soprattutto tra le mani, così dopo un’attenta riflessione dissi a Giannina:

Se me lo compro adesso mi tocca portarmelo in giro per tutta la sera a passeggio, al bar, al ristorante e magari pure al bistrot nel dopocena. Sai cosa faccio? Me lo prendo domani che è sabato prima di rientrare in albergo e poi domenica mattina partiamo.”

Così lo lasciai lì, deciso a comprarlo il giorno dopo.
Il giorno dopo tornammo in Boulevard Saint Michel per comprare il disco. Il viale era gremito di persone, molte di più dei giorni precedenti, soprattutto giovani, vestiti in pelle nera o estremamente colorati, con i capelli dalle più strane acconciature, quasi tutti bevevano, in mano lattine e bottigliette di birra, qualcuno era già ubriaco. In lontananza dall’estremità del boulevard proveniva il tonf tonf ritmato e incessante di una musica elettronica e sintetica.
E ora cosa caspita succede?”, dissi a mia moglie, ma parlando più che altro con me stesso.
Un rapido giro di domande a quei ragazzi tra un francese smozzicato e l’italiano e poi capimmo.
Quel giorno in Boulevard Saint Michel si sarebbe svolta la Tecno Parade, una sorta di carnevale di Viareggio con la sostanziale differenza che su ogni carro era piazzata una micidiale postazione dee-jay di chiara impostazione tecno dai volumi assordanti, con bassi che erano rimbombanti pugni nello stomaco e drum machine che macinavano e vomitavano decibel di pulsazioni tachicardiche.
Ma la cosa più grave, per quanto riguardava me, era che tutti i negozi erano chiusi.
Ogni serranda di ogni esercizio pubblico era abbassata. Per ragioni di sicurezza vista l’enorme mole di persone che si stava riversando nel quartiere i negozianti avevano tenuto chiuso.
Naturalmente anche la libreria dove mi aspettavano i Weather Report era inesorabilmente chiusa.
Ci rimasi veramente male. Ci tenevo tanto a quel disco in vinile ed ero sopraffatto dal disappunto e da un notevole rammarico.
Ma ormai era fatta. Ormai non avrei potuto farci niente. La mattina dopo sarei partito molto presto e "Sweetnighter" era irrimediabilmente perduto.
Così decidemmo di fare necessità virtù. Imbottigliati tra la calca in una situazione sconsigliabile a chi soffre di claustrofobia osservammo passare la profana processione sonorizzata a stecca con gruppi di ragazzi indiavolati che su quei carri ballavano la danza tribale del popolo della tecno.
Devo dire che ci divertimmo persino, lo spettacolo era straordinario per colori, scenografie e coreografie; alcune ragazze erano persino a seno nudo e a parte il volume sonoro che ci investiva, ci sopraffaceva e impediva la conversazione l’unico rammarico era quello di non aver comprato il disco che desideravo.
Quella musica tecno, ritmata, così violenta e frastornante com’era diversa però, dal ritmo dolce e sincopato delle percussioni di Dom Um Romao che aprono "Sweetnighter" sulle note di "Boogie Woogie Waltz", brano scritto da Jo Zawinul che per andamento e stile ricorda il suo impegno nel gruppo di Miles Davis ai tempi dell’epocale "Bitches Brew", con il piano elettrico che singhiozza con l’effetto wah-wah per tutti i tredici minuti di durata, mentre Shorter sfodera successivamente sia il soprano che il tenore e svisa da par suo, arabeggiante e arabescante fino al termine del brano, col crescendo ormai famoso dell’unisono ritmato da tutti i musicisti che dal vivo riscuote sempre grandi applausi.
E che dire della successiva "Manolete", lenta e sinuosa composizione di Wayne Shorter ancora all’opera al soprano tra cascatelle pianistiche, nacchere zingaresche e atmosfera da fumoso “Cotton Club” cubano che si trasforma nella successiva "Adios" in uno sventagliare soffuso di sonagli e tintinnanti percussioni dal climax atmosferico dell’avanguardia più ostica e intransigente.
