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mercoledì 30 giugno 2021

lunedì 28 giugno 2021

Osvaldo Ardenghi – “Leggero Vento”, di Fabio Rossi

 

  

Osvaldo Ardenghi – “Leggero Vento” (2018)

 International Record Distribution

Di Fabio Rossi


Leggero Vento, registrato presso gli studi Auditoria Records di Fino Mornasco (Como) e co-prodotto da Simonetta Trognoni, è il quarto album solista di Osvaldo Ardenghi, musicista e comico bergamasco. Il disco è una piacevole sorpresa e rappresenta una svolta artistica per l’autore poiché vira decisamente verso il rhythm & blues, distanziandosi dal tipico andamento rock che ha contraddistinto le sue precedenti composizioni.

Come egli stesso afferma: “E’ un disco lontano dai miei usuali canoni rock, ma comunque fortemente intriso di blues e, per la prima volta, realizzato con l’ausilio di una sezione fiati (un sogno che cullavo da molto tempo - confidenza fatta all’autore della presente recensione). Sono dieci canzoni molto diverse per contenuti e ispirazione, ma riflettono pienamente una vasta parte del mio background musicale. C’è rhythm & blues, swing, qualche profumo reggae e perfino qualche tentazione funky, una varietà di colori resi possibili grazie agli straordinari musicisti che hanno partecipato al progetto. Non era il caso che io aggiungessi alcunché, per cui, per la prima volta ho scelto di concentrarmi esclusivamente su un’interpretazione vocale che fosse degna di cotanti illustri musicisti”.

La presenza dei fiati, che campeggiano anche sulla cover come diademi su un bellissimo volto femminile dallo sguardo malinconico, è senz’altro la qualità più premiante di Leggero Vento che, in un certo senso, esprime una sorta di ritorno alle origini per un musicista da sempre affascinato dal blues (ci tiene a precisare che è grande ammiratore del compianto chitarrista irlandese Rory Gallagher). I magistrali arrangiamenti sono stati curati dal Direttore Artistico Roberto Martinelli (già con Giorgio Gaslini, Gino Paoli, Alberto Fortis, Zucchero), Paolo Tomelleri (clarinetto), Marco Brioschi (tromba), Alessio Nava (trombone), Maurizio Signorino (sassofoni), Piero Orsini (basso), Emilio Foglio (chitarre), Valerio Baggio (tastiere), Filippo Acquaviva (batteria) e Susanna Dubaz (cori). La musica proposta si manifesta corposa nell’ambito di un songwriting di livello e possiede sfumature variegate sconfinando in generi differenti. L’inconfondibile ugola di Osvaldo impreziosisce un lavoro che, in alcuni frangenti, fa riferimento allo stile di illustri personaggi del calibro di Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci. Non è di certo un caso visto che l’autore ha rivelato una spiccata propensione per la recitazione e per il cabaret ed è approdato alla scuola di Jannacci con il quale, dal 1994, ha collaborato in numerosi spettacoli teatrali e televisivi. Il disco, per la gioia di Ardenghi che lo desiderava ardentemente, è stato presentato al Teatro Serassi di Villa D'Almè in provincia di Bergamo.

Delle dieci godibili tracce citiamo l’ottima opener Mi sento un po’ strano, la coinvolgente title track, la ritmica reggae di Sì che lo sai, la malinconica Alla sera, la stravagante Bip (già realizzata precedentemente ma priva dei fiati), Rio Dolce, dedicata al fiume avvelenato nello stato di Minas Gerais in Brasile, e la conclusiva La musica, un atto d’amore nei confronti di una delle forme d’arte più affascinanti. 


Tracklist:

1 Mi sento un po’ strano

2 Leggero vento

3 Sì che lo sai

4 Morbidamente ruvido

5 Vieni balliamo

6 Alla sera

7 Quattro nere

8 Bip

9 Rio Dolce

10 La musica




domenica 27 giugno 2021

TAUTOLOGIC-Wheels fall off, di Valentino Butti


TAUTOLOGIC-Wheels fall off

Turtle Down Music-2021-USA

Di Valentino Butti

 

Continua, a distanza di soli tre anni da “Re: Psychle”, il percorso “pazzerello” dei Tautologic di Ethan Sellers (voce e tastiere) e Patrick Buzby (batteria), i due soci fondatori di questo ensemble davvero particolare ed eccentrico.

Ai boss si aggiungono Emily Albright (violino, voce), Chris Greene (sax), Nathan Britsch (basso) e Jay Montana (chitarra elettrica) oltre ad altri vari ospiti al violoncello, al trombone e alla tromba.

Wheels fall off” è nato durante il periodo più acuto della pandemia negli States, anche se una buona metà era già stata elaborata nel 2014 con delle prove in studio.

 

Il gruppo, attivo già da una ventina d’anni, fa della contaminazione, a 360°, la propria cifra stilistica principale, senza compromessi. Dopo i trenta secondi scarsi della intro “Wheels fall off” si entra nel vivo dell’album con “That’s what I hear”, con il refrain orecchiabile e fiati in evidenza.

Memo to yourself” ci porta in ambito ska, con il solito ritornello scanzonato a condurre… le danze.

Rocket surgery”, uno dei brani migliori e più “tradizionali”, nasce quasi come una ballata celtica per poi aprirsi in un arioso strumentale in cui il violino di Emily Albright “gioca” a rincorrersi con il sax di Greene e le tastiere di Sellers. Dalla metà in poi, invece, il brano diventa uno splendido ed ispirato jazz-rock.

