www.mat2020.com

www.mat2020.com
Cliccare sull’immagine per accedere a MAT2020

lunedì 31 gennaio 2022

Beatles, Londra, 30 gennaio 1969


Londra, 30 gennaio 1969, i Beatles suonano per l'ultima volta insieme sul tetto della Apple Corps. Diventerà un’immagine iconica del XX secolo.

Di tutto un Pop…
Wazza


3 Savile Row, Londra W1. Era l’indirizzo del palazzo che nel 1969 ospitava la sede della Apple Corps. Non quella di Steve Jobs: quella dei Beatles. I quattro avevano comprato l’edificio il 22 giugno 1968 per 500.000 sterline. Cinque piani in cui lo staff della Apple si era trasferito dal luglio del 1968: uffici di vario ordine e grado, tra cui anche quello di un astrologo della società. C’era anche un terrazzo, identico a quello di un qualsiasi palazzo della zona. Ma è lì che, il 30 gennaio 1969, è cambiato tutto. È lì che prese vita il primo (o magari il più influente) gesto situazionista dell’epopea rock.


Ma andiamo per ordine. La mattina del 2 gennaio 1969 i Beatles diedero il via negli studi di Twickenham alle cosiddette Get Back Sessions, che li impegneranno per tutto il mese. A dicembre il loro Doppio bianco era arrivato in testa alle classifiche e, soprattutto, aveva ulteriormente allargato la percezione musicale della band. Ma non a costo zero: la genesi del disco aveva spalancato tra i quattro ferite fin lì appena visibili. I rapporti erano diventati elettrici, e non solo per colpa di Yoko Ono.


In questo clima, tra scatti d’ira e annunci di abbandono (sempre George) poi scongiurati, i Beatles dovevano decidere la location del loro show. La roulette delle ipotesi sembrava impazzita: l’anfiteatro romano di El Diem, il Grand Canyon, il Parlamento, la National Gallery. Parole d’ordine: dimenticare Twickenham, eseguire solo canzoni nuove. La decisione di suonare sul tetto di Savile Row iniziò a prendere forma qualche giorno prima dello show, quando i quattro erano saliti sul rooftop per fumare e prendere una boccata d’aria. L’attrezzatura fu piazzata la mattina stessa del 30 gennaio, con cineprese sistemate anche sulle terrazze di palazzi adiacenti. Si era pensato a una ripresa da un elicottero, ma sarebbe stato illegale. Quel giorno i Beatles sembravano incerti, e faceva un freddo cane.


Una volta preso il via, la band ritrovò la magia di sempre. Non suonavano dal vivo dal concerto di San Francisco, nell’ormai lontano 1966. Tre quarti d’ora, con l’aiuto del tastierista Billy Preston, che distrussero i concetti base dell’industria discografica. Quella del numero 3 di Savile Row non era una semplice esibizione: era il ritorno di una leggenda che si era consegnata al suo stesso mito, isolandosi negli studi tra nastri ed esperimenti. Ma soprattutto era l’esaltazione del “qui e ora”: suoniamo non perché qualcuno ce lo ha chiesto, ma perché lo vogliamo noi.

Lo show bloccò il traffico: la polizia fu tempestata da decine di lamentele per il frastuono. “Ricevemmo così tante proteste che dovemmo mandare qualcuno a controllare. Si scatenò una terribile ressa”. Ad assistere c’erano segretarie, impiegati, spettatori improvvisati e fortunati e una folla di curiosi sui marciapiedi. La scaletta comprendeva Get Back, Don’t Let Me Down, I Got a Feeling, One After 909, Danny Boy, Dig a Pony. 

Uno evento per pochi, non annunciato, allestito contro tutto e tutti. Un presagio di quello che sarebbe accaduto da lì a pochi anni, con il concerto sul battello dei Sex Pistols nei giorni del Giubileo della regina, lo scandalo e gli arresti, il punk e gli anni Ottanta, i rave e giù fino alle diavolerie dell’era social. Un segnale di libertà artistica con cui divenne impossibile non fare i conti, uno spettacolare salto mortale: i Beatles erano vissuti di live, poi li avevano abbandonati per i dischi e alla fine, per ritrovare spirito, armonia e senso di ribellione, li avevano riabbracciati stravolgendone il senso. Suonavano perché ne avevano bisogno, perché ridava senso al loro essere una band.

