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sabato 31 ottobre 2020

Led Zeppelin e New Trolls al 10° Cantagiro: era il 1971

Foto di Bruno Lubrano nel backstage del velodromo Vigorelli di Milano; assieme ai LED ZEPPELIN ci sono altri musicisti, roadies e fans: trattasi della storica e sfortunata unica data italiana della band, il 5 luglio 1971

Nel 1971, il patron del Cantagiro Enzo Radaelli ebbe l’idea di invitare i Led Zeppelin a questa manifestazione canora nazional-popolare.

Tutti sanno come andò a finire, ed eviterò di ripeterlo.

La cosa che invece merita menzione è la “sciagurata” lista di gruppi spalle o “open act”, tutti fischiati, o costretti a lasciare il palco in anticipo grazie a lancio di oggetti vari.

Sembra che gli unici che riuscirono a suonare furono i New Trolls, apprezzati dal pubblico giovanile.

Nelle foto allegate sono insieme ai Led Zeppelin nel backstage, e Robert Plant si diverte a suonare la batteria di Gianni Belleno.

Di Tutto un Pop…

Wazza

Nell’edizione del 1971 Radaelli aveva deciso di chiudere le puntate dei concerti itineranti con un contributo di grandi musicisti internazionali. Così il 5 luglio, al Velodromo Vigorelli di Milano, vennero invitati a suonare i Led Zeppelin, in quel momento sulla cresta dell’onda.

Il concerto cominciò con i cantanti italiani previsti in scaletta, intanto la gente, già numerosa, continuava ad affluire in massa. Tuttavia, buona parte degli spettatori non voleva saperne del Cantagiro, ed erano lì solo per i Led Zeppelin.

5 luglio 1971 i Led Zeppelin suonano al Vigorelli di Milano

Per questo motivo le esibizioni degli artisti italiani (Bobby Solo, Gianni Morandi, Milva e Lucio Dalla, tra gli altri) vennero accolte con un’esplosione di urla, fischi e proteste. Morandi, in particolare, tentò una versione italiana di un pezzo di Joan Baez e venne comunque preso a zollate di terra, non riuscendo neppure a finire la canzone; così gli altri, di fronte a queste reazioni, si rifiutarono di salire sul palco.


Mia Martini e Lucio Dalla, artisti  non utilizzati

A questo punto gli organizzatori buttarono sul palco i giovanissimi New Trolls, formazione progressive italiana, che suonò la parte finale del disco appena pubblicato, “Concerto grosso parte prima”. Questi ebbero un notevole successo, nonostante il clima teso, al punto che gli stessi Led Zeppelin andarono a vederli suonare dal palco.

In scaletta col gruppo inglese: Gianni Morandi, Ricchi e Poveri, Lucio Dalla e New Trolls...



New Trolls





lunedì 26 ottobre 2020

Quadrophenia: era il 26 ottobre del 1973

September 14, 1979: The film

was released. Based on The Who's 1973 rock opera, the film featured Phil Daniels, Toyah Willcox, Ray Winstone, Michael Elphick and Sting


Usciva il 26 ottobre 1973 il doppio album degli WhoQuadrophenia”, seguito di due capolavori come “Tommy” e “Who’s Next”.

Ne fu tratto anche un film che usci nel settembre 1979.

Di tutto un Pop.

Wazza

The Who's Masterpiece Quadrophenia released in the UK 26 October 1973


 Aspramente criticato e snobbato dai fans di lunga data, idolatrato da quelli di nuova generazione, Quadrophenia fu, forse, l’album più “Who” di qualsiasi altro loro lavoro. Più complesso di quello che potesse apparire ad una prima e superficiale chiave di lettura, la sua genesi datò 1972.

In origine era intento della band e del suo principale ideatore Pete Townshend dar vita ad un’opera rock imperniata sui quattro artisti stessi, considerato che lo straordinario “Tommy” che l’aveva preceduta, per forza di cose, veniva identificato col solo Roger Daltrey. Tuttavia, l’idea di un personaggio centrale di fantasia che incarnasse non soltanto le personalità dei singoli Who ma anche le frustrazioni e le illusioni dell’adolescente in cerca di sé stesso, cominciò a farsi strada nella mente di Townshend.

Ed il memorabile ed efficace calembour fra quadrophenia e schizofrenia trovò immediatamente ragion d’essere nel tormentato protagonista Jimmy Cooper: giovane mod fresco del 1965 (con un salto di tempo indietro di 7 anni, epoca in cui gli Who stessi avevano cavalcato l’ondata Mod) che nel Modernismo cerca risposte e salvezza dal male di vivere dell’adolescenza. L’impatto e l’approccio emotivo di Quadrophenia distava anni luce da quello di Tommy: mentre l’innocente e angelico Tommy, aggredito e dilaniato emozionalmente e psicologicamente da un ributtante mondo esterno (la sua famiglia in primis), nel suo tortuoso cammino verso la luce avrebbe conquistato e detenuto un’incrollabile forza e pace interiore tale da illuminare quanti intorno a lui, il travaglio di Jimmy non porterà solo sé stesso alla rovina, ma travolgerà anche i suoi rapporti sociali. Tommy raggiunge, di sofferenza in sofferenza, di sopruso in sopruso, la consapevolezza di sé e del mondo esteriore, mentre Jimmy fino alla fine combatterà contro i suoi demoni.

 

Lungi dall’essere un’opera giovanilistica, Quadrophenia era un richiamo di Townshend alla maturità, un tentativo di indurre i fans( e gli altri componenti del gruppo) a fare i conti con la crescita e il cambiamento degli Who ( forse, avvenuto in maggior misura soltanto in sé stesso), prendendo atto che gli anni ’60 erano finiti nonostante si pretendesse ancora di riesumarli e trascinarli instancabilmente; messaggio, questo, che l’audience di allora certamente non captò, contribuendo ad accorciare le distanze fra le frustrazioni del fittizio mod Jimmy Cooper e quelle del suo creatore Pete Townshend, innanzi a coloro che volevano imprigionarlo nella ragnatela dorata delle glorie del passato, (gli altri tre Who compresi), e che solo l’irrequieto chitarrista pareva volersi lasciar dietro definitivamente.

