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venerdì 26 luglio 2024

MAGIA NERA-“VLAD” - Commento di Andrea Pintelli


MAGIA NERA-“VLAD”

Di Andrea Pintelli


I Magia Nera, band spezzina attiva fin dagli anni ’60, confezionano il loro nuovo lavoro dal titolo emblematico “Vlad”. Opera interamente dedicata alla figura del tanto mitizzato nobile della Valacchia, la cui storia viene rivisitata nel libro rilasciato nel 2022 dal loro chitarrista e cantante Bruno Cencetti, tale “L’innocenza di Dracula: Apologia di un Vampiro”, le cui note introduttive ci corrono in aiuto per capirne la genesi: “Valacchia, Monti Carpazi, anno 1431. Una madre impaurita si nasconde nel castello di proprietà della famiglia, semidistrutto dall'assalto degli Ottomani. Dopo aver partorito il figlio del conte Vlad tra infiniti tormenti e privazioni, si accorge con terrore di non avere latte. In un ultimo disperato tentativo di far sopravvivere il figlio, sostenuta dal suo amore di madre, si punge un capezzolo con una lama e nutre il figlio con il suo sangue. Ma la tara che egli subisce lo costringe a una vita in cerca di una femmina da amare allo stesso modo, ossia bevendo il suo sangue. Nel momento in cui lo scorrere del sangue della sua vittima gli restituisce quell'amore infinito, lui la uccide e la storia ricomincia. Dio lo ha condannato, ma quanto di tutto questo è colpa di Vlad? Dio non interviene nelle vicende umane, ci lascia artefici del nostro destino e Vlad è artefice del suo.” Ora, sappiamo tutti che il personaggio storico realmente esistito, detto “l’Impalatore”, va tenuta separata dalla geniale inventiva vampiresca dettata da Bram Stoker, nel suo romanzo “Dracula” risalente alla fine dell’Ottocento. Giusto per rinverdire le menti: “Vlad III di Valacchia Hagyak (Sighișoara, 2 novembre 1431 – Bucarest, dicembre 1476/10 gennaio 1477) è stato un nobile, militare e politico rumeno, meglio conosciuto solo come Vlad, o con il suo nome patronimico, Drăculea (che significa figlio del drago) italianizzato in Dràcula, voivoda (principe) di Valacchia e membro della Casa dei Drăculești, un ramo collaterale della Casa di Basarab. Era figlio del precedente voivoda Vlad II Dracul, membro dell'Ordine del Drago, fondato per proteggere il cristianesimo nell'Europa orientale. Noto anche come Vlad Țepeș (in rumeno: Vlad l'Impalatore), fu per tre volte voivoda di Valacchia, rispettivamente nel 1448, dal 1456 al 1462, e infine nel 1476. Il soprannome l'Impalatore deriva dalla sua predilezione per l'impalamento dei nemici. Durante la sua vita, la sua reputazione di uomo crudele e sanguinario si diffuse in tutta Europa e, principalmente, nel Sacro Romano Impero. Vlad III è venerato come eroe popolare in Romania, così come in altre parti d'Europa, per aver protetto la popolazione rumena sia a sud sia a nord del Danubio e per la sua brutalità e il suo patronimico.”

Cencetti va oltre tutto ciò, come anzidetto, ma la domanda sorge spontanea: Vlad / Dracula, essendo stato usato e abusato nel corso degli anni tramite libri, dischi, e, soprattutto, decine e decine di film (spesso inutili), aveva bisogno di un altro scritto, coadiuvato dalla propria colonna sonora? La risposta è sì, visto che il libro fantastica sulle origini del Conte e ne fornisce una nuova immagine. Questa è la novità. I testi, racchiusi nelle canzoni del disco, prodotto e pubblicato dalla Black Widow Records (gloria sempre), sono poetici e ariosi, ottimamente incastonati in sonorità che delineano l’impeto e la follia degenerativa che avvolgeranno per sempre la vita di Țepeș. La Protogenesi (Recitativo) apre il sipario su questa nuova storia, e lo fa nella maniera più fosca e oscura possibile. Arpeggi di chitarra acustica a creare l’ambientazione, mentre la voce descrive in modo sentito l’inizio del tutto; Cencetti, con fare da attore, offre questo (appunto) recitativo e lo porta a un livello drammatico che potrà piacere, senz’altro, ai tanti fans del Conte. Si prosegue con Vlad il Condottiero, dove la forma canzone prende ora il sopravvento. Il leader si cala nella parte in maniera assolutamente notevole, con tutta la band a seguirlo con buoni risultati d’insieme. Ali nel Buio ha impostazione hard blues, con echi di Sabbathiana memoria; rocciosa e godibile, mette in primo piano, ancora una volta, la teatralità della narrazione. Buoni e ben bilanciati i suoni della strumentazione impiegata. Dolce Sentire ha matrice heavy, finalmente e in pieno stile Magia Nera; canzone dove le tastiere sono ora libere di esprimersi in tutto il loro ardore, facendolo in caloroso stile seventies, lasciando poi spazio a un gradevole assolo chitarristico. Amore di Una Notte continua in tal senso, quasi fosse una canzone sorella della precedente, anche se distinte nel risultato. In soldoni è pane per denti ben abituati alla più classica cavalcata heavy prog. Freddo Sacello, il cui inizio è O Fortuna (primo movimento di Fortuna Imperatrix Mundi), tratto da “Carmina Burana” di Carl Orff, sfocia in una traccia dai sentori folk, che nuovamente trasformano il disco in qualcosa di diverso dal solito. Nella successiva Frassino nel Cuore nulla si attenua, la recitazione è sempre più marcata e ricca di energia interiore, mentre le sonorità si dipanano fra rimarcati accenti hard e momenti medievaleggianti. Atto Finale, a mio avviso la migliore del lotto (anche se l’album è da valutarsi per interezza), racchiude tutto quanto fin qui affrontato dai Magia Nera, ossia il loro mondo. Avevo già commentato, tempo fa, il loro “Montecristo”, ma qui siamo oltre quel livello. Evoluzione e significative idee mettono le ali alla loro musica. Compratelo: non ve ne pentirete. 