Alla fine di quei tre quarti d’ora sospesi nel tempo John Lennon fece per allontanarsi, poi tornò al microfono sorridendo: "Grazie a nome di tutto il gruppo e di ciascuno di noi: speriamo di aver passato l’audizione". Risate. Era una specie di profezia, i Beatles stavano cadendo a pezzi. Ma avevano riportato il live al centro della musica. Il loro ultimo grande regalo alla cultura dei decenni a seguire.

P.s.: Savile Row era una strada famosa per i suoi sarti. I Beatles aiutarono economicamente Tommy Nutter quando apri la sua boutique al n.35 il 14 febbraio 1969. Fu lui a cucire i vestiti che John, Paul e Ringo indossano sulla copertina di Abbey Road. The end.




Rosa Nocturna-"Andělé a Bestie". Commento di Fabio Rossi

 


Recensione di Fabio Rossi

 

Band:  Rosa Nocturna

Album: Andělé a Bestie

Genere: Symphonic/Power Metal

Anno:  2020

Casa discografica: Autoprodotto

 

Tracklist:

1.     Světlonoš (Lightbringer)
2.
Lékárník (Pharmacist)
3. Padám (Falling)
4. Touhy V Mlze (Desires In The Fog)
5. Strach (Fear)
6. Až Jednou (Once)
7. Lykantropie (Skinchangers)
8. Vetřelec (Intruder)
9. Dopisy Na Frontu (Letters To The Front)
10. Periculum
11. Skinchangers
12. Intruders
13. Outro

 


Line Up:

Petr Vosynek – chitarra
Tonda “Gabriel” Buček – chitarra
David Koudela – basso
Dan Havránek – batteria
Viktorie Surmová – voce
Mathias Novak – voce
Aneta Zatočilová – voce

 


Formatisi nel 2007 a Brno, i cechi Rosa Nocturna hanno pubblicato nella loro carriera tre album in regime di autoproduzione. L’ultima release, intitolata Andělé a Bestie,  risale al 2020 e segue cronologicamente Zapomenuté Příběhy, del 2016, e    Za Hradbami Času dell’anno seguente.

Il genere proposto permane ancorato al power metal sinfonico con venature folk e anche in questo caso, così come nei precedenti, pregi e difetti tendono ad equivalersi. Iniziamo col dire che ostinarsi ad auto prodursi equivale a ridurre considerevolmente la possibilità di affermarsi nel settore specie per una formazione dell’Europa dell’est. Si tratta di una scelta che al terzo disco non può essere più giustificata. Nel complesso la qualità della musica è valida, ricca di orchestrazioni sinfoniche, melodie e riff di chitarra convincenti. La band, peraltro, era salita alla ribalta con il bellissimo e significativo video di O lásce, o válce a o krvi (Of love, of war, of blood), splendida traccia melodica estrapolata dal loro secondo disco, per cui non so spiegarmi perché il gruppo non sia ancora sotto contratto con una major label. L’ostinarsi a proporre i brani in lingua ceca, fatta esclusione per Skinchangers e Intruders, non rende Andělé a Bestie facilmente assimilabile. Sappiamo tutti che l’inglese è una sorta di vestito su misura per il rock e il metal; da noi c’è chi storce il naso quando i testi vengono cantati in italiano, figuriamoci in un idioma così poco usuale come il ceco. Il nuovo lavoro, tutto sommato, è da promuovere specie per quanto concerne l’eccellente vocalism delle due ragazze. L’apporto della sezione ritmica e dei due chitarristi è efficace nell’ambito di un songwriting apprezzabile. 