E Quadrophenia era una sfida: sfida verso i fans, sfida verso il gruppo e sfida verso l’impossibilità di perpetrare all’infinito l’illusione di un’eterna giovinezza. Sarà proprio Townshend, attraverso l’animo tormentato di Jimmy a lanciare la sua provocazione: affrontare la maturità che la vita impone o suicidarsi; e quando la pregiata Vespa Gs, simbolo del modernismo e di una sfrontata giovinezza precipiterà dalla scogliera senza il suo “cavaliere” in parka, sarà chiaro che l’unica decisione possibile e sensata è stata presa. Concepita come la sound-track per un film immaginario (senza la minima idea della sua realizzazione postuma), sia in studio che live, l’effetto sonoro doveva essere parimenti “quadrofenico”, anzi, “quadrofonico” a voler essere precisi.

Nel suggestivo brano d’apertura “I am the sea”, che introduce e riassume in un lisergico riverbero bagnato dal mare i temi salienti della storia, le onde sembrano avvolgere e risucchiare l’ascoltatore (effetto ottenuto durante i concerti posizionando casse tutto intorno l’area), preparandolo al manifestarsi della quadrofenia del protagonista; avvisaglie percepite freneticamente e rabbiosamente attraverso potenti arrangiamenti e vocals graffianti nel seguente “The real me”. Jimmy si perde nel suo progressivo estraniamento, sentendo l’alienazione crescere e non ottenendo da nessuno risposte soddisfacenti, né dallo psichiatra, né dalla madre, né dal prete. E a seguito di una lite domestica sfociata dopo un morbido interludio di pianoforte e chitarra acustica ( “Cut my hair”), precipitando ancora di più nell’instabilità emotiva, si domanda se il Modernismo non possa essere la giusta soluzione ai suoi turbamenti.

”The punk and the godfather”, energetica dichiarazione di rivolta adolescenziale contro la finzione scenica delle rock’n’roll stars: è Jimmy che in cerca di risposte nei suoi idoli mod, si reca al concerto della sua band preferita ( gli Who naturalmente), ma ne rimane deluso dopo un incontro fugace nel backstage. Non c’è nulla dietro al rock’n’roll, le sue stelle sono mere bugie e in fondo, neanche con i suoi simili mods ha molto da dirsi; sono eroi a cui ispirarsi che egli cerca, qualcuno o qualcosa in grado di soddisfare la sua brama di certezze, di questioni insolute. Consapevole della sua superiorità emotiva, l’essere “the face”, il mod perfetto è l’illusione di poter contare qualcosa e di imporsi.

Un apparente serenità ed una sobria malinconia è quella che un ispirato Roger Daltrey accompagnato da accordi lirici di piano e una chitarra quasi poetica, intona, cantando la sconfitta del giovane Jimmy, la bruciante consapevolezza di essere un perdente: ma nonostante tutto, sé stesso è ciò che gli rimane (“I’m one”); è un attimo ed in un crescendo di pathos, l’essere il solo ed imporlo rabbiosamente attraverso uno smagliante e ruvido Keith Moon colma di contrapposizioni emozionali il brano. Come diventare il migliore, il “top of the mods”, se non finanziandosi per la propria immagine? Il protagonista lascia la scuola impiegandosi come spazzino ( nel film,invece, sarà un portabuste d’ufficio), lavoro che lo deprimerà ed esaspererà ulteriormente (“The dirty jobs”, “Helpless dancer”, “Is it my head?”); pessimismo e sconforto che dilagheranno in uno dei passaggi più belli e commoventi dell’album “I had enough”e “Love reign o’er me” alla vista dell’ambita e desiderata Stephanie con il suo migliore amico.

Le travolgenti drums di Moon e l’impeccabile, irrefrenabile sezione ritmica Entwistle-Townshend coadiuveranno un Daltrey invelenito in un’inarrestabile presa di coscienza. Jimmy Cooper ne ha abbastanza di ciò che è stata la sua esistenza (feste, droga, sogni e adolescenza) ma soprattutto, ne ha abbastanza di vivere. La drammatica “I had enough” è una resa dei conti che s’interseca e si completa con la toccante “Love reign o’er me”, che in un disperato grido di chi medita il suicidio si tronca d’imporvviso. Ma alle 5,15 (“ 5,15” ) il quadrofenico mod è pronto nel suo abito migliore, parka, droga e gin, a saltare , sopra accenti in bilico fra soul, funky e schietto rock, sul treno che lo condurrà a Brighton: in uno stato mentale alterato e surreale, ricorda i bei tempi andati, dagli scontri coi rockers che proprie su quelle spiagge avvenivano, all’amicizia con gli altri mods, fino alla sua ex-ragazza.

Ma lì, a Brighton, ora c’è solo lui a far rivivere le immagini e le illusioni del passato che si accavallano nel suo cervello stravolto; l’invidiato e imitato “ace face” re di tutte le feste (nel film, ruolo di Sting) non è che un fattorino di un hotel (“Bell boy”, qui interpretato superbamente da uno sguaiato Keith Moon), le ragazze incontrate solo delle sciocche. Le personalità multi-sfaccettate di Jimmy, ovvero l’essenza stessa della quadrofenia, per un istante si riuniscono in un unico momento di raziocinio (“Is it me for a moment?”) deflagrante nella finale crisi di rabbia che lo spingerà a rubare una barca (nel film si tratta della Vespa di Sting) e scivolare in deliquio verso le cascate; è un attimo e prima di sfracellarsi si aggrappa alle rocce, lasciando precipitare la sola barca.

Jimmy ne esce trasformato sensibilmente; purificato, abbraccia la pioggia che scende, ritrovando finalmente sé stesso e pronto a vivificarsi nell’amore, l’unica cosa che dia veramente un senso alla vita: ed il magnifico tema di “Love reign o’er me” torna a ripetersi, indispensabile reprise che chiarifica il senso dell’opera. Attraverso il dolore, Jimmy ha acquistato un grado maggiore di consapevolezza e maturità ed in questo sta la sua vittoria. Quadrophenia è dunque un racconto universale e poco importa la sua ambientazione;che siano mods del ’65 è rilevante solo ai fini di un concept album ma non nel suo intento e nella sua morale.