Fat, dumb and happy” è un divertente e disinvolto pezzo che la band inserisce subito dopo, mentre la successiva “Covered in grit” è “funkeggiante” con tromba e trombone (un po' à la Chicago” in primo piano con la voce della Albright.

Notevole anche un altro strumentale, “Exit strategy”, in cui emergono le doti del chitarrista Jay Montana su un tessuto jazz-rock.

Sempre altissima la qualità pure in “Summer, 1995”, la traccia più lunga del cd, che si muove inizialmente languida, assecondando la voce della Albright, tra sax soffuso e ritmica appena accennata, per poi crescere in una sorta di jam collettiva di gran gusto. Carina, nulla di più, “High school reunion” con un, comunque, pregevole assolo di sax. L’album termina, poi, con la piacevole title track.

Al solito, i Tautologic ci regalano un lavoro decisamente coinvolgente, intrigante, vario e sorprendente… non possiamo fare a meno di riascoltarlo…





sabato 26 giugno 2021

ST. TROPEZ – “ICARUS”, di Andrea Pintelli

Prosegue l’opera di riscoperta dei lavori del grande Ciro Perrino, impegnato in prima persona in questo importante e imponente lavorazione, per ridar loro lustro e nuova luce. Oggi parliamo del progetto St. Tropez, le cui registrazioni risalgono al periodo fra 1977 e 1978, effettuate presso lo studio Ortica di Sanremo (città di origine e residenza di Ciro).


Il disco fu pubblicato solo nel 1992 ad opera della benemerita Mellow Records, quindi ovviamente postumo al loro scioglimento, e fu intitolato “Icarus”.

Il 13 maggio 2021 arriva il rilancio sulla piattaforma Bandcamp, ormai a tutti gli effetti la vetrina delle vetrine per gli artisti del pianeta Terra. E forse non solo. La rimasterizzazione è stata curata dal suo amico Marco Canepa (con il quale Perrino collabora dai tempi di “Moon in the Water” del 1994), musicista e sound designer.

Alle tracce originariamente presenti nell’album sono state aggiunte tre canzoni fin qui inedite.

Andando per ordine, vi porgo la loro storia narrata dallo stesso Ciro: “Prima di St. Tropez vi fu una parentesi musicale sfociata in una band durata davvero lo spazio di un mattino. Il gruppo in questione si chiamava S.N.C. e prendeva le mosse da una mia intuizione, ove per l’occasione mi celai dietro lo pseudonimo di Monsieur de Mirvel. In questo nuovo progetto gli accompagnatori erano Monsieur de Curval e Madam de Mistival, rispettivamente alla chitarra acustica, alla chitarra elettrica e voce il primo e pianoforte elettrico, percussione e voce la seconda. Per la prima volta mi dedicai totalmente alle tastiere e ai sintetizzatori. L’idea di base era quella di iniziare a costruire i brani partendo da un background elettronico, utilizzando principalmente batterie e generatori di ritmo sintetici. Si era ancora lontani dal poter programmare una sequenza alternando differenti pattern e conferire così alle composizioni un susseguirsi di atmosfere prima ritmiche e successivamente più rarefatte. Per cui si doveva lavorare sopra un’unica cellula di ritmo che spesso risultava ossessiva ed ossessionante. L’unica possibilità di interrompere la ripetitività era costituita da un piccolo pedale, o switch, con il quale si interrompeva, preferibilmente a tempo, lo sviluppo della sequenza, per riattivarla nel momento nel quale si decideva di riprendere il ritmo. Altra idea era quella di realizzare un suono profondo, magmatico sul quale poi poggiare le voci, i canti e le melodie mantenendo costantemente un’atmosfera onirica e leggermente psichedelica. Io utilizzavo l’Eminent come tastiera di base con la quale realizzavo tappeti e continui, affiancando al Mini Moog, all’ARP 2600 ed al EMS Synthi AKS anche l’uso discreto di flauti dolci e piccole percussioni. La creazione dei primi loop e sequenze ripetitive ottenute con il Synthi AKS mi consentiva per brevi momenti di avere le mani libere per poter suonare un altro strumento, cosicché mentre si sentiva il reiterarsi di una scala ascendente e discendente, contemporaneamente si poteva avvertire una melodia eseguita con un flauto dolce. L’uso dell’italianissimo Echorec Binson 2 dava la possibilità, soprattutto al chitarrista, di sovrapporre più motivi e piccoli riff creando effetti e un senso di profonde spirali sonore, sopra le quali si dipanavano voci eteree e canti suonati con timbriche tipiche del sempre presente Mini Moog e del più sofisticato ARP 2600. Di questa esperienza resta la registrazione di uno dei rarissimi concerti che furono tenuti dalla formazione e che si intitola “Assalto alle nuvole” ed è datato 15 settembre 1977 (pubblicato dall’etichetta Mellow Records), poco tempo prima dell’inizio del nuovo viaggio musicale con i St. Tropez.

Quel che più conta è che questa, seppur breve, sperimentazione consentì di preparare l’avvio e l’inizio di una ricerca più approfondita nel campo sia del suono che delle soluzioni che si ritroveranno in seguito. Sicuramente certe atmosfere, qui ancora a livello embrionale, andranno a creare più avanti i presupposti per i miei primi lavori solisti a partire da “Solare” del 1980.