 

Track list (cliccare per l'ascolto)

1)    La Protogenesi (Recitativo)

2)    Vlad il Condottiero

3)    Ali nel Buio

4)    Dolce Sentire

5)    Amore di Una Notte

6)    Freddo Sacello

7)    Frassino nel Cuore

8)    Atto Finale

 

Line Up:

Bruno Cencetti: chitarre e voce

Alfredo Peghini: basso

Alvaro Lazzini: batteria

Luca Tommasi: tastiere

 




 

martedì 23 luglio 2024

Entity – “Il naufragio della speranza”-Commento di Alberto Sgarlato

 


Entity – “Il naufragio della speranza” (2024) 

M.P. & Records

di Alberto Sgarlato


Mauro Mulas è un tastierista che ha studiato elettronica e composizione presso il Conservatorio di Cagliari e che, nella sua carriera di musicista, vanta collaborazioni con diversi grandi del jazz (citiamo qui per brevità solo i nomi più noti: Dave Liebman, Paolo Fresu, Steve Lacy, Frank Gambale) e artisti di rilievo della musica italiana (anche qui in svariati ambiti, da Antonella Ruggiero a Tony Esposito).

Parallelamente a tutto ciò, però, ha “spalmato” nell’arco di tre decadi la scrittura dei brani dedicati al suo progetto denominato Entity. La composizione, infatti, è avvenuta tra il 1994 e il 1997, mentre il primo capitolo della saga ha visto la luce ormai oltre 10 anni fa, nel 2013.

Entity è un viaggio nella mente umana con particolare attenzione ai suoi risvolti più irrazionali, dall’attività onirica fino ai labirinti della follia.

Il concept si snoda, appunto, in due album: il primo, del 2013, intitolato “Il falso centro”, mentre in questo 2024 esce il seguito, “Il naufragio della speranza”, il cui titolo è ispirato a un dipinto di Caspar David Friedrich (noto anche come “Il mare di ghiaccio”).

Si comincia con i 9 minuti di “Derealizzazione”, il brusio della gente, già di per sé evocativo di un senso di malessere, confusione, disorientamento, viene presto sommerso da un suggestivo riff chitarristico su tempo dispari. Appena entrano i pad delle tastiere e gli arpeggi di organo la prima suggestione è quella di un’atmosfera profondamente debitrice della lezione genesisiana. Ma è incredibile come, nel giro di un paio di minuti, il brano cambi aspetto almeno tre volte, passando da una serie di “duelli” tra chitarra e organo degni degli Yes, fino a momenti più languidi, con chitarre dalle note lunghe e tappeti di Hammond e String-machines che richiamano invece ai Camel e, più in senso lato, alla scuola di Canterbury.

Ma è al pianoforte che Mulas rivela tutta la sua maestria di provenienza chiaramente jazzistica (come del resto anche il suo curriculum rivela).

Il tema iniziale viene ripreso al quinto minuto, riportando l’ascoltatore a quella percezione di disagio primordiale, ulteriormente alimentata dalle note acide di un Moog. E in questa traccia è già chiaro tutto il messaggio del disco: in queste situazioni così altalenanti, tra momenti molto soft e molto cupi, ci siamo noi, tutti noi, con le nostre paure, le nostre ansie, il perenne malessere esistenziale che attanaglia la nostra epoca.

Il cantato entra solo dopo il sesto minuto e i versi sottolineano tutto quanto appena detto: un testo fatto di paura e di isolamento, eppure cantato con la soavità di chi sembra non temere il proprio destino e di saper giungere a patti con esso. Splendida, sia detto, l’interpretazione vocale di Sergio Calafiura, intensa, teatrale, personale, mai debitrice di modelli preesistenti.

Inettitudine” inizia affidata alle note del piano, presto sorretta da avvolgenti tappeti orchestrali. La voce, presente sia nei momenti più rock, sia in quelli più intimisti, è usata come uno strumento. L’esuberanza dell’Hammond e dei sintetizzatori richiamano a tratti, seppur in modo remoto, il ricordo di Emerson, anche se il brano nella sua interezza potrebbe evocare certe atmosfere del Banco del Mutuo Soccorso nella sua commistione tra classica e jazz.

Dopo queste due tracce, che insieme ci portano già a oltre 18 minuti di musica complessivi, iniziano vari momenti di svariate lunghezze, alcuni più articolati, altri più brevi e compatti. L’indiscussa maestra chitarristica di Marcello Mulas, qui alle prese con una toccante introduzione acustica, ci porta per mano dentro le dolci atmosfere di “Cristallo”, dove Calafiura sfoggia un falsetto dolcissimo, ineccepibile, perfettamente centrato nella sua esecuzione.

Siamo di fronte a un grande esempio di prog-ballad, che dopo il quinto minuto cresce, verso il finale, in un continuo aumentare di intensità. Marcello Mulas passa con disinvoltura dall’acustica all’elettrica regalando sempre prestazioni eccellenti.