La purificazione e la presa di coscienza attraverso le sofferenze, nel ripido cammino vero la luce e la saggezza non necessita di etichette, è un percorso (quasi) obbligato per tutti e Jimmy Cooper ne è il testimone di una parabola musicale, perché in fin dei conti, la sua quadrofenia, è un tratto caratteristico del genere umano.

di Brionia Meriggi





sabato 24 ottobre 2020

Lo sfogo di Corrado Rustici

Che il mondo dello spettacolo sia pieno di “agenti”, manager, prestanome poco affidabili, gatti & volpi di ogni specie non è una novità. Tanti musicisti, per inesperienza o eccesso di fiducia, spesso sono stati “solati”. Ho trovato questo “sfogo” di Corrado Rustici, uno dei più grandi musicisti e produttori italiani (più conoscuto all’estero che in Italia), in cui anche lui parla della sua esperienza con il suo gruppo “Cervello”.

Di tutto un Pop.

Wazza

Oggi chiedo venia e faccio una cosa che non ho mai fatto e che quasi sicuramente non rifarò mai più, ma che - alla luce della recente pubblicazione del Live del Cervello - mi regala l’opportunità di rimuovere antichi sassolini da una delle mie scarpe.

In primis vorrei mettere in chiaro la paternità delle musiche e dei testi di Melos, il primo ed unico album in studio del Cervello.

Le musiche di Melos furono composte da me - con il prezioso contributo di Antonio Spagnolo - e i testi da Gianluigi Di Franco.

Nel 1973 ci venne offerto - e firmammo - un contratto discografico con la Ricordi.

Ci venne anche detto, da chi ci procurò il contratto, che essendo minorenni e non ancora membri della SIAE, dovevamo temporaneamente usare dei “prestanome” per far sì che i brani potessero venire pubblicati.

Da giovani ingenui e sprovveduti accettammo che due persone,  “Gianpietro Marazza” e “Ermanno Parazzini”, - che non abbiamo mai avuto il piacere di conoscere - comparissero “inizialmente” come autori delle musiche e dei testi, fiduciosi che appena legalmente possibile ci saremmo iscritti alla SIAE e che ci sarebbero stati (giustamente) restituiti i nostri diritti autoriali… cosa mai avvenuta!

Sono molto consapevole che il contesto è l’Italia, ma mi sono sempre chiesto come queste due persone si siano sentite in pace con l’idea di ricevere - per 46 anni - i diritti d’autore di brani composti da altri.

Potrei capire un paio d’anni - per ripagarsi dello sforzo di aver messo la loro firma su un paio di fogli… ma 46?

È - per me - un’idea eticamente inconcepibile… e credo che, dopo tanto tempo e 20 ristampe in tutto il mondo, la cosa più giusta e moralmente corretta, sia quella di restituire - agli autori dei brani - i loro giusti e sacrosanti diritti (non parlo dei soldi ricevuti).

Non nutro molte speranze, ma forse San Gennaro, o la Madonnina del Duomo di Milano, illumineranno i cuori e le menti delle persone in questione, ispirandole a contattarmi per rimettere le cose a posto.

Vediamo se la fede che ho nello spirito umano è giustificata, oppure no.

La seconda cosa di cui vorrei parlare riguarda un Bootleg di un live del Cervello - in circolazione su E-Bay e su Youtube.

Nel 1974, Il Cervello fece un concerto a Pomigliano D’arco insieme al “Il Rovescio della Medaglia”.

La nostra esibizione fu registrata - per nostro uso privato e mai intesa come materiale da pubblicare - da un nostro amico/tecnico di sala.

Diversi anni fa, per ingenuità e forse anche ignoranza sui diritti di proprietà intellettuale, questa registrazione venne fatta circolare - da chi aveva accesso alla registrazione - su una cassetta e purtroppo, come spesso accade, questa cassetta finì nelle mani di qualcuno non necessariamente “ancorato” moralmente.

Mi è stato segnalato che nel 2015, un furbetto mise all’asta - illegalmente - parte di questa registrazione, vendendola addirittura per Euro 5,800:

https://www.popsike.com/LP-RARE-ITALIAN.../252207945773.html

A parte l’illegalità di tale azione e la vergognosa avidità di tale furbetto, quello che mi interessa di più è avvertire tutti i fan del Cervello (in Italia e all’estero) che questa registrazione non vanta della nostra approvazione e di - per favore - non continuare a dare sostegno a tale comportamento disonesto e immorale.

Mi fermo qui…

Seppure consapevole della quasi certa inutilità di questo post, in esso rimane ciò che ho detto.

Chi ha orecchie per sentire

(Corrado Rustici)




mercoledì 21 ottobre 2020

ANCIENT VEIL: "Uplugged live", di Valentino Butti


ANCIENT VEIL: Uplugged live

Open Mind-Lizard    2020   ITA

Di Valentino Butti


A due anni da “Rings of earthly… live” eccoci nuovamente a parlare dei genovesi Ancient Veil: sulla scena ormai da oltre 30 anni essendo, i due mastermind del progetto, Alessandro Serri ed Edmondo Romano, anche i fondatori degli Eris Pluvia, il cui album d’esordio, del 1991, “Rings of earthly light” ha fatto breccia nel cuore di molti appassionati italiani e non.

Lasciati gli Eris Pluvia e fondato gli Ancient Veil, i due, con l’aggiunta di Fabio Serri (tastiere, piano e voce) hanno pubblicato tre album in studio, il disco dal vivo già menzionato e, ora, questo “Unplugged live”. “Acustico” che poi completamente non lo è, poiché quattro brani sono in versione elettrica con la band completata da Massimo Palermo al basso, Marco Fuliano alla batteria e dall’ospite Marco Gnecco all’oboe. Le undici tracce sono estrapolate da tre differenti concerti: due al “La Claque” di Genova nel maggio e nel luglio del 2017 (quelli unplugged), l’altro a “La casa di Alex” di Milano nel gennaio 2019.

Particolarmente interessanti sono i tre brani inediti presentati: “Return to the past” (che appartiene al primissimo repertorio degli Eris Pluvia ), suadente e vellutata per chitarra acustica, flauto, piano, sax e voce; “A clouded mind” evocativa nel suo breve e lento dipanarsi con il clarinetto in evidenza e “You’ll become rain part two” presentata in una versione diversa (rock diciamo) rispetto a quella, per quartetto d’archi, presente nell’album d’esordio del gruppo nel 1995.