Ma torniamo agli ultimi bagliori del cammino degli S.N.C. Uno dei soliti personaggi oscuri e poco credibili che popolavano ed ancora popolano gli ambienti musicali, proprio dopo il concerto di quel 15 settembre, propose al gruppo un tour a dir poco gigantesco in territorio francese. Era però necessario possedere un furgone, uno staff tecnico per i supporti logistici, un buon ingegnere del suono ed un impianto audio e luci all’altezza della situazione. Ci adoperammo per trovare vari sponsor, finanziatori e ragazzi di buona volontà che desiderassero intraprendere con noi questa avventura. Sull’onda di un entusiasmo genuino riuscimmo a trovare le risorse sia umane che materiali, coagulando intorno a noi un insieme di persone pronte ad affrontare questa bellissima sfida. Alcuni amici si indebitarono per acquistare uno stupendo furgone Mercedes di colore bianco adatto per trasportare strumenti ed impianti audio e luci e, all’occorrenza, anche ad essere trasformato in temporaneo luogo di relax e disimpegno. Una specie di motorhome ante litteram. Altri iniziarono ad attrezzarsi per poter garantire una buona resa sonora, andando a seguire un corso per aspiranti fonici, che in quei giorni era stato indetto presso un negozio di strumenti musicali nella vicina Nizza. Tutto sembrava procedere per il meglio. Già qualcuno sognava, magari quanto prima, una volta in terra di Francia, di poter far da supporter ai Gong, a Steve Hillage e alla sua band oppure a David Allen. Niente di tutto questo. Quando ormai i preparativi erano giunti al culmine con il repertorio provato e riprovato, il suono studiato e preciso, lo spettacolo con le luci anch’esso provato e riprovato, arrivò la triste sorpresa. L’organizzatore era scomparso nel nulla senza lasciare traccia. Detto per inciso alcuni anni più tardi in occasione di un fortuito incontro, parlando con me, il sedicente manager ammise di non aver mai avuto nessun contatto e che aveva solo scherzato. Quell’evento del tutto inatteso e assolutamente non prevedibile provocò un brusco scossone, ma non intaccò la determinazione ad andare avanti. Riunii i membri del gruppo ed indicai quelle che erano le mie intenzioni: continuare comunque senza curarsi troppo di quell’ultima delusione. L’idea principale fu quella di ricostituire un insieme ritmico introducendo nuovamente nell’organico basso elettrico e batteria. Fu per questo che vennero ricontattati Giorgio Battaglia, già bassista in Celeste prima e seconda formazione e Francesco “Bat” Dimasi, anch’egli batterista con Celeste ma soltanto nella seconda formazione, quella più rock e meno onirica e sognante. Furono anche reclutati altri elementi provenienti dalla scena musicale della vicina Ventimiglia, terra da sempre molto feconda e ricca di musicisti di razza. Anche in questo caso gli ex S.N.C., ormai a tutti gli effetti St. Tropez, optarono per un duo già formato ed affiatato, sulla falsariga della coppia Giorgio e Francesco. Per cui vennero reclutati Silvano Cecchini, bassista e amico di vecchia data, e Mimmo De Leo, giovanissimo batterista però già padrone di una tecnica ineccepibile che si esplicava in un drumming robusto e preciso. Fu inoltre data l’opportunità ad un altrettanto giovanissimo batterista, ma questa volta dell’area sanremese, di poter entrare per la prima volta in una sala di incisione per registrare alcune tracce del nuovo repertorio del gruppo. Enzo Cioffi, questo il suo nome (vi suona nuovo?), all’epoca appena quindicenne, fu il primo ad iniziare il nuovo corso dei St. Tropez e fece coppia con Stefano Minutolo alla chitarra elettrica, altro talentuoso musicista purtroppo prematuramente scomparso, e che sarà presente, pochi anni dopo, anche in una delle tracce di “Solare”, mio primo vero album solo: suo lo splendido contributo nel brano intitolato Terra. Enzo e Stefano provarono e quindi registrarono in quell’occasione quella che poteva essere considerata la mia prima vera composizione, intesa come canzone. Si era ormai lontani dalle esperienze di Sistema e Celeste, anche se erano trascorsi pochi anni, ma un nuovo tipo di consapevolezza e tanta curiosità mi avevano spinto ad esplorare nuovi territori. I mesi degli anni che vanno dal tardo 1977 fino a quasi tutto il 1978 furono dedicati alla registrazione di numerosi brani che prima avevano il sapore di semplici provini, ma poi via via che si affinavano nelle strutture e negli arrangiamenti, divenivano a tutti gli effetti testimonianze definitive del nuovo corso che andava delineandosi. Una volta ultimate le registrazioni di quasi tutti i brani, pensai di iniziare a proporre quanto prodotto alle case discografiche. Riuscii a procurarmi diversi appuntamenti presso alcune etichette, prima fra tutte la Phonogram, come si chiamava in quegli anni l’attuale Universal, e poi vi fu anche un incontro con la Cramps di Gianni Sassi. L’interesse per le composizioni fu incoraggiante, ma non si arrivò mai a definire un accordo che potesse far presagire un’uscita discografica. Tuttavia, questa prima esposizione fu importante, in quanto mi consentì di intrecciare importanti relazioni che poi sarebbero state utilissime per intraprendere la mia carriera solistica. Incontrai infatti proprio alla Phonogram quel Giorgio Pertici, direttore artistico molto attento e preparato, che due anni dopo al momento di costituire la Ciao Records, mi chiamerà offrendomi la possibilità di firmare il mio primo contratto e di pubblicare “Solare”.”