E se nella Zawinuliana "125ht Street Congress" entriamo nuovamente nella “Miles Davis Corporation” per sonorità e rimembranze del famoso e già citato doppio, è un giovanissimo Miroslav Vitous a condurre la danza con un micidiale ritmo macinante di contrabbasso acustico che si muove tra percussioni tribali, mentre il soprano di Shorter balbetta frasi smozzicate e il piano si limita a tintinnare come un cacciaspiriti cinese alla brezza serale; ed è lo stesso Vitous a firmare "Will" imbracciando il basso elettrico in una ieratica elegia di sei minuti di pacate e nude percussioni Santaniane, rivestite dai brevi assoli dei solisti tra cui un corno inglese suonato da Andrew White, mentre la conclusiva e poco incisiva "Non-Stop Home" (Shorter) prelude a una svolta elettronica in realtà mai avvenuta se non nei più mediocri dischi solisti del sassofonista.
Un album, "Sweetnighter", sostanzialmente piacevole, con almeno la metà dei sei brani di ottimo livello, non un capolavoro ma opera di gran classe e mestiere dove le infinite percussioni tra Africa e Sudamerica suonate anche da ospiti esterni al nucleo originario la fanno da padrone incalzanti e, come si direbbe al cinema, presenti in ogni minima sequenza. Un disco molto percussivo con qualche ammiccamento commerciale ma di gusto e che si presta sia all’ascolto da “sottofondo” che a quello più approfondito che ne scopra le infinite sfumature e...
Ma a questo punto qualcuno potrebbe giustamente chiedersi: "...ma se quella volta a Parigi non è riuscito a comprarsi il disco come fa a parlarne e a sapere tutte quelle cose?".
E’ presto detto: alcuni mesi dopo dal mio ritorno da Parigi mi venne voglia di ascoltare un ellepi di Kenny Wheeler, un trombettista jazz che mi piace molto.
Dovetti prendere una sedia e salirci sopra poichè i dischi di jazz, essendo quelli che ascolto meno, li ho dislocati all’ultimo piano della mia discheria, e nel cercare Kenny Wheeler, alla lettera W mi caddero gli occhi sulle costine dei dischi dei Weather Report e... accidenti, erano tre! Osservai meglio e tra "Mysterious Traveller" e "I sing the body electric" spiccava la copertina azzurra di "Sweetnighter". La sorpesa fu immensa; caddi dalle nuvole e quasi dalla sedia: "Sweetnighter", il disco non comprato con grande dispiacere, ora era lì tra le mie mani, ed era proprio lui...
Ora, a me piacerebbe pensare che il potente desiderio di possedere quell’album provocò uno scatenamento sensoriale e psichico, un fenomeno di telecinesi, che, teletrasportando magicamente l’album dalla libreria di Parigi fino all’ultimo piano della mia discheria me lo fece ritrovare lì, ma onestamente non credo che le cose possano essere andate in questo modo...
Quella sera quando Giannina ritornò a casa dal lavoro le andai incontro col disco tra le mani ricordandole la storia e concludendo: “Sicuramente il disco lo possedevo già da molto prima di Parigi, ma me n’ero completamente scordato, non ricordo neppure dove e quando l’ho comprato, o se me l’hanno regalato, so soltanto che era lì insieme agli dischi dei Weather Report completamente dimenticato...”
E cosa vuoi che sia...” m’interruppe lei: “... pensa che io stamattina ho ritrovato in un armadietto sotto il frullatore trecento euro che avevo nascosto un paio di anni fa e di cui mi ero completamente dimenticata”.
Quella sera, con una parte dei trecento euro dimenticati e ritrovati, andammo a cena fuori, quando tornammo a casa misi sul piatto "Sweetnighter" dei Weather Report e lo ascoltai senza ricordarmi neppure se era la prima volta.

domenica 23 febbraio 2020

Moon Lalune e Ride or Die al M.aG. Festival di Genova il 19 febbraio


Dolce e forte la luna e il suo sorriso, enigmatico… Moon Lalune è la scoperta di un suono che non si accontenta e instancabile si ricrea… emozioni e movimento su un palco che sogna il suo infinito… storie perenni nel divenire di chi suonando le crea…. Moi c’est le lune… maree di suoni al Lucrezia mercoledì sera - 19 febbraio - per M.aG. Festival... suoni come la luna mutevoli… e come la luna difficili da inventare sui pulsanti ribelli che offrono il suono alla nostra attesa… lo sa bene il codino dell’equilibrista armonico che oscillando insegue la trascrizione materica di una emozione ….