Ogni pezzo della raccolta ha comunque una propria storia, un proprio pathos, una propria anima e questo grazie alla grande sensibilità che i musicisti mettono in mostra. Una sensibilità che si manifesta mediante la creatività degli arrangiamenti e nella capacità di “toccare” l’anima degli ascoltatori attraverso un vero e proprio dialogo, quasi fisico, con i rispettivi strumenti, carezzandoli, sfiorandoli e conducendoci, infine, per mano, alla scoperta del loro mondo incantato, lasciandoci con non pochi piacevoli brividi. Come non rimanere affascinati dall’esecuzione, seppur parziale, della suite “Rings of earthly light” adattata mirabilmente in chiave acustica con la voce di Fabio Serri a sostituire in “Sell my feelings” (una sezione del brano) quella di Valeria Caucino. Affascina la delicatezza di “Chime of the times” condotta dalla voce soffice di Alessandro Serri accompagnato dal parco strumenti di Edmondo Romano (sax soprano, clarinetti, flauti, low whistle… noccioline e caramelle…) e con una delicata ritmica che fa capolino sul finale. Molto convincente (ed in versione elettrica) “Feast of the puppets”, quasi una danza rinascimentale di gran gusto e la sempre splendida “Creature of the lake” fiore all’occhiello della band e perfetto esempio di romanticismo musicale non zuccheroso. L’album è poi chiuso dal binomio “You’ll become rain” e “You’ll become rain pt.2” perfetto epilogo di quaranta minuti di altissimo profilo in cui le due anime (ma anche più…) degli Ancient Veil emergono in tutto il loro splendore.


Tracklist 

01 Rings of earthly light (suite) 

Earthcore

Portrait

Sell my feelings

02 Only when they’re broken 

03 The way home 

04 Chimes of the times

05 A clouded mind 

06 Feast of the puppets 

07 New 

08 Return to the past

09 Creatures of the lake

10 You’ll become rain

11 You’ll become rain part two

 

 

 

 


martedì 20 ottobre 2020

Ci ha lasciato Gordon Haskell

Un altro addio per il mondo prog e musicale se ne è andato; si tratta di Gordon Haskell, per un breve periodo anche cantante dei King Crimson.

 RIP

Wazza


Gordon Haskell, ex cantante e bassista nei King Crimson, è morto a 74 anni. La notizia è stata data attraverso la sua pagina Facebook, senza nessuna indicazione sui motivi della sua scomparsa: "È con grande tristezza che annunciamo la morte di Gordon, un grande musicista e una magnifica persona che mancherà a tanti", si legge nel post.

Haskell aveva conosciuto Robert Fripp tra i banchi di scuola ed era al suo fianco anche nella precedente formazione dei League of Gentlemen. Crimson lo chiamò una prima volta per cantare Cadence and Cascade nel secondo album dei King Crimson In the Wake of Poseidon, e poi quando il cantante ufficiale della band Greg Lake lasciò la formazione per formare gli Emerson, Lake and Palmer.

Nella sua nuova partecipazione a tempo pieno nei Crimson, Haskell cantò e suonò il basso solo nell'album successivo, Lizard, pubblicato alla fine del 1970.

Terminata la sua breve avventura, iniziò una battaglia legale con la band durata venti anni a proposito del pagamento dei diritti d'autore.

In un post sulla loro pagina ufficiale Facebook, i King Crimson hanno commentato così la sua scomparsa: "Il tempo trascorso nei King Crimson non è stata una parte particolarmente felice della sua carriera, eppure il suo lavoro per In The Wake of Poseidon, e in particolare per Lizard sono tra le cose più ammirate dalla comunità dei fan dei Crimson".

Dopo l'uscita dai King Crimson, Haskell ha registrato 13 album solisti, l'ultimo dei quali, The Cat Who's Got the Cream è uscito a gennaio di quest'anno.

Tra I suoi maggiori successi il brano How Wonderful You Are, tra i primi brani della classifica inglese per molte settimane nel 2001.


sabato 17 ottobre 2020

Demetrio Stratos: un ricordo

«Fra me e Demetrio Stratos c'era un bene fraterno. Demetrio era un uomo caldo, estremamente sensuale, le donne impazzivano per lui ma anche per i maschi era una figura possente, quasi un archetipo di virilità. Artisticamente era un gigante, un vero maestro, con un atteggiamento mentale e un'apertura unici. Demetrio è sicuramente il simbolo dei miei anni passati alla Cramps».

Eugenio Finardi


Ogni giorno è buono per ricordare Demetrio Stratos.

Wazza

Una strada per Demetrio Stratos a Milano. Bello. Giusto. Mi piace. Mi piaceva anche molto lui, super super carismatico, un omone con sta voce da paura. Il mio capo, Fabio Simion faceva le foto per le copertine dei loro dischi con quel genio di art director che era Gianni Sassi. Demetrio, Gianni, gli Area era gente pazzesca, erano proprio rockstar dentro, erano un concentrato di energia esplosiva. Erano come dei matti. Mi ricordo un concerto in Statale di musica sperimentale con pianoforte modificato. Si passavano dei bigliettini con delle parole e poi suonavano il senso profondo di queste parole. Io stampavo in camera oscura. In Corso 22 Marzo la polizia uccideva uno dei nostri schiacciandolo con un camion. C'è una lapide adesso. Aldo Bonasia fotografava il suo cervello sull'asfalto con un celerino che gli faceva la guardia. I fascisti erano inespugnabili in una via stretta senza uscita.

 (Toni Thorimbert)


 


giovedì 15 ottobre 2020

Ayreon – Il lungo viaggio di un menestrello venuto dall’Olanda, di Andrea Romeo


Ayreon – Il lungo viaggio di un menestrello venuto dall’Olanda

Di Andrea Romeo

Articolo già pubblicato su MAT2020 di agosto

Questa è la storia di una curiosa coppia, virtuale, che mescola antico e moderno, realtà e fantasia, storia che si sviluppa a cavallo dei secoli e nata, grazie ad una sorta di osmosi artistica, verso la metà degli anni ’90.

Arjen Anthony Lucassen è un polistrumentista (canta, suona principalmente chitarra classica, acustica ed elettrica, flauto e sintetizzatori) e compositore nato in Olanda, ad Hilversum, il 3 aprile, 1960; Ayreon è invece un menestrello cieco, che ha vissuto la sua vita nell’oscurità sin dalla nascita, e che si dice abbia vissuto nel VI° secolo, in Gran Bretagna, addirittura alla corte di Re Artù.