Le canzoni:


-       Noccioline, caramelle, gelati: cosmica, eterea, pinkfloydiana.

-       Segnale limpido: squarciata dalla verità, spaziale, metronomica.

-       Il laghetto del cigno: ludica, azzurra, chitarristica.

-       Una necessità di espandere: controtempistica, d’altrove, eretta.

-       Nella cascata: naturalistica, green, rilassante.

-       Tu sei il pianeta: lirica, speranza ovunque, tastieristica.

-       Bollito misto: progressive, luccicante, gioiosa.

-       Icarus: sognante, d’impatto, lampante.

-       Re del deserto: ’80, vogliosa, profondamente suite.

-       Verdure saltate: rockeggiante, amante per amanti MAT2020, vegetariana.

-       Luna in Vergine: batteristica, cinemascope, inalienabile.

-       Il lato sconosciuto: run everywhere, forte, decisa ma decisamente dolce.

-        

Questa l’inside cover del cd datato 1992, con note del “faraone” Mauro Moroni, socio di Perrino nella Mellow Records e collezionista-conoscitore (fra i primi al mondo) del Progressive a 360°:

La formazione:




venerdì 25 giugno 2021

Compie gli anni Carly Simon

La classe è classe.

Happy Birthday Carly!

Wazza

Era il 25 giugno del 1945 quando Carly Simon nacque nel Bronx, la nota contea a nord di Manhattan. Suo padre era il cofondatore della Simon & Schuster - una delle più grandi case editrici statunitensi - e un pianista appassionato di musica classica. La madre di Carly, invece, era una cantante e attivista per i diritti civili. Così, fin da piccola, la Simon venne introdotta al mondo della musica grazie alla grande passione e al grande estro creativo dei suoi genitori.

Purtroppo, però, la sua infanzia non è stata idilliaca: da adulta, la cantante avrebbe rivelato di essere stata vittima di violenza sessuale da parte di un amico di famiglia quando era ancora una bambina. Probabilmente in seguito a questo evento traumatico, da ragazzina iniziò a balbettare e venne sottoposta dai genitori a diverse visite psichiatriche con relative cure che, però, non portarono a nulla di buono.

Finché un giorno, forse per puro caso, Carly si rese conto che la cosa che le veniva più naturale era cantare: in effetti, quando cantava i balbettii si fermavano e (come spesso accade a molte persone che soffrono di balbuzie) riusciva a cantare senza problemi.

Iniziò così a scrivere canzoni utilizzando il canto come mezzo espressivo per superare il senso di soffocamento che le dava il parlato comune. 

Nella seconda metà degli anni 60, queste canzoni divennero la base per creare un gruppo con sua sorella Lucy, le Simon Sisters. Dopo un paio di dischi di scarso successo commerciale, tuttavia, Lucy si ritirò dal palcoscenico per dedicarsi alla famiglia.

Così, nel 1970, Carly ottenne il suo primo contratto discografico come solista con la Elektra Records senza sapere che, di lì a poco, sarebbe diventata una vera e propria icona di quel magico decennio. 

Il suo primo album, CARLY SIMON, venne pubblicato nel marzo del 1971 e conteneva la sua primissima hit che entrò nella top 10 del periodo That's the Way I've Always Heard it Should Be, un componimento che prende spunto dalla musica classica tanto cara al padre di Carly per trattare argomenti di estrema importanza relativi all'infanzia e alla giovinezza dell'artista.

Fu poi la volta del suo secondo album, ANTICIPATION, che venne pubblicato nel novembre dello stesso anno e che, proprio come il suo predecessore, conteneva una hit di grande successo. In questo caso si tratta del lead single Anticipation, pezzo diventato molto famoso anche perché inserito in diversi spot pubblicitari dell'epoca. Il testo, scritto nel giro di 15 minuti, parla dei sentimenti della giovane artista poco prima di incontrare il collega cantautore Cat Stevens per un appuntamento.

Ma ecco, finalmente, l'arrivo del successo: fu You're So Vain a spingere Carly Simon in cima alle classifiche dell'epoca e a renderla un'icona di quegli anni nell'immaginario collettivo.

Il brano venne pubblicato nel novembre del 1972 e ottenne un successo immediato anche grazie a quell'aura di mistero dalla quale è avvolto il testo: si parla di diversi uomini, probabilmente tre, talmente vanitosi da pensare che certamente quel pezzo era stato scritto dalla Simon proprio per loro. L'identità di questi uomini non venne mai svelata fatta accezione per uno, l'attore statunitense Warren Beatty.

Così, partì la caccia all'uomo con la quale i fan della Simon tentarono di identificare i personaggi incriminati. La Simon stessa giocò sull'argomento lasciando diversi indizi come, per esempio, alcune lettere contenute nel loro nome. Nel 2003, durante un'asta di beneficenza, Carly Simon riuscì perfino a vendere la possibilità di conoscere il nome di una o più persone delle quali parlava nella sua hit al migliore offerente a condizione che tenesse il segreto per sé.