Ride or Die ed è un trionfo di energia… pura brillante assoluta energia che si fa suono e movimento e ti incanta liberandoti… a tutti i costi si, oltre quegli scampoli di nulla che sono le barriere che ci inventiamo, inconsapevoli della nostra bellezza… ma l’altra sera sul palco del Lucrezia e pure sotto il palco questa bellezza era lì a portata di mano… era per tutti… con tutte le sue elefanti molteplici sfumature... forti incisivi brillanti incredibili i Ride or die...cosi vitali e appassionati in uno spazio che scompare aprendo altre coreografie… solo un sussurro, e il taverniere è lì a spillare emozioni, vivendole…

sabato 22 febbraio 2020

Pupi Bracali racconta "Harvest"



Un pò di tempo fa Pupi Bracali, scrittore ed esperto di musica, ebbe un’idea sintetizzata nella seguente sua chiosa: 

Ho un ideuzza che da tempo mi frulla nel cervello. Molti album che ho amato e amo hanno, a volte, segnato anche un momento della mia (nostra) vita non solo intrinsecamente musicale. Quindi pensavo di scrivere alcune recensioni di dischi non sterilmente asettiche, ma legate a momenti della mia vita privata inserendoci anche un piccolo tocco narrativo. Ovviamente molti altri lettori del blog potrebbero identificarcisi come spesso capita anche a me.”

I ricordi di Pupi sono quelli di molti di noi... e partiamo da... 

Le musiche della nostra vita - Harvest di Neil Young 
(Warner Bros. Records 1972)


Possiedo un po’ meno di quattromila dischi in vinile.
Quasi tutto rock, un bel po’ di jazz, un paio di centinaia di musica classica, qualcosa di italiano più varie ed eventuali.
Tra quelle poche migliaia di album, alcuni hanno un posto particolare nel mio cuore. Si sa che la musica oltre alla sua bellezza intrinseca possiede un potere evocativo non indifferente.
Uno di questi dischi è Harvest di Neil Young, autore di cui possiedo una trentina di album (ma questo è un mio sciocco vanto personale e comunque vince Frank Zappa con una quarantina).
Harvest mi fu regalato nel 1972 dalla mia ragazza di allora che era a conoscenza del mio amore per lei e per il cantautore canadese.
Quell’anno possedevo un vecchio giradischi da pochissimi soldi decrepito e usurato. Poiché quel dono a cui tenevo tanto non meritava un ascolto fallace e approssimativo promisi a me stesso e alla mia ragazza che avrei ascoltato il disco solo dopo aver acquistato un impianto stereo decoroso.
E così fu: alcuni lunghi mesi di sudati risparmi mi separarono dall’ascolto del mitico album, ma infine ottenni il risultato: un metallizzato e luccicante stereo con casse Indiana Line a tre vie, giradischi con testina Shure e amplificatore Pioneer, apparve nella mia cameretta e la sera stessa della sua apparizione invitai la mia ragazza (... ebbene sì dopo tutti quei mesi stavamo ancora insieme!) all’ascolto comune di Harvest di Neil Young.