Osservatorio” si apre con atmosfere gelide, che richiamano realmente alla mente quel quadro di Friedrich omaggiato nel titolo dell’album. Qui l’autore dei brani si cimenta anche alle percussioni, creando con il validissimo batterista Marco Panzino un solido e ipnotico tessuto ritmico, perfetta introduzione per una “cavalcata” di hard-prog ben giocata tra chitarra ed Hammond. Se amate band come Uriah Heep, Atomic Rooster e Kansas qui troverete pane per i vostri denti. 

Dal terzo minuto e mezzo entra il cantato, mentre il basso di Gianluigi Longu richiama, in un raffinatissimo lavoro di arrangiamento, i temi già enunciati da tastiere e chitarre nell’introduzione. Un brano intenso, suggestivo, che si lancia in un finale parossistico prima di ritornare, secondo uno schema circolare, a una chiosa di batteria e percussioni (e quell’immancabile vociare che simboleggia l’inquietudine della società che ci circonda).

Nel brano “Fuori dalla realtà” a Mauro Mulas basta meno di un minuto e mezzo per dimostrare, in assoluta solitudine, tutta la sua maestria pianistica.

I due brani intitolati “Risveglio”, il primo con il sottotitolo di "Tango" e il secondo di "Fuga", vanno a formare un’unica mini-suite in un vero tripudio di stili nei quali jazz, classica, world-music e prog-rock si sposano con una continuità e un’eleganza ineffabili.

Un volto senza nome” è una reprise in cui il cantato di Calafiura, accompagnato dal solo pianoforte, ci racconta tutto il suo disagio e smarrimento, tornando sul tema melodico che era dell’iniziale “Derealizzazione”.

Dopo una breve parentesi così intimista parte invece una delle tracce più hard-prog dell’intero disco, ed è “Enigma”: momenti marziali, affidati a riff e tappeti di Mellotron, si alternano ad altri più barocchi, nei quali chitarre e Moog danno sfogo alle loro capacità. All’ingresso del cantato, a metà brano, l’ottimo lavoro di supporto ritmico di Longu e Panzino è roccioso, pulsante, mentre Calafiura ci regala vette vocali in una delle sue interpretazioni più struggenti.

E sarà domani”: con questo titolo Entity si congeda. L’esecuzione pianistica è deliziosamente in equilibrio tra musica contemporanea e jazz, con orchestrazioni da colonna sonora. Il brano, per sole tastiere, lascia presagire un barlume per un domani di speranza in un mondo difficile.

 




lunedì 22 luglio 2024

PORRETTA PROG LEGACY 2024: commento di Evandro Piantelli

 


PORRETTA PROG LEGACY 2024

12 – 14 LUGLIO

Di Evandro Piantelli

 

Nell’Appennino Tosco-Emiliano c’è una cittadina, Porretta Terme (facente parte del Comune di Alto Reno Terme in provincia di Bologna) che, storicamente, è sede di uno dei più famosi festival di musica soul in Italia (si tratta del Porretta Soul Festival, che quest’anno festeggia i 30 anni). Tuttavia, da qualche anno nella stessa località un gruppo di appassionati sta cercando di portare avanti un festival prog di buon livello che, nel 2024, è diventato il Porretta Prog Legacy. E adesso vi racconto come è andata.

Il festival nasce dagli sforzi di un’associazione bolognese, l’Alchemica, che nel capoluogo emiliano gestisce una scuola di musica (con sala prove e studio di registrazione) e un club che propone molti eventi musicali, anche di livello internazionale, con la la collaborazione del Comune di Alto Reno Terme ed altri soggetti pubblici e privati. Il Rufus Thomas Park, situato nel centro di Porretta, è un bel anfiteatro con un’ottima acustica ed è stato la sede delle tre serate di musica dove, dalle 19.30 fino alla mezzanotte, sono salite sul palco un totale di dodici band di progressive rock o comunque parenti di questo genere.

Venerdì hanno aperto il Festival i LINING REDOX, gruppo proveniente da Padova che propone un prog-metal gradevole. La formazione è composta da due chitarre, basso (a sei corde), batteria, tastiere e voce e nel corso della performance ha presentato il nuovo singolo appena pubblicato “The point of no return”. Il cantante Matteo Mancini ha dato una prova convincente, anche se devo dire che si trova decisamente meglio sulle tonalità alte. Numerosi cambi di tempo e brani di largo respiro con begli assoli di chitarra. Direi che questa giovane band (che ha in preparazione un album che uscirà nel 2025) ha rappresentato un buon inizio per il Festival. 

Subito dopo sono saliti sul palco i genovesi IL SEGNO DEL COMANDO. La band, capitanata dal bassista Diego Banchero, ha proposto alcuni brani dal disco “Il domenicano bianco” (2023) ed alcuni classici, tra i quali La taverna dell’angelo, con il quale ha chiuso la propria esibizione. Dietro la batteria del “Segno” per la prima volta si esibiva dal vivo il nuovo membro della formazione Paolo Serboli, che ha dato un’ottima prova di sé, alternando forza e delicatezza, quando necessario. Ottima prova anche per il cantante Riccardo Morello, a suo agio in tutte le situazioni, ma, in generale, per tutti i membri della band che, a mio avviso, propone un genere unico dove metal e progressive si mescolano armoniosamente (e tiene alta la bandiera della Liguria). 

Anche la band successiva proveniva da Genova, LA MASCHERA DI CERA. Questo gruppo storico del prog genovese ha subito negli anni numerosi cambiamenti di formazione fino ad arrivare all’attuale: Martin Grice (flauto e sax), Matteo Nahum (tastiere), Alessandro Corvaglia (voce e chitarra), Andrea Orlando (batteria) e Fabio Zuffanti (basso e voce). La band ha aperto in concerto con uno dei suoi cavalli di battaglia, Fino all’aurora, proseguendo con pezzi tratti da “Le porte del domani” (disco del dove la band ha voluto creare una continuazione ideale del capolavoro delle Orme “Felona e Sorona”) e dall’ultimo album in studio pubblicato, cioè “S.E.I.” (2022). Performance molto convincente dove la Maschera ha dimostrato bravura tecnica e grande affiatamento. Una menzione particolare per Martin Grice, che con i suoi fiati ha saputo dare ulteriore carattere ed armoniosità al suono del quintetto.