La particolarità della canzone sta anche nella partecipazione di alcune personalità di spicco come il famoso musicista e produttore tedesco Klaus Voormann al basso e Mick Jagger che contribuì come corista anche se non viene menzionato nei credits. 

Tornando ai misteriosi uomini protagonisti del brano, la matassa non è stata ancora sbrogliata ma, se volete cimentarvi nell'impresa, ecco, qui sotto, la hit in questione.

(Alessia Marinoni) 

 





giovedì 24 giugno 2021

Il compleanno di Patrick Moraz


Compie gli anni oggi, 24 giugno, Patrick Moraz, tastierista diplomato al conservatorio di Losanna che, dopo varie esperienze giovanili, nel 1973 si trasferisce in Inghilterra ed entra nei Refugee, ex Nice, orfani di Emerson.
Dopo appena un anno arriva la grande occasione e viene chiamato a sostituire Rick Wakeman negli Yes, con cui incide l'abum "Relayer", e intraprende un tour mondiale.
Mentre Wakeman riprende il suo posto negli Yes, Moraz incide dischi solisti ed entra nei Moody Blues, e contemporaneamente realizza altri numerosi progetti, suonando anche per Chick Corea e Bill Bruford... svizzero? Sì Moraz!
Happy Birthday Patrick !
Wazza

 English progressive rock group Yes, United Kingdom, 1975. Left to right: singer Jon Anderson, Swiss keyboard player Patrick Moraz, drummer Alan White, bassist Chris Squire and guitarist Steve Howe. (Photo by Michael Putland/Getty Images)

 Con Chris Squire



Moraz con i Moody Blues

mercoledì 23 giugno 2021

GIOIELLI NASCOSTI 2.0-Riccardo Storti commenta "Black Water" (1989), di The Zawinul Syndacate

GIOIELLI NASCOSTI 2.0

 The Zawinul Syndacate- "Black Water"

(CBS, 1989)

Di Riccardo Storti

Un album un po' perso nella nebbia ma che merita certamente una rivalutazione quando si parla di Joe Zawinul, il papà dei Weather Report, qui alle prese con il bis della sua nuova incarnazione bandistica ovvero The Zawinul Syndacate.

Fine anni Ottanta, Peter Gabriel sta mettendo su la sua officina dei sogni e dei suoni dal mondo (la Real World). Zawinul, pur da un altro emisfero sonoro, si muove più o meno sulla stessa strada, fissando con questo album una via ethno per la fusion, una sorta di jazz-rock panmusicale, rispettoso di qualsiasi tradizione musicale, meglio se meno nota o lontana dal mainstream. Lo si era già visto in Immigrants del 1988 e, ancora prima, nel suo secondo solista Di-a-lects.

Con Black Water, la ricetta non cambia: una bella selva di tastiere avveniristiche dotate delle prime campionature digitali (quindi frutto di ricerche non solo tecnologiche, ma anche etnomusicali) che si affiancano ad un parterre percussionistico da paura e vocalist di pregio. A completare il microcosmo zawinuliano Scott Henderson alla chitarra e Gerald Veasley al basso.

Si parte con il ripescaggio della vecchia Carnavalito (qui dal vivo e già presente in Di-a-lects del 1986) poi c'è l'Africa particolare di Black Water, resa ancora più vivace da un comparto corale degno dei contemporanei Manhattan Trasfert. In Familial (da un testo di Prévert) Zawinul combina l'elettronica con un'idea musicale totalmente etnofonica: lo stesso uso del vocoder è spiazzante ma non stride, così come il controcanto ipercinetico di una tastiera che sembra imitare una zanza (strumento africano).

La fisarmonica è protagonista di Medicine Man: c'è lo swing elettrico dei Weather Report ma, talvolta, i pattern ritmici rimandano a qualcosa di indiano, la stessa chitarra di Henderson si muove su scale jazz-blues ma con le mosse di un raga. Stupefacente.

Poliritmi e armonie contrastanti sono gli ingredienti di In the Same Boat: due melodie vocali simili a canti rituali africani, uno strano bordone baritonale quasi tibetano, ritmi elettronici ossessivi e improvvisazioni fusion al sintetizzatore che simula uno strumento a fiato. Il tempo è in 3/4, ma basta che entri il coro o qualche frammento modulante perché tutto venga messo felicemente in discussione.

Toccanti ed efficaci i due omaggi a Monk (Monk's Mood e Littke Rootie Tootie). Chiusura in bellezza con They Had a Dream (la chitarra con lo slide chiama America, ma la melodia potrebbe essere un ennesimo canto di lavoro perpetuo dei soliti sfruttati) e con And So It Goes (percussioni e campionature di kora... sembrano quasi i titoli di coda di un film che sta finendo).

Black Water è uno di quei lavori di vero peso nell'evoluzione della fusion, grazie anche ad aperture creative che rendono onore al genio inesauribile di Zawinul.

Assolutamente da riscoprire. 




martedì 22 giugno 2021

Alessandro Casalini- "Fedeli Al Vinile- Una Divertente Commedia Umana a 33 giri", di Fabio Rossi

 


Alessandro Casalini- Fedeli Al Vinile- Una Divertente Commedia Umana a 33 giri

 (2019) – ed. Libro/Mania

Di Fabio Rossi


Negli ultimi anni abbiamo assistito a un gradito, quanto inaspettato, ritorno in auge del vinile. Tra i fattori che hanno contribuito a questa rinascita vanno citati la crisi endemica in cui è precipitato il CD e una sensibile attenuazione dell’euforia che aveva colpito un po’ tutti riguardo il famigerato formato mp3.