Come uno sciamano che preparava un rito tolsi i sigilli al disco; la plastica trasparente che lo avvolgeva finì gemente e accartocciata in un angolo; la copertina apribile rivelava all’interno una foto di Young con la sua tipica camicia a quadri e con le mani sui fianchi catturato da un obiettivo sfocato e deformante. Poi c’erano i titoli delle canzoni, i musicisti e tutti i crediti relativi al disco.
Dentro, oltre la busta che conteneva l’album, una doppia facciata riportava tutti i testi dei brani scritti in corsivo e vergati con inchiostro nero sul noisette della carta, dalla stessa mano di Neil Young.
E poi c’era la musica. Quella musica.
Spensi la luce, io e la mia ragazza ci rannicchiammo in silenzio sulla mia brandina e la musica partì lenta e potente nel buio della stanza.
Nell’oscurità, i led dell’amplificatore, due aghi che vibravano all’unisono col ritmo della musica, ondeggiarono, agitandosi ritmicamente nei due piccoli rettangoli luminosi colore giallo/verde, unica fonte luminosa in quella stanza. Il basso e la cassa stoppata della batteria di Out on the weekend, il brano di apertura, furono l’inizio di una quarantina di minuti memorabili.

                                                                     Pupi Bracali

Godetti a quell’ascolto e col tempo imparai a memoria le parole e i vari momenti del disco: la slide di Ben Keith che miagola come un gatto in amore quasi per tutto l’album, l’(im)percettibile fruscio che, al secondo minuto di Out on the weekend, testimonia la caduta di un leggìo (o di un microfono) nello studio di registrazione e che Young non volle eliminare col timore di rovinare il brano, l’arpeggio acustico live e solitario di The needle and the damage done sul quale migliaia di ragazzini (tra i quali il sottoscritto) impararono i primi rudimenti chitarristici, canzone contro e sulla droga (but every junkie is like setting sun) che sembra presagire le tristezze e le morti che rivestirono in seguito, come un tetro sudario, un album bello e oscuro come Tonight’s the night. Imparai a conoscere i momenti di un country melanconico come quello di Old man e quello più scanzonato di Are you ready for the country, momenti che ti fanno riconciliare con un tipo di musica che non è solo quella becera e commerciale di John Denver o di Tony Joe White.
Apprezzai i sinfonismi orchestrali di There’s a world e di A man need a maid, e il CSN&Y style dell’antirazzista Alabama che vede per l’appunto ai cori Crosby e Stills, e conobbi per la prima volta il timido chitarrismo solista di Neil Young in Word che pur ancora in nuce fa presagire i furori futuri di una chitarra tra le più selvagge, riconoscibili e imitate da quel momento fino a oggi.
Ascoltai il ritmo altalenante di Harvest e quello altrettanto ondeggiante di Heart of gold che vede ai cori le presenze di James Taylor e Linda Ronstadt, conobbi il pianoforte e gli arrangiamenti di Jack Nitzsche che otterrà fama e successo qualche anno dopo con la colonna sonora del film Qualcuno volò sul nido del cuculo... Ascoltai, ascoltai, ascoltai...
Da quella sera, da quella prima strabiliante e particolare esperienza sonora, ascoltai Harvest ancora mille volte fino a quasi consumarlo, poi il tempo passò.
Altri tempi, altre musiche e negli anni ottanta apparvero i cd. Non come tutti, ma certamente come molti mi adeguai; accantonai i long playing e cominciai ad acquistare e ad ascoltare quella nuova fonte di musica. Il mio giradischi Thorens incastonato nella mia libreria (discheria) divenne quasi una mensola su cui poggiare riviste, piccoli oggetti e gli occhiali che il tempo e l’età avevano fatto apparire sul mio naso nello stesso periodo dei cd.
Cd che aumentavano sopra i miei scaffali fino a diventare gli oltre duemila che possiedo oggi.
Poi accadde un paio di anni fa in un afoso pomeriggio estivo mentre mi crogiolavo al sole della spiaggia; fui raggiunto da un mio giovane amico munito di lettore portatile cd. Mi chiese se volevo ascoltare qualche cosa e nel novero di quella decina di cd che teneva in un contenitore venne fuori una copia di Harvest, album che non ascoltavo da più di vent’anni.
Mi distesi al sole, misi le cuffiette, mi rilassai e andai in estasi quasi come la prima volta.
Il disco reggeva benissimo l’urto del tempo e mi piacque nuovamente al punto che mi ripromisi di riascoltarlo appena ritornato a casa.
Lo feci e la sorpresa fu grandissima: dopo aver sbarazzato il giradischi dalla pila di libri ed altri oggetti che lo ricoprivano da tempo, misi sul piatto il vecchio pezzo di plastica del 1972 e scoprii che quell’antico vinile frusto e frusciante era immensamente “più bello” del suo equivalente su cd. Quel suono freddo e asettico che pur mi era piaciuto in quella spiaggia, era soverchiato dal calore e dalla profondità del suono che proveniva da quegli antichi solchi sfregiati da una vecchia puntina. Una volta di più, compresi e toccai con mano e con le orecchie, (se mai ce ne fosse stato bisogno) la superiorità sonora del vinile ed il suo valore...
Dal 1972 anno in cui ricevetti in dono Harvest sono cambiate tante cose: il mio impianto stereo è stato rinnovato alcune volte e alcune volte ho cambiato casa. La mia passione per quell’album però non è mai cambiata e... cosa ancora più importante, non è cambiata nemmeno la ragazza di allora che mi regalò quel disco. Ora è mia moglie, abbiamo un fantastico figlio di vent’anni e dopo avere attraversato e vissuto con gioia tanti esaltanti momenti musicali che vanno dalle dolcezze del progressive alle tempeste punk, dal folk inglese ai furori grunge, dall’hip hop, al post rock, capita ancora che ogni tanto ci rannicchiamo sul divano, spegniamo la luce come la prima volta e ci riascoltiamo Harvest di Neil Young.
Maurizio Pupi Bracali