La prima serata è stata conclusa dal BALLETTO DI BRONZO, una band nata nel 1969 che ha visto nel 1971 l’ingresso del virtuoso tastierista e cantante Gianni Leone che oggi, unico membro storico della band, porta avanti il nome e, soprattutto, la musica del Balletto. Con lui sul palco ci sono due validissimi musicisti che forniscono il dovuto apporto ritmico e cioè il granitico Ivano Salvatori (basso) ed il funambolico Riccardo Spilli (batteria). Nella prima parte del concerto è stato eseguito “Lemures”, primo disco di inediti della band da oltre cinquant’anni, pubblicato nel 2023 ed accolto molto bene dalla critica e dal pubblico. Brani complessi e articolati, dove Leone oltre ad essere il grande tastierista che conosciamo, si dimostra anche ottimo cantante. È seguita poi l’esecuzione integrale di “Ys” disco storico del Balletto pubblicato nel 1972, in una versione più hard ed elettrica che lo ha reso più attuale. Un altro paio di brani e il trio ha concluso il suo concerto tra gli applausi entusiastici di un pubblico accorso da diverse parti d’Italia. Che dire, Gianni Leone è un personaggio unico: provocante, eccessivo, ma un grande musicista.

La seconda giornata del Festival è stata aperta dai MERGING BEATS, un gruppo milanese formato da giovanissimi musicisti che ci ha proposto un rock fortemente influenzato dal funk, con testi sia in inglese che in italiano. La band è composta da un chitarrista, un batterista, un cantante (Andrea Caggiula, notevoli le sue doti vocali) ed una bassista/cantante ha eseguito il suo set con grande entusiasmo ed energia proponendo pezzi tratti dai due EP pubblicati (solo su Spotify) “Non avere paura” ed “Easy play”. 

Si prosegue con i SINTESI DEL VIAGGIO DI ES, una band che fonda le propie radici addirittura nei tardi anni ‘80/90 del secolo scorso, in quanto tre dei suoi membri facevano parte dei SITHONIA, un gruppo che ci ha regalato ottime prove quali “Lungo il sentiero di pietra” (1989) e “Spettacolo annullato” (1992). La band ha al suo attivo “Il sole alle spalle” (2017) e Gli alberi di Stavropol (2022), ma sta già lavorando alla preparazione di un nuovo album che uscirà nel 2025. Brani piuttosto dilatati nella migliore tradizione prog con in evidenza la voce del cantante Marco Giovannini ed il flauto di Eleonora Montenegro.


LA CRUNA DEL LAGO è stato il gruppo seguente ed ha eseguito principalmente pezzi tratti da quello che, finora, è l’unico lavoro pubblicato, cioè “Schiere di sudditi” del 2022. La musica di questa band toscana si caratterizza per un suono robusto, classico e moderno allo stesso tempo, che si regge su due chitarre, basso, batteria e tastiere. I testi, cantati in italiano, sono di grande attualità e sono incentrati sulla condizione dell’uomo moderno, oppresso dal potere che lo ha ridotto, appunto, ad un mero suddito. Il gruppo (due chitarre, basso, batteria e tastiere) ha eseguito anche una struggente versione di una delle più belle canzoni di Franco Battiato, “Il re del mondo”. Era la terza volta che vedevo questa band e devo dire che è sempre in grado di emozionarmi.

La conclusione della serata è stata affidata ad un gruppo che ha fatto la storia del prog italiano, cioè il BANCO DEL MUTUO SOCCORSO. Sappiamo che della formazione originaria, dopo la scomparsa di Francesco di Giacomo e Rodolfo Maltese è rimasto solo il grande tastierista, cantante e compositore Vittorio Nocenzi che però, fra mille vicissitudini, è riuscito a mettere insieme un gruppo di musicisti di grande valore che formano la lineup attuale del “Banco”. Si tratta di Filippo Marcheggiani (chitarre), Tony D’Alessio (voce), Marco Capozi (basso) e i due acquisti più recenti, cioè Michelangelo Nocenzi (tastiere) e Dario Esposito (batteria). Prima del concerto ho potuto scambiare qualche battuta con tutti i componenti della band. Con Vittorio Nocenzi abbiamo parlato dell’ultimo lavoro (Orlando – Le forme dell’amore del 2022), che lui ha composto col figlio Michelangelo e del quale è particolarmente orgoglioso, mentre gli altri musicisti mi hanno confermato che il nuovo album è già in fase di lavorazione. Il nuovo batterista (che è stato allievo di Pier Luigi Calderoni) mi ha raccontato delle sue precedenti esperienze musicali, che spaziano veramente a 360 gradi. Ma veniamo al concerto del Banco. La band ha suonato per due ore proponendo brani provenienti da tutti i periodi della sua lunga carriera, ogni volta con una breve presentazione da parte di Vittorio. Ecco la scaletta: Metamorfosi, Il ragno, Lontano da, Eterna Transiberiana, Cento mani e cento occhi, Il giardino del mago, R.I.P., Non mi spaventa più l’amore, Canto di primavera, Paolo Pa, Moby Dick, Traccia e l’immancabile Non mi rompete, che ha concluso un concerto stupendo.