C’è chi ha afferrato l’occasione di tale momento propizio e, armato di coraggio e passione, ha tentato la fortuna investendo sull’avviamento di un’attività commerciale volta alla rivendita dei vinili, proprio come quelle che si trovavano fino agli anni Novanta, dove poter scegliere e acquistare i tanto ambiti 33 e 45 giri.

È ancora prematuro stabilire se il fenomeno sarà transitorio o se è destinato a crescere, fatto sta che attualmente il movimento è in evoluzione e di ciò ne siamo ben felici.

Nel periodo in cui esplose la diffusione del programma Napster numerosi esercenti furono costretti a malincuore a chiudere i battenti. All’inizio del nuovo millennio gli utenti prediligevano di gran lunga la musica cosiddetta “smaterializzata” dedicando il loro tempo a scaricare selvaggiamente sul proprio pc, talvolta illegalmente, intere discografie di qualsivoglia artista; ormai in pochi spendevano denaro per i CD e i dischi.

Riferendosi a quel preciso periodo storico, lo scrittore romagnolo Alessandro Casalini, già autore di volumi quali ZeroDecibiel (2017) e il Mago del Nulla (2018), ha pubblicato il romanzo Fedeli al Vinile - Una Divertente Commedia Umana a 33 giri.

La storia si svolge a Cesenatico all’interno del piccolo negozio di dischi VinylStuff gestito da Tata e Hi-Fi, due simpatici e a dir poco bizzarri personaggi. Il locale è paragonabile ad un Bar dello Sport - solo che lì si parla di calcio e non del mondo delle sette note - ed è frequentato da soggetti piuttosto stravaganti come Plutarco, che afferma di aver suonato con i Pink Floyd al concerto di Venezia del 1989, il Professore un ex insegnante di fisica convinto di essere Einstein e Marione che trova i suoi vinili preferiti con il suo proverbiale “tocco magico”.

Tata e Hi-Fi, però, rischiano seriamente di dover gettare la spugna e chiudere il loro amato esercizio perché impossibilitati a fronteggiare l’astro nascente di Napster e, come si sa, “Senza soldi non si canta Messa”. Sembrerebbe una situazione senza via d’uscita, ma sfruttando l’incredibile capacità di Hi-Fi, che consiste nel ricordare ogni singola uscita su vinile sia inglese che americana degli ultimi cinquant’anni (album, autore, data registrazione, etichetta, tracklist comprensiva della durata dei brani e formazione) una chance pare concretizzarsi all’orizzonte; tuttavia, è un susseguirsi di circostanze che darà una svolta clamorosa alla vicenda.

Non aggiungiamo altro se non il fatto che sarà determinante l’entrata in scena di una star del Rock!

Il libro, finalista alla seconda edizione di “Fai Viaggiare La Tua Storia”, è divertente, piacevole alla lettura ed è una chiara manifestazione di affetto di Alessandro nei confronti del vinile, come da lui stesso esplicitato nella parte relativa alle note e nei ringraziamenti. La sua scrittura è semplice, a volte un po’ piccante ma con gustosa ironia riesce a strappare al lettore più di un sorriso.

L’autore ha pubblicato nel 2020 un nuovo libro intitolato Febbre da Vinile - Una esilarante avventura ad alta fedeltà (Libro/Mania), ambientato negli U.S.A., con protagonisti Hi-Fi e Tata.




lunedì 21 giugno 2021

E... mi viene da pensare...

“La testa. C’è chi l’abbassa, chi la nasconde e chi la perde

 Io preferisco chi la usa “ 

(Rita Levi Montalcini)


21 giugno

Ci sarai sempre. Buon viaggio Capitano!

Wazza


Di Antonio Capitano…

Se la propria bacheca é anche una sorta di diario allora vorrei annotare un ricordo che riguarda un gruppo musicale. Siamo negli anni Ottanta e la musica italiana risentiva di notevoli influenze non sempre positive. L'esplosione delle emittenti radiofoniche permetteva una notevole fruibilità almeno nella quantità delle cose da ascoltare. Erano gli anni dell'autoradio estraibile che non doveva mancare in ogni automobile. Erano anche gli anni dei sistemi Hi Fi componibili. Con la nostalgia di quel vinile fatto suonare grazie a quella puntina che ci lasciava in panne proprio quando ci serviva.

In questo quadro un complesso innovativo si stava facendo strada. Un concerto del Banco era sempre una piacevole scoperta. Un genere musicale che si distingueva da quello melenso che riempiva spiagge e stanze. Il Banco era differente. La tastiera di Vittorio Nocenzi, la chitarra di Rodolfo Maltese e soprattutto la voce del “folletto” Francesco Di Giacomo permettevano di trascorrere una serata all'insegna della qualità musicale. Sembravano così lontani, eppure vivevano a due passi da casa mia. Gente di provincia e al tempo stesso così poco provinciali. Erano gli anni dei gruppi che sarebbero durati oltre la stagione dei successi. Le Orme, La PFM, i Nomadi ecc... ma il Banco a mio avviso aveva una marcia in più proprio grazie alla voce particolare e internazionale di Francesco. Voce che poteva spaziare in diversi generi con una potenza e dolcezza al tempo stesso. Il destino, purtroppo, si è accanito su questo gruppo e allora rimane tutto il ricordo e la nostalgia per quelle serate e anche quella chiacchierata al Bar Milleluci con quei “ragazzi” capaci di suonare veramente con passione ed entusiasmo che a distanza di anni… “mi viene da pensare”.