La voce di Mathias Novak spicca di meno. Non esaltano le parti growl affidate a Petr Vosynek…. insomma, ho sentito di meglio. Lasciano a desiderare alcune scelte stilistiche sparse qua e là che inficiano un po’ la qualità complessiva del prodotto. I refrain evocativi, l’approccio folk melodico costituiscono saldi punti di forza, meglio si sarebbe potuto fare per quanto riguarda gli arrangiamenti. Insomma, alti e bassi si susseguono come in un sinusoide e alla fine dell’ascolto non si rimane del tutto soddisfatti. Tra i brani spiccano la dirompente opener Světlonoš, la folkeggiante Padám, la struggente Až Jednou, la granitica Vetřelec e la conclusiva Intruders il cui ritmo portante è davvero azzeccato. La plumbea Strach, altra perla, dimostra la versatilità di questa formazione. Lékárník dispone di un andamento armonioso e figurerebbe tra le composizioni migliori: il fatto è che all’improvviso compare il suono di una tromba che rovina tutto. Il resto è di buona fattura, ma non memorabile.

Nel genere c’è sicuramente di meglio, tuttavia credo che in futuro i Rosa Nocturna avvalendosi di una produzione migliore possano trovare il loro spazio nel rutilante mondo del metal.





domenica 30 gennaio 2022

Armaroli - Schiaffini 4tet - Monkish (’round about Thelonious), di Luca Paoli


Armaroli - Schiaffini 4tet - Monkish (’round about Thelonious) 

Dodicilune Records 2022

Di Luca Paoli


Ho avuto il piacere di poter ascoltare in anteprima - uscita avvenuta il 18 gennaio - Monkish (’round about Thelonious), del quartetto di Sergio Armaroli e Giancarlo Schiaffini,prodotto dall’etichetta pugliese Dodicilune.

L’album segue “Deconstructing Monk in Africa, del 2021, registrato solo in duo e contenente una sola suite dove improvvisazione, Africa e musica contemporanea europea si univano magicamente.

Giancarlo Schiaffini (trombone) e Sergio Armaroli (balafon cromatico e vibrafono) aggiungono un nuovo capitolo alla loro prolifica collaborazione tornando sulla musica di Thelonious Monk. Ma se nel precedente “Deconstructing Monk in Africa” (Dodicilune 2021), proponevano in duo una suite di quasi un'ora nella quale l’improvvisazione faceva da raccordo tra il pianista e compositore statunitense, l’Africa e la musica contemporanea europea, in questo disco i due musicisti e improvvisatori si esibiscono, affiancati da Giovanni Maier al contrabbasso e dallo sloveno Urban Kušar alla batteria, in dodici tra le più celebri composizioni monkiane (Friday The 13th, Bemsha Swing, Pannonica, Blue Monk, Misterioso, Crepuscule With Nellie, Blues Five Spot, Evidence, Raise Four, Oska T., Ba-lue Bolivar Ba-lues-are, Blue Hawk).

Dodici le tracce del repertorio Monkoniano, proposte in modo d’avvero originale. A sostituire il pianoforte ci pensano le percussioni (vibrafono e balafon) di Sergio Armaroli.

Il trombone di Giancarlo Schiaffini è l’altro tassello fondamentale del disco.

Ai due leaders si affianca la batteria piena di inventiva di Urban Kušar e il contrabbasso di Giovanni Maier, spesso in dialogo con il vibrafono e quindi non solo componete della ritmica.Blue Monk, Misterioso, Crepuscule With Nellie e Osaka sono tutti esempi di come il quartetto sia riuscito a dare un’interpretazione personale e nello stesso tempo originale all’opera di Monk.

Mi ha colpito in “Ba Lue Bolivar Ba Lues Are”, il notevole suggestivo dialogo del trombone col contrabbasso. Magia pura!

Immergetevi nelle note del magico Monk rilette con grande sensibilità ma anche originalità da questo stupendo quartetto e lasciatevi trasportare dalle note fino a quando non schiaccerete di nuovo il tasto play del vostro lettore.