venerdì 21 febbraio 2020

Ricordando Francesco Di Giacomo a sei anni dalla sua scomparsa


"Il primo livello di sapienza è saper tacere, il secondo è saper esprimere molte idee con poche parole, il terzo è saper parlare senza dire troppo e male. Si deve parlare solo quando si ha qualcosa da dire, che valga veramente la pena, o, perlomeno, che valga più del silenzio."
(Hernan Huarache Mamani)

21 febbraio.
Ci sarai sempre.Buon viaggio Capitano.
Wazza

Sandro Oliva:Lo vidi per la prima volta nell'estate del 1972 al "Festival Pop di Gualdo di Macerata" (3 giorni da paura, c'erano anche Orme, Trip, Quella Vecchia Locanda e non so quanti e quali altri).
Stesero tutti con la riproposizione live dell'intero "Salvadanaio", rendendoci finalmente orgogliosi di essere italiani (la PFM e le Orme sì, ma loro erano speciali proprio per via di BIG, che a me ricordava tanto The Bear dei Canned Heat, ma con una voce da sogno).
Finito di suonare Francesco scende dal palco nei suoi jeans modificati XXXXXXXL (non potete immaginare come fosse "vasto", allora) e fu subito attorniato da ragazzi che volevano l'autografo. Lui, gentilissimo diede retta a tutti, poi si congedò scusandosi perchè aveva la febbre.
E figuriamoci come canta quando sta bene, fu il primo pensiero di tutti!
Poi lo rivedemmo in teatri e festival più importanti, con il Banco ormai divenuto uno dei gruppi leader, ma averli visti giovani e agli inizi (eppure già perfettissimi, nella formazione originale con Renato e Marcello) resta un ricordo indimenticabile.”

giovedì 20 febbraio 2020

Il compleanno di Aldo Tagliapietra


Compie gli anni oggi, 20 febbraio, Aldo Tagliapietra, cantante, autore, bassista, suonatore di sitar, da 50 anni un pilastro della musica, pop e progressive.

Fondatore e storica voce del Le Orme - dal 1968 a 2009 - ha contribuito a realizzare grandi successi che li faranno diventare uno dei gruppi più amati in Italia.

Adriano Celentano, I Pooh, Tony Hadley (Spandau Ballet) e molti altri, lo hanno invitato a suonare il sitar nei loro dischi.

Ha prodotto e pubblicato ottimi album da solista, collaborato con vecchi e nuovi musicisti del panorama prog italiano e mondiale.