 




venerdì 18 giugno 2021

Deep Purple e PFM nel maggio del 1971...



C’è stato un tempo, quando ancora non esistevano i "talent", in cui i gruppi dovevano fare la "gavetta", aprendo i concerti di artisti stranieri o italiani, molto blasonati.

È quello che successe alla Premiata Forneria Marconi quando, nel 1971, introdusse i concerti di un gruppo considerato una icona del rock mondiale, i Deep Purple.

Nelle righe a seguire Franz di Cioccio racconta le "paure" del manager Sanavio, titubante nell’utilizzare un gruppo di giovani sconosciuti come “spalla” per la grande band inglese, nella serata di Bologna.

Poi si sa come è andata a finire!

Di tutto un Pop
Wazza

PREMIATA FORNERIA MARCONI 1971

                                           PREMIATA FORNERIA MARCONI
Bologna 1971 - Supporter ai Deep Purple

Anche fare da supporter ai gruppi stranieri fu una novità: non c'era nessuna tradizione in Italia. Cominciarono con i Procol Harum, poi ci furono gli Yes. Dopo queste prime esperienze da vere e proprie cavie musicali, il ruolo del supporter cominciò a delinearsi con più precisione anche nella colonia italiana. Naturalmente bisognava avere caratteristiche artistiche di provata autenticità, ma soprattutto bisognava distinguersi per faccia tosta. Forse la dote più richiesta era una attitudine gladiatoria, perché sul palco allora non si sapeva mai come poteva andare a finire. Il progressivo entusiasmo del pubblico, che attendeva con ansia la star della serata, poteva anche sfuggire di mano a chi organizzava i concerti.

E in questi casi al pubblico potevano sfuggire dalle mani lattine e gelati, quando andava bene, altrimenti sanpietrini - grandi protagonisti degli scambi di opinione nei surriscaldati anni '70.
Una bella scuola non c’è che dire. Erano tempi vitali, ma duri. Chi apriva lo spettacolo poteva ritenersi fortunato se riusciva a non farsi fischiare dal pubblico e a portare a casa sani e salvi gli strumenti. Fu in questo clima decisamente burrascoso che la PFM approdò a una delle svolte cruciali della carriera: il concerto con i Deep Purple che si svolse a Bologna nel '71.


Racconta Franz Di Cioccio…

C'erano diecimila persone in spasmodica attesa del grande gruppo di hard rock e noi eravamo lì ad aspettare che qualcuno ci presentasse. Ma il promoter della serata, Francesco Sanavio, di fronte a tanta calca, non sapeva che pesci prendere e, preoccupatissimo, ricadeva nella sua parlata originaria. "Io non esco ad annunciarve, ciò" diceva. "Prima dei Purple!... Con quel nome ridicolo! Cosa digo ciò, ecco la Premiata Forneria Marconi? Prima dei Deep Purple... Me masano, ciò... io non esco. Andate fori così, i’é afari vostri."

Non ci fu nulla da fare e così un tecnico di buon cuore si addossò la responsabilità di annunciarci in modo assolutamente casuale, mentre stava provando i livelli dei microfoni. Il nostro nome, ancora sconosciuto e assolutamente assurdo per l’epoca, risuonò come una sfida per il pubblico che si era riunito ad attendere Ian Gillan, Ritchie Blackmore e compagni già dal pomeriggio. Ma noi, convinti di avere tra le mani una grande occasione - era il primo concerto italiano di un mito consolidato del rock mondiale - sfoderammo tutta la grinta di cui eravamo capaci e salimmo come se niente fosse sul palco. Eravamo al buio, perché nessuno si era preso la briga di accendere le luci. 

Ci sbrigammo e in pochi attimi le note di "21th Century schizoid man" dei King Crimson esplosero dagli amplificatori avvolgendo la platea in un vortice di suoni che lasciò tutti senza fiato. Dopo qualche minuto di perplessità tutto filò liscio, tanto che parecchia gente incominciò a chiedersi quale fosse mai quella nuova e sconosciuta band inglese che stava aprendo con tanta maestria la serata. Queste voci giunsero naturalmente a Sanavio che, finalmente rincuorato, alla fine della nostra performance salì sul palco e sfoderò un tono soddisfatto da guascone. "Questi sono la Premiata Forneria Marconi" disse al microfono "sentirete ancora parlare di loro. "Fu buon profeta e quando diventammo famosi non dimenticammo quel memorabile debutto al buio. Così, ben consapevoli che quando sei alle prime armi le occasioni e gli spazi per poterti esibire non bastano mai, siamo sempre stati inclini ad una certa filantropia nei confronti degli artisti emergenti.

Tra i tanti artisti che in seguito aprirono i concerti italiani della Premiata Forneria Marconi ci sono stati: Finardi, Branduardi, Arti e Mestieri, Acqua Fragile, Fortis e perfino un giovanissimo Roberto Benigni, che si esibì in una serata a Grosseto. L’unica cosa che i nostri amici raccomandavano ai loro supporter era questa: "Dovete cavarvela da soli. Noi vi diamo lo spazio ma il resto dovete farlo voi.