Probabilmente, proprio a causa della propria cecità, Ayreon ha sviluppato una sorta di sesto senso che gli ha permesso, un giorno, di cogliere un messaggio, spedito da un lontano futuro, da parte di alcuni scienziati…

Lo strano e curioso connubio tra un musicista dei nostri giorni, ed un “musicante” esistito solamente nella fantasia, ben quindici secoli fa, si è concretizzato nel lontano 1995 ed ha prodotto, grazie alla vicenda accennata poco sopra, un primo album che, inizialmente, aveva come titolo proprio: Ayreon: The Final Experiment, e vedeva Lucassen in veste di unico compositore; quasi subito però, la storia ha cambiato improvvisamente il suo corso, ed Ayreon è diventato il vero e proprio nome dell’artista, o della band (vedremo poi in quali termini…), a cui attribuire l’intera paternità del lavoro.

La fusione artistica tra i due soggetti si è trasformata nel nuovo moniker di un progetto che, sin da subito, ha inaugurato uno stile compositivo e narrativo che lo ha accompagnato sino ai giorni nostri, e che si basa su alcune caratteristiche ben precise.

Lucassen nasce come chitarrista metal e milita, durante gli anni ’80, in un paio di band olandesi, i Bodine ed i Vengeance dopodichè, agli inizi degli anni ‘90, realizza un album a proprio nome, Pools of Sorrow, Waves of Joy, in cui suona praticamente tutti gli strumenti, se si eccettuano il basso e le tastiere.

Questa esperienza muta radicalmente il suo approccio con la musica, facendogli prendere in considerazione l’idea di proporsi da lì in poi, non tanto, o non solo, come musicista, quanto invece come compositore, arrangiatore e produttore dei propri lavori cosicchè, già nel primo lavoro nel quale abbozza il progetto Ayreon, pur ritagliandosi uno spazio come musicista fa, tecnicamente, un mezzo passo indietro, affidando l’esecuzione delle parti principali ad un nutrito stuolo di collaboratori.

Contemporaneamente, inizia ad affinare uno stile compositivo che, a cavallo tra prog-metal e metal sinfonico, diventerà una vera e propria forma di narrazione: i brani, che andranno a comporre i suoi lavori, da qui in poi saranno paragonabili a capitoli, ed ogni album si presenterà come un vero e proprio racconto musicato in cui, spesso accompagnati da una voce narrante, i musicisti non solo si dedicheranno ad eseguire le parti vocali e strumentali, ma diverranno veri e propri attori, assumendo il ruolo di personaggi, ed animeranno le fantasiose vicende fuoriuscite dalla creatività di Lucassen.

Nel primo racconto, che si può considerare una sorta di spin-off del Ciclo Arturiano, il menestrello Ayreon riceve come detto un messaggio dal futuro, contenente una minaccia per il genere umano, e deve convincere Merlino della veridicità della previsione.

L’anno successivo, la fertile immaginazione del polistrumentista olandese partorisce Actual Fantasy che questa volta però, non sviluppa una storia con un inizio ed una fine: l’album, infatti, ha come concept la fantasia per cui, le storie narrate nei singoli brani, sono basate su film di fantascienza, fantasy, ed in parte su vicende elaborate da Arjen stesso.

Nei primi due lavori quindi, grazie ai quali il progetto Ayreon ha iniziato a prendere forma, Lucassen ha vestito i panni del coordinatore artistico, confermando la propensione ad affidarsi ad un numero considerevole di musicisti ai quali indicare ruoli assai ben precisi, con una predilezione per il suddividere, tra più artisti, le parti cantate.

Nel 1998 esce il lavoro che farà conoscere, questo progetto, ad un pubblico ancora più vasto, grazie anche ad ospiti “importanti” chiamati ad impersonare i personaggi della vicenda narrata: Into the Electric Castle è un doppio album estremamente lungo (all’incirca un paio d’ore), contenente una trama teatrale decisamente complessa, in piena tradizione sci-fi, ed all’interno del quale, nei ruoli dei protagonisti, agiscono vere e proprie rock star: Fish (ex-Marillion), Sharon Den Adel (Within Temptation), Anneke Van Giersbergen (The Gathering, The Gentle Storm, Vuur), Edward Reekers (Kayak), Damian Wilson (Headspace, Threshold), Robert Westerholt (Within Temptation), Peter Daltrey (Kaleidoscope, Fairfield Parlour), il batterista Ed Warby (Gorefest), che diverrà per lungo tempo partner artistico di Lucassen, ed ancora Clive Nolan (Pendragon, Arena), Thijs Van Leer (Focus), Ton Scherpenzeel (Kayak, Camel)…

Una conseguenza, decisamente inevitabile vista la complessità di questi lavori e la quantità di artisti coinvolti è il fatto che, riprodurre dal vivo questi album risulti un’operazione parecchio complessa, per cui, il poter vedere on stage il progetto Ayreon, diverrà un vero e proprio evento; il primo album live del progetto, tra l’altro, dovrà attendere fino al 2016, per vedere la luce.

Cionondimeno, a due anni di distanza, Lucassen inaugura il nuovo millennio con una ennesima… doppietta, Universal Migrator Part 1: The Dream Sequencer ed Universal Migrator Part 2: Flight of the Migrator, e la pubblicazione di due album separati ha una sua precisa logica, innanzitutto narrativa: la prima parte del concept infatti, descrive la storia dell'ultimo colonizzatore sopravvissuto su Marte e dei suoi viaggi nel passato intrapresi grazie ad una macchina, il Dream Sequencer mentre, nella seconda, la storia prosegue a partire dal momento in cui decide di avventurarsi, tramite la medesima macchina, nel periodo antecedente alla creazione dell'universo: assisterà così al big bang, ed avrà la possibilità di osservare vari fenomeni astronomici quali i quasar, le pulsar, le supernova, i buchi neri ed i wormhole.

Coerentemente con questa scelta c’è anche una logica più strettamente artistica, ovvero quella di appagare entrambe le sue schiere di fan, una prevalentemente metal ed un’altra più prog-oriented.

La seconda parte del concept è infatti caratterizzata da sonorità prevalentemente progressive metal, mentre la prima è dominata da sonorità più morbide e melodiche, con forti richiami ai Pink Floyd.