Tracklist (cliccare sul titolo per l'ascolto)

1 - Friday The 13th

2 - Bemsha Swing

3 - Pannonica

4 - Blue Monk

5 - Misterioso

6 - Crepuscule With Nellie

7 - Blues Five Spot

8 - Evidence

9 - Raise Four

10 - Oska T.

11 - Ba-lue Bolivar Ba-lues-are

12 - Blue Hawk

 

All compositions by Thelonious Monk


Musicisti: 

Sergio Armaroli - vibraphone, chromatic balafon

Giancarlo Schiaffini - trombone

Giovanni Maier - double bass

Urban Kušar - drums, percussion

 




giovedì 27 gennaio 2022

"Dio – Rainbow in the Dark. L’autobiografia", commento di Fabio Rossi

 


Libro: Dio – Rainbow in the Dark. L’autobiografia

Autore: Ronnie James Dio con Mick Wall e Wendy Dio

Edizioni: Tsunami

Anno: 2021

Recensione a cura di Fabio Rossi

 

Ronald James Padavona, in arte Ronnie James Dio, è stato senz’ombra di dubbio uno dei cantanti più rilevanti dell’hard rock e soprattutto dell’heavy metal. La sua voce è immortalata in alcuni album di straordinaria bellezza, vere e proprie icone come Stargazer (Rainbow), Heaven and Hell (Black Sabbath) e Holy Diver (Dio). Dal mio punto di vista, nel campo prettamente metal, merita il podio a fianco di Rob Halford e Bruce Dickinson.

Ho avuto la fortuna di vederlo esibirsi dal vivo con i Black Sabbath all’epoca del tour a supporto di Dehumanizer e quel concerto mi è rimasto nel cuore. L’artista è deceduto a causa di un carcinoma il 16 maggio 2010 all’età di cinquantotto anni, una perdita enorme per la musica. Ronnie stava scrivendo la sua biografia che è rimasta purtroppo incompiuta. La vedova Wendy Dio, con la collaborazione del giornalista Mick Well, ha ordinato il materiale a disposizione, integrandolo ove necessario, con l’intenzione di pubblicare un libro il più possibile aderente a quelle che sarebbero state le intenzioni del marito. 



Dio – Rainbow in the Dark

L’autobiografia, edito in Italia dalla Tsunami, è il risultato di questo lodevole progetto. Il testo scorre piacevolmente ed è pieno di aneddoti interessanti: la curiosa origine del famoso gesto delle corna, diventato un marchio distintivo del popolo metallaro, che sua nonna usava fare spesso per cacciare il malocchio, come nacque la collaborazione con due assi della sei corde come Ritchie Blackmore e Toni Iommi, il modo come approcciò all’arte delle sette note suonando la tromba, fatto che poi si rivelò utile nel suo inimitabile modo di cantare, e tanto altro ancora. 

Il percorso di una vita avventurosa contrassegnato da eventi che indirizzarono la sua carriera artistica nel modo migliore possibile. Forse, rimanendo con gli Elf con i quali aveva già inciso tre album di moderato successo, non sarebbe mai diventato l’idolo di innumerevoli fan sparsi in tutto il mondo. La fortuna di entrare dapprima nei Rainbow e poi nei Black Sabbath segnò una svolta non solo nella sua carriera, ma anche in quella di Ritchie che riuscì a far meglio dei Deep Purple dell’epoca e di Toni che con i Black Sabbath stava vivendo un momento di stasi creativa. L’unico neo di questo libro è che si conclude con la pubblicazione del live Intermission del 1986. Manca, quindi, una notevole parte degli avvenimenti successivi che, seppur meno importanti, priva il lettore di tante chicche, tra le quali la genesi di gemme come Dream Evil (Dio) e The Devil You Know (Heaven & Hell) o del tour dei Deep Purple con l'orchestra e con lui ospite (suonarono anche al Forum di Assago). D’altronde, è un difetto che non poteva essere corretto in alcun modo e in quarta di copertina c’è giustamente riportato che “Questa autobiografia è uno sguardo intimo ed esaltante agli anni d’oro della sua carriera”, per cui chi acquista il libro sa in anticipo che non è stato possibile narrare tutta la storia. Siamo al cospetto di un testo che in ogni modo non può assolutamente mancare nella vostra collezione di saggi musicali. Complimenti alla Tsunami per l’iniziativa alla quale, però, faccio rilevare un’imperfezione nell’aletta di copertina in quanto Dio ha militato nei Black Sabbath negli anni Ottanta e non nei Settanta come erroneamente riportato.     