Domenica, ultima serata del Festival. Salgono sul palco gli EVELYN ROGER, un gruppo di giovanissimi di Roma che propongono un buon hard/prog con testi in italiano ed una buona presenza scenica. La musica del gruppo è interessante (forse solo un po’acerba) e contiene numerosi cambi di tempo e begli assoli di chitarra. I testi sono a mio parere il punto di forza del gruppo perché trattano temi di estrema attualità (malattia, femminicidio, alcolismo) in modo non superficiale, con un risultato veramente interessante. La band (due chitarre, basso e batteria) ha pubblicato finora un EP su Spotify ed è sicuramente da tenere d’occhio.



I METHODICA sono invece la classica band metal (chitarra, basso, batteria, voce) che propone pezzi piuttosto tirati, cantati in inglese e con l’utilizzo di basi che sostituiscono i tappeti di tastiere. Il gruppo, attivo da una quindicina di anni è composto da Marco Piccoli (batteria), Alessandro Lanza (basso), Mirco Ciscato (chitarre) e Masimo Piubelli (voce) ed ha finora pubblicato quattro album (tra i quali “Hypocricity” del 2024) e numerosi EP. 



Gli INNER VITRIOL possono essere definiti il “gruppo di casa”, considerato che alcuni membri della formazione fanno parte dell’Alchemica, cioè gli organizzatori del Festival. La band dichiara di suonare una musica “dark prog metal” dove si incontrano rock melodico, hard, funk con qualche sprizzata di prog, con un risultato piuttosto interessante. Inoltre, il gruppo ha una bella presenza scenica con una completa padronanza del palco che ha coinvolto tutti i presenti, soprattutto i più giovani. Gabriele Gozzi (voce), Michele Di Lauro (chitarre), Francesco Lombardo (basso) e Michele Panepinto (batteria) hanno pubblicato finora “Into the silence I sink” (2023) e “Live in Moscow” (anche DVD).  




La conclusione del festival è stata affidata ad una band straniera di altissimo livello e cioè i polacchi RIVERSIDE. Il gruppo si è formato nel 2001 proponendo un genere dove metal e prog si sposano perfettamente, raggiungendo nel giro di pochi anni la fama mondiale. L’attuale formazione della band comprende Mariusz Duda (voce e basso), Michal Lapaj (tastiere), Piotr Kozieradzki (batteria) e Maciej Meller (il più recente acquisto della band, entrato dopo la scomparsa del chitarrista storico della band, Piotr Grudzinski, avvenuta nel 2016). Il gruppo polacco ha alternato brani provenienti dalla produzione storica con altri contenuti nell’ultimo lavoro “IDEntity” del 2023, accolto dalla critica come uno dei lavori più riusciti della band. Musicisti veramente in gamba che sul palco non si sono risparmiati ed hanno concluso il festival con una lunga versione di Conceiving you, uno dei pezzi più amati dai fans.



Tirando le somme del Porretta Prog Legacy 2024 possiamo tracciare un bilancio decisamente positivo: una bella location, un ottimo auditorium che ha permesso a tutti gli spettatori di ascoltare e vedere in modo ottimale, una bella proposta musicale che ha soddisfatto i fan della vecchia guardia e gli spettatori più giovani (numerosissimi, una volta tanto). Tutto perfetto? Quasi. L’unico cosa che non mi è piaciuta è stata la mancanza di un presentatore. Ma questo è un unico piccolo neo in un festival altrimenti riuscitissimo. Attendiamo con ansia l’edizione 2025!

 

domenica 21 luglio 2024

Northern Lines-“I Think We’re Fine”: commento di Luca Paoli



 Northern Lines-“I Think We’re Fine”
di Luca Paoli

Ci vuole coraggio oggi a pubblicare un disco di rock strumentale ma anche lungimiranza e tanta passione per quello in cui si crede.

Tutto questo lo si trova in “I Think We’re Fine”, nuovo disco della band romana Northern Lines appena uscito per l’etichetta J. Joe’s J. Edizioni Musicali.

La formazione nasce a Roma nel 2013, dall’unione delle forze di Stefano Silvestri (basso), Cristiano “Cris” Schirò (batteria) e Alberto Lo Bascio (chitarra).

Il progetto si presenta come un'opportunità di espressione libera e sperimentale per i tre musicisti coinvolti. Senza vincoli di genere, i brani del trio spaziano tra stili diversi: da aspre sonorità metal a digressioni bossanova, passando per progressioni di classic rock in stile Led Zeppelin e momenti di introspezione psichedelica alla Pink Floyd.

Nello stesso anno pubblicano l’EP “Hari Pee Hate” mentre il primo lavoro sulla lunga distanza” “Farts From S.E.T.I. Code "viene pubblicato l’anno successivo e, nel mese di Giugno dello stesso anno, intraprendono un tour nel est Europa che da loro un’ottima visibilità e notorietà.

Nel 2017, la band registra il secondo album "The Fearmonger" al Music Up di Roma … l'album riceve ottime recensioni che evidenziano il lavoro in studio e le idee della band e nell’estate del 2018 entra in formazione il pianista e tastierista di estrazione jazz Leonardo Disco così da ampliare e colorare la strada intrapresa fino ad allora.

Tra il 2019 e il 2020 la band mette su nastro nuovo materiale ma che vedrà la luce solo nel 2024.

Finalmente “I Think We’re Fine”, registrato presso gli studi Music Up da Stefano Nuccetelli, vede la luce in formato digitale per l’etichetta J. Joe’s J. Edizioni Musicali, con la produzione artistica di Giovanni Pasquetti.