Nel giro di un lustro quindi, e grazie a questi cinque lavori, il polistrumentista olandese ha affrontato temi letterari e scientifici, ha immaginato o interpretato mondi, ha costruito storie ma, soprattutto, è riuscito a dare loro una forma artistica compiuta, strutturando musica e testi in maniera congrua e coerente; il tutto, però, restando per lo più in disparte, il che ne fa, certamente, una rockstar davvero atipica e del tutto scevra da manie di protagonismo.

Ayreon, a questo punto, si prende una pausa di quattro anni durante i quali Lucassen, insieme alla cantante e violinista messicana Marcela Bovio, mette in cantiere il progetto Stream of Passion, e realizza un altro progetto di ensemble allargato, denominato Star One, in cui coinvolge tra gli altri Sir Russell Allen (Symphony X), Floor Jansen (Nightwish), Dave Brock (Hawkwind) e Jens Johansson (Rainbow); ma il richiamo del menestrello è fortissimo, ed allora ecco profilarsi all’orizzonte il sesto capitolo della saga in cui, però, soprattutto a livello narrativo, cambia davvero parecchio e questo perché, il tema del viaggio, pur essendo presente, si sviluppa attraverso un percorso introspettivo compiuto all'interno della mente del protagonista.

The Human Equation, questo cammino all’interno della mente allinea, e non poteva essere diversamente, narratori e musicisti di primissimo piano, a partire dalle molte voci che la abitano: James LaBrie (Dream Theater), Mikael Åkerfeldt (Opeth), Eric Clayton (Saviour Machine), Heather Findlay (ex-Mostly Autumn), Irene Jansen, Magnus Ekwall (The Quill), Devon Graves (Deadsoul Tribe, Psychotic Waltz), Mike Baker (Shadow Gallery), la sodale Marcela Bovio, Devin Townsend (Strapping Young Lad) ed il già presente Peter Daltrey (ex-Kaleidoscope).

Tra i musicisti, oltre ad alcuni già presenti in diversi tra i lavori precedenti, spiccano questa volta Martin Orford (IQ, Jadis), Ken Hensley (Uriah Heep) ed Oliver Wakeman, oltre all’ormai fedele Ed Warby.

Il fatto che, strumentisti così rilevanti, accettino di partecipare alla costruzione ed alla realizzazione di questi album, tra l’altro tutt’altro che semplici, offre davvero un’idea chiara della stima, e della grande considerazione che Lucassen ha acquisito in dieci anni di carriera, presso i suoi colleghi; il plot di quest’ultimo lavoro, inoltre, è davvero ambizioso, poiché  racconta i venti giorni di coma di un uomo, che lotta tra la vita e la morte, ritrovandosi faccia a faccia con i suoi sentimenti, che gli invadono la mente cercando di sopraffarlo.

Il finale, decisamente sorprendente, ricollega l’album a due lavori precedenti: l'intera esperienza si rivela essere, in realtà, una simulazione creata dal Dream Sequencer (introdotto in Universal Migrator Part 1: The Dream Sequencer), qui chiamato "The Human Equation Program", mentre Forever of the Stars, il misterioso essere che sovrintende all'esperimento, descritto su Into the Electric Castle, ha predisposto questo programma per ricordare le emozioni, riscontrando un evidente successo.

Completamente immedesimatosi in Ayreon, Lucassen ha ormai assunto in maniera piena il ruolo di “cantastorie”, e lo ha fatto sia recuperando e riadattando frammenti di storie già narrate sia soprattutto creando, ex-novo, nuove narrazioni, frutto della propria personale ispirazione.

Ma un cantastorie, ovviamente, si deve occupare sia dei testi che della musica ed ecco che, quasi inevitabilmente, i ruoli di compositore, arrangiatore ed in un certo senso direttore d’orchestra, abbiano prevalso su quello di semplice performer: Lucassen suona, ovviamente, all’interno delle proprie composizioni, ma non occupa mai un ruolo da leader, lasciando agli ospiti il compito di essere i veri e propri front-man.

La vera sfida è, evidentemente, quella di trovare sempre una nuova ispirazione narrativa, supportandola con un corredo musicale coerente ed innovativo, ed è quello che succede nel 2008, con la pubblicazione di 01011001, album che presenta subito alcuni interessanti dettagli: intanto un titolo, oscuro, che in realtà altro non è che l’espressione della lettera Y secondo l’American Standard Code for Information Interchange, e poi l’argomento, ovvero un ritorno alla sci-fi, che recupera, come già successo in altri lavori, parti di racconti precedenti: nel primo disco, Y, vengono narrati gli eventi riguardanti l’omonimo pianeta, mentre il secondo disco, Earth, è invece ambientato sulla Terra.

La vicenda culmina nel brano conclusivo, The Sixth Extinction, in cui i “Forever” ritrovano speranza ed emozioni perdute, si liberano dalla schiavitù delle macchine e ricreano una nuova civiltà con il supporto del progetto Universal Migrator.

È davvero interessante questo continuum che si viene a creare, album dopo album, seguendo una sceneggiatura che non si discosta poi molto da quella di saghe di fantascienza, o di fantasy, ben più celebri; ed è sorprendente la capacità, di Ayreon/Lucassen, di riuscire a legare vicende lontane, temporalmente, territorialmente ed a volte anche dal punto di vista dell’argomento trattato, anche solo agganciandosi ad un dettaglio minimo.

Ma anche la musica, intesa come trama sonora, è sensibilmente cambiata, e questo grazie ai nuovi protagonisti coinvolti: le voci di Steve Lee (Gotthard), Daniel Gildenlöw (Pain of Salvation, Transatlantic), Hansi Kürsch (Blind Guardian, Demons & Wizards), Floor Jansen, Jonas Renkse (Katatonia), Anneke Van Giersbergen, Jørn Lande (Masterplan, Avantasia), Magali Luyten (Nightmare), Bob Catley (Magnum), Simone Simons (Epica) e Ty Tabor (King's X) hanno fatto si che l’album risulti decisamente più aggressivo, più metal e un pochino meno prog, sintetizzando, grazie anche alle “incursioni” strumentali di ospiti come il bassista Tomas Bodin (The Flower Kings), i chitarristi Lori Linstruth e Michael Romeo (Symphony X) ed il tastierista Derek Sherinian (Dream Theater, Black Country Communion, Sons of Apollo).