1971 - 28 maggio - Roma - Deep Purple in concerto Palazzo dello Sport

PREMIATA FORNERIA MARCONI 1971



martedì 15 giugno 2021

15 E.L.P. a Genova (15 giugno 1972) e dintorni, di Agostino Rebaudengo

 


Di Agostino Rebaudengo


Se è vero quanto appurato tramite WaybackMachine, il 30 marzo 1972 gli Audience si esibirono al Teatro Alcione di Genova. Quello fu il primo concerto della mia vita.  Probabilmente E.L.P. a Genova, il 15 giugno 1972, fu il secondo concerto che ascoltai. Avevo 15 anni e i ricordi di quei tempi sono vaghi e sfumati. Per fortuna in rete si trovano informazioni impensabili, anche relative a eventi molto indietro nel tempo.

Emerson, Lake & Palmer esordirono due anni prima e nel ‘72 in Italia il progressive aveva già preso campo. Allora tra i ragazzi c’erano diverse fazioni musicali: hard-rock, west-coast, cantautori, progressive. Però c’erano anche gli appassionati trasversali, quelli che ascoltavano un po’ di tutto. Appartenevo a quella categoria. Sarebbe bello già soltanto ricordare come appresi la notizia del concerto. Manifesto? Carta stampata? Amici? Probabilmente amici, c’era sempre qualcuno più informato di me.

Per noi, prima dei 18 anni, c’era un solo modo per raggiungere Genova: il treno. Così ci imbarcammo con largo anticipo su un locale, presumo, allora gli odierni treni regionali si chiamavano così, partendo dalla bellissima stazione di Savona Letimbro, demolita poi dopo il 1977. Il largo anticipo era d’obbligo perché dalla stazione si doveva raggiungere a piedi il palazzo dello sport alla Fiera di Genova, fare il biglietto e correre poi dentro nella speranza di trovare una buona posizione da cui vedere il concerto. Non c’erano sedie, solo duro cemento. Però si vedeva bene il palco. Non so perché, ma non ho conservato il biglietto.

Ho ancora il biglietto dei Deep Purple che si esibirono nello stesso posto un anno dopo, ma niente E.L.P. Non ricordo neanche i miei compagni di avventura, potrei avanzare qualche ipotesi, ma non ho certezze. L’unica presenza certa era quella di Athos, perché quando Emerson imbracciò il ribbon, verso la fine del concerto, lui gridò con giovanile entusiasmo: “Il ribbon!!!”. Scoprii molto più avanti nel tempo che il ribbon, inteso come device musicale, non è altro che un “sensore tattile per controllare da remoto un Moog Sinthesizer”. Ma nella nostra mente di adolescenti era un misterioso strumento utilizzato solo da pochissimi geni musicali, una sorta di martello degli Dei. Per restare in tema, un po’ come il theremin usato da Jimmy Page in Whole Lotta Love durante i concerti live.

Non credo che il concerto fosse iniziato puntuale, non avveniva quasi mai, ma a un certo punto il boato ed eccoli lì. Movimenti di assestamento del pubblico e si inizia. Per quanto riguarda la scaletta mi affido a quanto leggo on line, e quindi dovrebbe essere: Hoedown, Tarkus, The Endless Enigma, Take A Pebble, Lucky Man, Piano Improvisations / Take A Pebble, Pictures At An Exhibition, Rondo / America.

La musica? L’acustica del palasport genovese è sempre stata pessima. La presenza di molte persone, mi sembra ricordare che fossimo in molti, attenuò un po’ il riverbero e l’esibizione filò via senza problemi. E.L.P. agli esordi erano grandissimi e con un bel repertorio. Poi l’entusiasmo giovanile e il mood dei primi anni ’70 fecero il resto.

Immagino il ritorno a casa denso di commenti e considerazioni interminabili, pregustando il racconto che avremmo fatto ai compagni di scuola il giorno dopo. Vorrei fare una sola considerazione, senza spocchia e scevra di nostalgia. I concerti di quegli anni erano senza prenotazioni, senza cellulari, no selfie, no logo. Si andava per la musica, da ascoltare con concentrazione. Certo, Emerson poteva anche infilare un coltello dentro all’Hammond e strapazzarlo avanti e indietro, ma era un grande musicista e non aveva un coreografo che gli suggeriva le movenze, né una scenografia hollywoodiana alle spalle. Era un altro modo di concepire e ascoltare la musica, irripetibile.

Un solo ultimo ricordo, per spiegare come erano allora i “divi” del prog. Ho trovato, sulla pagina di seguito linkata yastaradio, la data di un concerto che i Van der Graaf tennero ad Albenga in un loro tour italiano: era il 5 agosto 1972. Ovviamente eravamo andati lì un’ora buona prima dell’inizio o forse più. Peter Hammill aveva piazzato davanti al palco un tavolino da picnic con due sedie da campeggio. Sul tavolo c’era una scacchiera ed Hammill sfidava chi se la sentiva per una partita. Era fortissimo, stracciava tutti. A un certo punto, dopo l’ennesima vittoria, si alzò e dopo pochi minuti salì sul palco col resto del gruppo e il concerto iniziò. Davvero altri tempi.