Il concept dell’album viene così descritto dagli stessi protagonisti:

La quantità di informazioni senza il filtro del senso critico ci conduce in un'era di grande estraniamento collettivo. Estraniarsi significa tirarsi fuori e isolarsi, fino a confondere, capovolgere emozioni e sensazioni. Tutto questo può portare a una percezione della realtà davvero bizzarra, soprattutto perché la realtà non è un fenomeno primario, ma una costruzione mentale basata sulle percezioni. Percepire è l'unico elemento davvero reale e primario. Per questo sarà interessante capire la differenza fra una cottura e un bagno caldo." I think we're fine " ci dà una risposta apparentemente chiara, ma che di traccia in traccia, viene determinata da mille altre variabili e chiavi di lettura. Perché ogni risposta non è un universo immobile, ma dipende sempre da una domanda. E qual è la tua domanda?

Ho scritto che è un album strumentale ma non è totalmente vero perché in “Site Of The Ritual” è presente la splendida voce di Ambra Mollicone che vocalizza come Clare Torry In “The Great Gig In The Sky” dei Pink Floyd.

Ma torniamo indietro e iniziamo con il primo singolo pubblicato, "That's My Son", che anticipa l'uscita del disco. Questo brano dimostra come la band sia capace di traghettare il progressive rock degli anni '70 ai giorni nostri, mantenendo sempre una melodia ben presente dove si può apprezzare l’ottimo lavoro della chitarra e del pianoforte.

Il disco si apre con “Under A Purple Sky”, brano che, nell’introduzione, può ricordare i Genesis ma che poi si fa robusto grazie alla dinamica sezione ritmica ed alla chitarra molto decisa che ricama su un solido tappeto di tastiere.

Segue l’altrettanto dinamica “Bear It” che con i suoi cambi di tempo ed umori mostra tutta la carica prog della band e la perizia tecnica dei musicisti.

Neither The First, Nor The Last” prosegue il discorso fin qui fatto con momenti più complessi ed aperture melodiche dove piano e chitarra sono protagoniste.

Si sfiora il prog metal in “68”, brano muscoloso che vede la chitarra disegnare riff granitici e la sezione ritmica viaggiare come un treno.

That's My Son” l’ho citata prima mentre la successiva “Brother Nick” ritorna a tenere alta la tensione e vede ottimi passaggi di piano a stemperarla con la chitarra a ricamare un assolo veramente intenso per poi riesplodere nella parte finale.

La title track “I Think We’re Fine” mostra il lato più tranquillo del disco con la chitarra a disegnare la melodia sorretta dalle ottime tastiere e dalla sezione ritmica sempre precisa.

Anche “Site Of The Ritual” l’ho già citata (è uscita come secondo singolo) quindi passo alla successiva “Consequences Of Bad Behaviour”, brano che evidenzia quanto i musicisti coinvolti abbiano ascoltato ed apprezzato i King Crimson e li abbiano miscelati con la loro personalità rendendo il tutto attuale ed estremamente originale.

La chiusura di questo più che convincente album spetta alla coinvolgente “Wind's Howlingsempre piena di sorprese, di pause e ripartenze.

In conclusione, posso affermare che i Northern Lines sono una band di assoluto valore e che questo “I Think We’re Fine” convince dalla prima all’ultima nota e che l’assenza della voce non intacca minimamente la qualità compositiva ed esecutiva del quartetto e, velo posso garantire, le dieci tracce che compongono il lavoro, vanno giù che è un piacere al punto di voler ripartire subito con un nuovo ascolto.

 

 

 

Ricordando Francesco Di Giacomo




"Felliniano... avevo sempre sognato da grande di fare l'aggettivo"

(Federico Fellini)

21 luglio

Ci sarai sempre.

Buon viaggio maestro

Wazza







giovedì 11 luglio 2024

Ariccia: Festival degli Sconosciuti

ARICCIA-RITA PAVONE PREMIA, INSIEME CON TEDDY RENO, IL CANTANTE DINO AL FESTIVAL DEGLI SCONOSCIUTI DEL 1963

Se in America avevano “Woodstock” e in UK “Isle of Wight”, in Italia avevamo “La festa degli Sconosciuti”. Ma non lo dico con ironia, la Festa degli Sconosciuti, madre di tutti i “talent show” di televisiva memoria, fu una geniale intuizione del cantante-discografico Ferruccio Ricordi alias Teddy Reno.

Ariccia, piccolo borgo dei castelli romani, conosciuta all’epoca solo per la “porchetta” e il “ponte dei suicidi”, diventò negli anni ’60 il centro della musica e spettacolo.

Oltre ai tanti debuttanti venivano big della canzone, del cinema, teatro, cultura e politica. Vedere dal vivo i Rokes, Mal con i Pimitives, per me pischello di provincia era “fantascienza”, sicuramente fu il mio imprinting, capelloni e chitarre elettriche segnarono il mio futuro in fatto di gusti musicali!

Uno spettacolo che portava ad Ariccia migliaia di persone da tutta Italia,ma spazzato via dagli anni ’70, dalle contestazioni, austerity, terrorismo… all’improvviso diventammo tutti più seri. 