Il progetto Ayreon ha ormai assunto una dimensione internazionale fuori dal comune, ed è di fatto un unicum nella storia del progressive-metal, non fosse altro che per il numero, a questo punto davvero imponente, di personaggi di primissimo piano coinvolti nel suo sviluppo.

Il suo percorso, che ha seguito una sorta di andamento fluttuante, passando dall’hard-rock venato di prog degli inizi, al prog-metal, per poi assumere connotati più “sinfonici”, ed infine approdare ad un metal più estremo, a questo punto si prende un’altra lunga pausa di ben cinque anni interrotta, nel 2009, dall’uscita del debut album dei Guilt Machine, On This Perfect Day, nel 2010, dalla pubblicazione del secondo lavoro in studio degli Star One, Victims of the Modern Age e nel 2012, anno in cui è uscito il terzo lavoro solista di Lucassen, Lost in the New Real in cui, dopo anni di condivisioni, l’artista olandese è tornato alle origini, ed ha fatto pressochè tutto da solo, ospitando peraltro il leggendario attore olandese Rutger Hauer in veste di narratore.

Nel frattempo, nuove storie da cercare, nuovi protagonisti da creare, perché Ayreon sonnecchia, ma non dorme mai…

Con The Theory of Everything, datato 2013, Ayreon coglie innanzitutto un importante successo commerciale ma, non secondariamente, rivoluziona in maniera sensibile la struttura musicale del progetto.

Intanto la narrazione, con un deciso un ritorno al “personale”, anche se il concept è fantascientifico e decisamente prog.

Un ragazzo prodigio, un piccolo genio, rivela una predisposizione quasi soprannaturale per la matematica e, nel corso della vicenda, deve confrontarsi con le persone che gli stanno attorno, alcune benevole, altre ostili, e che cercano di manipolarlo per migliorarne le capacità rischiando di creare un mostro; il giovane è quindi costretto a scendere nei meandri di sé stesso, conoscersi a fondo per poter trovare, al termine di questo percorso di autocoscienza, l’equazione con cui esprimere la teoria del tutto.

E poi il team, che vede prima di tutto una sostanziale riduzione della sezione vocale, ed un gruppo di strumentisti decisamente orientato verso un progressive più classico e tradizionale: JB (Grand Magus), Sara Squadrani (Ancient Bards), Micheal Mills (Toehider), Cristina Scabbia (Lacuna Coil), Tommy Karevik (Kamelot, Seventh Wonder), Marco Hietala (Nightwish, Tarot), John Wetton (Asia, U.K., ex-King Crimson, ex-Uriah Heep, ex-Family, ex-Roxy Music…), danno voce ai personaggi del racconto, mentre tra i musicisti coinvolti spiccano, e connotano in maniera significativa lo sviluppo musicale dell’album, i tastieristi Rick Wakeman, Keith Emerson e Jordan Rudess, la chitarra di Steve Hackett, ed i fiati di Troy Donockley (Nightwish).

L’inserimento dei fiati, tra l’altro, fa sì che il sound del progetto si arricchisca di molte sfumature decisamente nuove: il risultato finale è certamente in linea con l’imprinting di Ayreon, ma si avvale di un caleidoscopio di sonorità che spaziano dal prog al folk all’elettronica, il tutto racchiuso in soli, si fa per dire, quarantadue brani…

A partire da questo lavoro, l’attività di Lucassen subisce un’improvvisa e significativa accelerazione: nel 2016 viene pubblicato The Theater Equation, primo album live degli Ayreon, registrato a Rotterdam e nel quale è stato eseguito nella sua interezza il sesto album in studio, The Human Equation; nel 2017 vede la luce The Source, l’ultimo album in studio, ad oggi, di fatto il prequel di tutto, l’antefatto di una intera saga, ed i cui avvenimenti sono collocabili, grossomodo, prima di 01011001, facendo di conseguenza riemergere i Forever e mantenendo intatta la tradizione di collegamento tra gli album già sperimentata in precedenza.

Anche in questo caso, come sempre, una nutrita schiera di protagonisti di eccezione: ai molti cantanti già apparsi negli album precedenti, si aggiungono Tobias Sammet (Edguy) e Tommy Rogers (Between the Buried and Me), Paul Gilbert e Guthrie Govan alle chitarre e Mark Kelly (Marillion) alle tastiere, cui viene affidato il compito di raccontare, in parole e musica, le avventure dell’astronave Starblade, e del suo piccolo equipaggio.

Neppure il tempo di metabolizzare la pubblicazione del nuovo album ed ecco, l’anno successivo, il secondo live, Ayreon Universe: Best of Ayreon Live, ovvero la registrazione completa del secondo dei tre concerti sold-out, tenuti nel mese di settembre 2017 nei Paesi Bassi, in cui sono stati coinvolti ben sedici cantanti ed undici musicisti: un “the best of…” sia dal punto di vista dei brani che da quello dei musicisti.

Ma non è ancora finita perché, agli inizi del 2020, e dunque poco prima del “lockdown” che ha chiuso, per qualche mese, buona parte dell’Europa, viene dato alle stampe Electric Castle Live and Other Tales che contiene la registrazione integrale dell'ultimo dei tre concerti speciali, tenutisi al Poppodium di Tilburg, per celebrare il ventennale dall'uscita del terzo album, Into the Electric Castle, eseguito nella sua interezza insieme a gran parte degli artisti originari.

Venticinque anni di attività, dunque, lungo i quali il menestrello Arjen Lucassen ed il suo alter-ego Ayreon hanno messo insieme nove album in studio, tre album dal vivo e due raccolte, quasi tutti lavori doppi che contengono una mole di storie impressionante, soprattutto considerando che sono il risultato del lavoro di un singolo soggetto il quale, oltre a comporla ed arrangiarla, si è incaricato di “assegnarla” ad un altrettanto impressionante stuolo di musicisti, chiamati a raccolta dal fascino e dalla magia che soltanto un cantastorie è in grado di trasmettere.

All’interno di ogni album, brillano la pulizia compositiva e quella esecutiva, e si spazia sempre tra i generi: prog-metal, prog sinfonico, hard rock, epic-metal e folk.

Gli incroci vocali e strumentali dimostrano una perizia ed una capacità certosina di cesellare i suoni, di abbinarli e di arrangiarli, ed i singoli brani denotano sempre l’estrema cura con la quale sono stati disegnati e strutturati.