Continua a deliziarci con la sua voce, con la Aldo Tagliapietra Band, con grandi riconoscimenti sia in Italia che all'estero.

Buon compleanno "vecio".
Wazza








mercoledì 19 febbraio 2020

Il compleanno di Tony Iommi, di Wazza


Compie gli anni oggi, 19 febbraioTony Iommi, chitarrista di Birmingham, fondatore dei Black Sabbath, uno dei gruppi fondamentali dell'heavy metal", insieme ai compagni d'avventura Bill Ward, Ozzy Osbourne e Geeze Butler.

Diventato figura di spicco, con il suo stile ed i suoi riff ha "influenzato" molti chitarristi della musica heavy metal.
Ha fatto parte per tre settimane dei Jethro Tull, partecipando allo spettacolo televisivo "Rock'n'Roll Circus", nel dicembre del 1968. 


Ma la prova non convinse entrambi. Buon per Iommi che da probabile spalla diventò leader dei Black Sabbath.


Il 19 novembre 2013 viene insignito di un dottorato honoris causa dall'Università di Coventry "come riconoscimento del suo contributo al mondo della musica".

Happy Birthday Tony
Wazza

sabato 15 febbraio 2020

THE FENCE – EVERYDAY, di Andrea Zappaterra


THE FENCE – EVERYDAY
(New Model Label)
Di Andrea Zappaterra

Attivi da nove anni e dopo un paio di Ep in carnet, i The Fence esordiscono con dieci pezzi racchiusi nell’album EVERYDAY, un mix di vari generi, dal Funk-Rock al Prog, dall’Indi al Pop.

Il primo brano, The plan, inizia con uno sprezzante e trascinante riff molto ritmato che lascia il posto al più melodico Haunted by ghosts, quasi un brano anni ’80, ricco di sfumature vocali, un fraseggio suggestivo tra strumenti e singer.
Everyday, luminoso brano pieno di atmosfera, la vera perla dell’album (che ne prende anche il nome), è un Rock lento degno dei più blasonati gruppi del passato.
La dolcezza si fa strada con Aeroplane, che esalta le qualità canore del bravissimo Alessandro De Palma, un inno alla leggerezza che si libra come un aeroplano nel cielo.
Più intenso il discorso di Delirium, ricco di drammaticità e di pathos, subito rimosso dalla serenità di Stars, un rock lento elegante, quasi un’invocazione, pieno di sentimento e di delicatezza.
L’Hard riprende con Everlasting love, un riff tirato e carico, trascinante e palpitante, seguito da un divertente contrappunto in I never see you, dove è sempre l’anima più ruvida ad uscire con assoli di chitarra, distorsori ed effetti.
Un delizioso piano elettrico introduce The spell, un funky accattivante che spinge in alto le tonalità vocali del bravissimo Alessandro. Infine, At night everything changes, un che presenta un considerevole arrangiamento, pieno di sfumature, altalenante tra il cupo e il vivace. La musica si spegne lentamente è si ha un po’ di sorpresa nel sentirla sfumare così, come se si aspettassero ulteriore sonorità.

Ci si accorge a quel punto che l’album è stato coinvolgente e pieno di equilibrate composizioni, frutto di una prolifica creatività musicale, piacevole dalla prima all’ultima nota, a tratti esaltante, a tratti contemplativa, una sensibilità difficile da trovare ai nostri giorni. La strumentazione sempre al servizio dei testi, brillante specie nei vari assoli a testimonianza della maturità artistica raggiunta dai vari elementi del gruppo.
Se questa è l’alba di questo gruppo ben venga il giorno! E che ogni giorno sia così!


1.      The plan
2.      Haunted by ghosts
3.      Everyday
4.      Aeroplane
5.      Delirium
6.      Stars
7.      Everlasting love
8.      I never see you
9.      The spell
10. At night everything changes



Alessandro De Palma: voce
Matteo De Biasi: chitarra, voce
Claudio Falcaro: basso
Alessandro Tagliapietra: tastiere
Federico Favaro: batteria