Di tutto un Pop…

Wazza

Festival degli Sconosciuti di Ariccia - Ivan Cattaneo (1967)

 THE ROKES

Bobby Posner Mike Shepstone Shel Shapiro Johnny Charlton

Ospiti d'onore al Festival degli Sconosciuti di Ariccia nel 1966

THE SLENDERS

Il complesso di Riccardo Fogli - il primo seduto da sinistra -

classificatosi al secondo posto alla manifestazione musicale

I Rokes al Festival degli Sconosciuti di Ariccia

La musica è un linguaggio universale e chi ne possiede le doti ha, o ha avuto, motivo di poterne fruire a larga gratificazione, anche se in modo dilettantistico. A tale proposito voglio rammentare una parentesi di vita personale che, comunque, fa parte di un più vasto mosaico. Gli anni '60 furono definiti "favolosi" poiché l'economia era in forte sviluppo, anche se quel periodo fu portatore di effervescenze sociali e politiche. I giovani volevano cambiare il mondo … come oggi. Ma per rimanere nel campo musicale, desidero ricordare un'esperienza che mi tocca da vicino. Da alcuni anni, in quel tempo, suonavo il bassetto elettrico (come quello dei Beatles) in una band che, allora, chiamavamo complesso.

Nel 1969 partecipai al "Festival degli sconosciuti" che si teneva ad Ariccia (RM), una manifestazione canora ideata da Teddy Reno (Ricordi) nel 1961, residente nel Comune omonimo, e con l'intento di scoprire nuovi talenti. nel 1962 il Festival fu vinto da Rita Pavone che, in seguito diverrà moglie di Teddy. Tale manifestazione, nel suo excursus di diversi anni fece conoscere e salire alla ribalta diversi artisti che susseguentemente assaporarono il successo. Fra i tanti: Marcella Bella, Mal, Ivan Cattaneo, Claudio Baglioni, Rita Pavone … e tanti altri. Ma veniamo alla cronaca di quell'anno cui partecipai.


FONDO DIAL / FESTIVAL DELLE VOCI NUOVE AD ARICCIA

Il ministro Folchi in platea: racconta la legenda che per far star comodo l’onorevole e signora, fu portato in pizza il divano buono di un “facoltoso” ariccino, all’epoca uno dei poche che si potesse permettere un divano!


 

Verso fine agosto del '69 – per la precisione il 31 -, il complesso composto da Riki Naso (voce), Giordano Lucchini (tastiere), Sergio Bersani (batteria), Marco Manoni (chitarra solista), Gianpiero Dèlmati – alias Bobo – (bassetto), raggiunse la località in oggetto in macchina partendo da Milano. Superate le audizioni e conseguentemente le selezioni dell'8° edizione, proponemmo la nostra performance al numeroso pubblico in piazza (circa 4.000 presenze), fra cui diversi artisti quali: Linda Christian Power, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Barbara Buchet, il famoso sarto di allora Schubert e altre personalità dello spettacolo … ci accolse lo sterminato palco per la finalissima, domenica 31 agosto, sera. L'emozione provata non è descrivibile, è rimasta comunque nel cuore, indelebile fino a oggi. La carica di adrenalina era alle stelle. Eseguimmo la canzone: "Solo, io sono solo" di … non ricordo, ma rammento benissimo l'entusiasmo del pubblico. Il calore partecipativo degli astanti ci mandava in visibilio. Al termine il cuore di ciascuno di noi batteva forte al fine della grande emozione provata, e per l'attesa del verdetto che la Giuria, congiuntamente all'intensità degli applausi, avrebbe pronunciato.


Domenico Modugno colto con Franca Bettoja durante il Festival degli sconosciuti di Ariccia

Qualche minuto di attesa spasmodica. Meritammo il 3° posto. Teddy Reno premia i vincitori: 1° classificato "Complesso Beba e le racchie" (forse uno dei primi complessi al femminile); 2° Eugenio Castaldo e aL 3° Riki e il suo Complesso, ex equo con Lucilla Galeazzi.  Comunque si pensi, tale partecipazione ha arricchito il mio animo regalandomi emozioni difficilmente ripetibili. Di là dei personalismi e delle considerazioni casuali, Ariccia e il suo Festival degli sconosciuti, rimangono un coriandolo colorato nella storia della musica italiana.

 Gianpiero Dèlmati

I “provini” con Teddy Reno

Checco Garbari... settembre 1963, prato della Rca, 2°festival degli sconosciuti di Ariccia... Kings, Misfits, Dino, Rita Pavone, Teddy Reno... Tutti gli altri...



 

domenica 7 luglio 2024

7 Un ricordo per Syd Barret, che ci ha lasciato il 7 luglio del 2006

Il 7 luglio del 2006 se ne andava, dopo una vita tormentata Roger “Syd” Barrett, fondatore dei Pink Floyd, scheggia impazzita della musica!

Per non dimenticare…

Wazza

Il 7 luglio del 2006 muore a Cambridge, ufficialmente per un tumore al pancreas, SYD BARRETT, il folle diamante dei Pink Floyd, icona del rock, simbolo di come follia e genialità vadano a braccetto finendo per distruggersi a vicenda.

Barrett era "disturbato", questo si sa, ma finché ha fatto musica è riuscito sempre e comunque a sottomettere la sua follia al disegno d'insieme. 

Le sue canzoni erano sempre mondi al confine, mai lineari, come se fossero sempre almeno tre canzoni in una. La sua parabola (grandezza intuitiva e geniale degli inizi, primi capolavori, avvisaglie della pazzia, trent'anni di esilio volontario, morte) è disseminata di episodi straordinari. 

La metamorfosi di Syd

È stato il fantasma del palcoscenico: lontano da tutti per trent'anni, eppure sempre in mezzo a noi. Nell'aria.