Difficile, anzi, pressochè impossibile cogliere dei meri riempitivi, dei pezzi “messi là” per chiudere un disco o, semplicemente, per “tappare un buco” creativo: Lucassen può essere anche definito un megalomane, e probabilmente in un certo senso lo è perché, almeno in fase di composizione, orchestrazione ed arrangiamento, non ha mai delegato nulla a nessuno.

Ma è anche vero che ha ampiamente dimostrato di avere una mente fertile, creativa, fantasiosa, e di saper scegliere volta per volta i compagni di strada più adatti ai quali affidare le proprie narrazioni, chiedendo sempre loro di dare il meglio di sé nell’interpretarle; nessuna gelosia dunque, nessun atteggiamento da prima donna, nessun accenno a voler ridurre o limitare la creatività e l’espressività di coloro che, nel tempo, sono stati chiamati ad interpretare un personaggio, dandogli la voce, oppure ad assecondarne gli umori, la personalità, le azioni, attraverso gli strumenti musicali ai quali si è messo mano.

Inoltre, si è dimostrato essere una persona molto attenta a ciò che avviene all’interno del proprio mondo; in un’intervista di qualche anno fa affermava, a proposito dello streaming e della musica cosiddetta “liquida”:

Credo sia fantastico che la musica in questo modo raggiunga più persone.

La cosa triste è che gli artisti abbiano una percentuale insignificante per ogni streaming di un loro brano, il che vuol dire che, un artista, ottiene uno stipendio minimo se il suo brano viene ascoltato dieci milioni di volte. Credo che si debba fare qualcosa in proposito, ma lo streaming è il futuro, e non capisco le case discografiche che si oppongono a strumenti come Spotify.

È qualcosa che non si può arrestare e, d’altronde, io non sono mai stato favorevole a cercare di bloccare la tecnologia.

Detto ciò, la mia musica ha anche un contorno fisico, un bellissimo artwork ad esempio, ed il pubblico sa cosa troverà comprando un mio disco; quindi spero anche che le persone non smettano di godere di tutti questi aspetti.

Per cui, beh, direi che la mia opinione è duplice.

Ayreon è, ancora oggi e dopo una vicenda così lunga, un progetto del tutto “open”, tant’è che il suo mastermind ha recentemente affermato: “Ho qualche notizia per tutti voi. Negli ultimi tre anni ho lavorato a un progetto top secret che, se tutto va bene, uscirà entro quest’anno. Non posso ancora dirvi molto a riguardo ma quel che posso assicurarvi è che è piuttosto diverso da tutto quello che avevo fatto prima”; ciò che è dato sapere, sinora, è che il lavoro sarà, ovviamente, a nome Ayreon, si intitolerà Transitus e, tra gli ospiti, ci saranno Dee Snider, voce dei Twisted Sister, Paul Manzi (Arena), Tommy Karevik (Camelot), Michael Mills (Toehider), Cammie Gilbert (Oceans of Slumber) ed Amanda Somerville (Trillium, Avantasia), Simone Simons (Epica), Dianne van Giersbergen (Ex Libris), Johanne James (Threeshold, Kyrbgrinder), ed il chitarrista Joe Satriani.

L’attore Tom Baker (il Quarto Dottore della serie tv Doctor Who) impersonerà, invece, la voce narrante.

Le curiosità, intorno a questo lavoro, sono già parecchie e riguardano la sua struttura musicale, la fusione, se ci sarà, tra gli strumenti tradizionali della musica rock (chitarra, basso, batteria, sintetizzatori, organo) e gli strumenti folk e classici (mandolini, violini, viole, violoncelli, flauti, sitar e didgeridoo) ma, soprattutto, il concept alla base dell’album.

Che cosa avrà immaginato, e messo su un pentagramma, questa volta, il prolifico menestrello olandese?

Quali storie, e di quali epoche, siano esse reali o fantastiche, avrà estratto dal cilindro?

Quello che è certo è il fatto che, la mente di Arjen Lucassen, sia in perenne attività, ed è davvero stupefacente pensare che, questo lavoro, lo abbia tenuto occupato lungo un triennio all’interno del quale ha dovuto anche seguire la pubblicazione di due album dal vivo e di uno in studio.

In molti potrebbero considerare forse esagerata questa iperattività e, da un certo punto di vista, le ragioni non mancano di certo; rimane il fatto che, il prodotto finale di questo intenso lavorio, mantiene sempre un livello qualitativo elevatissimo e che, tutto sommato, poco più di una ventina di album, in oltre venticinque anni, ed altrettante collaborazioni con altri artisti, pur essendo indubbiamente molti, se la giocano con altri artisti che, anche in lassi di tempo inferiori, hanno prodotto parecchio materiale in più, pubblicando magari infinite serie di album live o di raccolte.

Quello che è certo è che non parliamo affatto di musica “easy listening”, di motivetti orecchiabili o da fischiettare e questo perché, gli album degli Ayreon, vanno ascoltati e riascoltati con attenzione, possibilmente nella loro interezza, richiedono tempo ed un certo impegno, per poterne cogliere i dettagli e le sfumature, e per gustare al meglio la narrazione, la caratterizzazione dei personaggi, i dettagli musicali ed esecutivi.

Non facile, soprattutto di questi tempi, ma assolutamente necessario, se non altro per poter esprimere una valutazione che possa avere delle basi solide e delle argomentazioni approfondite, che vadano al di là del semplice gusto personale.

Perché, al netto della dicotomia, legittima, “mi piace… non mi piace”, vanno riconosciute a questo musicista una professionalità, un impegno, una integrità artistica, una creatività ed una inventiva fuori dal comune, connesse alla capacità di creare, ex novo, mondi fantastici, sulla scia di quanto avevano già fatto, decenni prima di lui, gruppi entrati nella storia come i Gong, grazie al loro visionario Planet Gong, ed i francesi Magma, con la narrazione del pianeta Kobaïa attraverso la sua lingua autoctona.

Anche il progetto Ayreon, a questo punto, e dopo un percorso artistico di oltre venticinque anni, in punta di piedi ma con una determinazione davvero ferrea, si è creato un proprio spazio, riconoscibile e riconosciuto, all’interno della storia del rock, e più specificatamente del progressive rock.