“Remember when you were young, You shone like the sun,

Shine on you your crazy diamond ...”





martedì 2 luglio 2024

Riccardo Zappa – “Gabri flies to Italy”-Commento di Alberto Sgarlato

 


Riccardo Zappa – “Gabri flies to Italy” 

di Alberto Sgarlato

Una nuova uscita da M.P. & Records

distribuito da G.T. Music Distribution 


Non è esagerato dire che il nome di Riccardo Zappa è famoso in tutto il Mondo. Ormai giunto al mezzo secolo di carriera, iniziata nel 1974, si è fatto amare da critica e pubblico sotto molteplici vesti: in qualità di turnista al servizio di nomi noti della musica italiana, come compositore di colonne sonore, ma, al di sopra di ogni altra cosa, come autentico “Maestro Cesellatore” di trame eleganti e raffinate disegnate mediante un utilizzo sapiente del suo vasto parco chitarre, sul quale svetta, in modo particolare, l’indiscussa preparazione tecnica sulla 12 corde acustica.

Questo è Riccardo Zappa. E negli anni d’oro della stampa di settore, quando internet non esisteva e le riviste specializzate di musica inondavano gli scaffali delle edicole, il nome di Riccardo Zappa era costantemente sulle copertine di testate come “Chitarre” o “Guitar Club”, osannato dalla critica e promosso a pieni voti dal pubblico nei ricorrenti sondaggi sui musicisti più amati.

Da quel 1974 Zappa ne ha fatta di strada, ma ancora oggi per gli amanti del sound chitarristico strumentale ogni sua pubblicazione nuova è una gioia per le orecchie.

E veniamo dunque a questo “Gabri flies to Italy”, ventiquattresimo album di studio del compositore forlivese, dedicato al fratello Gabriele.

A dare il titolo all’album è una suite di circa 19 minuti di durata. Nella dolcezza delle trame introduttive, generate dalle armonizzazioni di più chitarre sovraincise, si respirano le atmosfere di quel rock progressivo britannico che all’inizio degli anni ‘70 veniva definito “pastorale”, quello più contaminato col folk. Ma dal secondo minuto, con l’ingresso dapprima soltanto di un tamburello, poi di una vera e propria sezione ritmica completa e, infine, di una chitarra elettrica, il brano cambia completamente volto e diventa “roccioso”, sanguigno, puramente rock. E dal terzo minuto, tutto sembra cambiare di nuovo! I momenti “hard” vengono infatti alternati ad altri ricami di strumenti a corde acustici, dando al tutto un sapore “mediterraneo” nel quale il rock incontra la World-music.

Pensate che sia finita? Ma siamo solo all’inizio! “Drones” elettronici, arpeggiatori, loop ritmici sintetici e strumenti elettronici che sembrano simulare ance e fiati provenienti da un’altra galassia ci portano nelle indimenticate terre dei “Corrieri Cosmici” tedeschi: come se i Tangerine Dream e i Kraftwerk insieme avessero riscritto il Bolero di Ravel. Queste suggestioni sono solo una breve parentesi prima del ritorno alle atmosfere del prog-rock pastorale. E qui Zappa svela quella che da sempre è la sua vera maestria: saper comporre melodie “cantabili” senza necessariamente l’uso della voce umana.

Anche se poi, in realtà, dal decimo minuto, anche le voci umane sono presenti. Ma utilizzate in modo corale e lieve, come una sorta di tappeto armonico. L’effetto che ne nasce è commovente.

Tutto diventa impalpabile, rarefatto; ma poi pian piano ogni cosa riprende forma, col ritorno dei cori e della sezione ritmica. Fino ad arrivare nuovamente a un finale etereo, affidato al canto di una chitarra acustica solista, all’arpeggio di un’altra chitarra nelle retrovie e ai tappeti elettronici dei sintetizzatori che chiudono il tutto.

L’eccellenza e la maestosità che vanno a comporre questa lunga e articolata suite, le ritroviamo poi “spezzettate”, sotto nuove forme, nelle varie tracce dell’album: “Harmonios” è una rock ballad dove i temi portanti, sempre cantabilissimi, delle chitarre acustiche (suonate anche con una tecnica da mandolino) ed elettriche (forse con un e-bow?) che si avvicendano, sono sorretti da una sezione ritmica che si muove con discrezione e da splendidi tappeti di organo Hammond. “Sanvalentiniana”, con i suoi 7 minuti circa, è la seconda traccia più lunga dopo la suite e anch’essa sfrutta molteplici cambi di atmosfera, alcuni affidati alle sole chitarre, altri “annunciati” da brillanti crescendo di piatti che aprono la strada alla sezione ritmica, fino a un ritorno “circolare” alle sole chitarre. “Inno” ha addirittura qualcosa di vagamente rinascimentale nelle sue atmosfere. Tutto, anche nei tappeti di sottofondo, è giocato su minimi tocchi funzionali a valorizzare i temi chitarristici.

Suonami una nota” è un ritorno verso coordinate più affini a un prog-rock strumentale, nel quale addirittura la chitarra acustica sembra “duellare” col timbro di un guitar-synthesizer che ricorda i vecchi Moog. Brano energico e corposo, nella ritmica e nelle melodie.

La chiosa è affidata a due brevi brani, “Nimaster Ego” e “L’Attesa”: il primo tra questi due vede il ritorno del coro impegnato in una introduzione prima dell’ingresso di una ritmica pulsante, con il rullante in primo piano e una chitarra stoppata a reggere i temi portanti; il coro torna sul finale per “giocare” in una sorta di botta e risposta con la chitarra elettrica. E si chiude con “L’Attesa”, dove Riccardo Zappa, dopo aver schierato elettronica, cori, chitarre elettriche, ritmiche ben presenti nei vari momenti degli altri brani, torna a concedersi uno spazio tutto per sé e tutto acustico, concludendo così in gloria un eccellente album, ottimamente scritto, arrangiato, prodotto e suonato.


TUTTE LE INFO UTILI:

https://mat2020comunicatistampa.blogspot.com/2024/06/riccardo-zappa-in-uscita-lalbum-gabri.html