Ronnie con la moglie Wendy





mercoledì 26 gennaio 2022

"Darwin": il commento di Carlo Massarini

Hello Popolo del Prog,

“condivido” questo bellissimo articolo su “Darwin” e il mondo che lo circondava nel 1972, scritto dal mitico Carlo Massarini. Oggi con un telefonino, sono tutti “fotografi”, con la tastiera sono tutti “giornalisti” … prova, prova a pensare un po’ diverso!

Le foto le ho aggiunte io…

Di tutto un Pop.

Wazza

Nei primi anni ’70 in Italia c’è un big bang impressionante: da una parte i cantautori, dall’altra i nuovi gruppi. Il numero delle neonate rock band è incredibile, e la maggior parte sono sulla scia dei gruppi di progressive inglese, King Crimson (i primi) ed ELP, Jethro Tull e Yes e, sempre in alto nei nostri cuori, i Genesis e Gentle Giant: sarà per una certa vicinanza al classico europeo (il blues qui è proprio dall’altra parte dell’oceano), a quelle melodie ariose e romantiche, sarà perché il prog è un rock complesso ed evidentemente la nostra generazione era di cerebrali, ma i gruppi di successo di quegli anni avevano tutti l’etichetta progressiva. PFM, BMS, Trip, Orme, Balletto di Bronzo, Osanna, Arti&Mestieri e via svisando, ce ne sono cento e hanno la loro pagina su Wikipedia.

Ai tempi li avreste trovati nei circuiti alternativi, spesso tutti insieme in quei festival di musica pop che ogni municipalità un po’ moderna metteva in scena. Pischelli che ci provavano e virtuosi che uscivano freschi freschi da qualche conservatorio, chi amante del jazz e chi dei chitarroni elettrici, la fauna era nutrita e ben diversificata. È in uno di questi raduni-con-gara che si incontrano sei ragazzi di Roma e provincia. Da Marino vengono i fratelli Nocenzi, un già omone con barba da Moschettiere di nome Vittorio e il minore, babyface Gianni. Il dio dei Castelli (chiunque Egli sia) gli ha fatto dono di dieci dita da prestigiatori delle tastiere: Gianni rigorosamente al piano, finalmente tutto quello studiare serve a qualcosa, e Vittorio dietro organo Hammond e tastiere varie e una paretina di valvole e fili e manopole che allora voleva dire sintetizzatore, generalmente il Moog. Sono l’unico gruppo italiano con due tastieristi, e non è che ce ne siano comunque molti al mondo, ricordo solo Argent e Procol Harum.

Al secondo Festival Pop di Caracalla con una prima formazione va male, ma nel backstage scoccano amicizie. A fare le prove nella stalla riadattata di casa Nocenzi arrivano Pierluigi Calderoni alla batteria, Marcello Todaro alla chitarra, Renato D’Angelo al basso, e un gentle giant dalla barba nera, un bel girovita e una bellissima voce. Francesco di Giacomo, anche lui dai Castelli, è un personaggio unico, è l’elemento distintivo, quello che – con un’alchimia che sa di vino e bruschetta, ma in verità raffinatissima – crea la formazione più originale di tutto il prog italiano.

Il Banco è totalmente originale. Fai fatica a trovare una controparte inglese, non assomigliano a nessuno, senti appena degli accenti – ma la materia non può che essere comune – dei dischi inglesi di quegli anni, veri programmi scolastici per studenti progressivi.

La verità è che nessuno ha una doppia tastiera e un cantante così, nessuno ha quel dono di fondere rock e melodramma, jazz e poesia, ispirazione e virtuosismi classicheggianti (ai tempi obbligatori) e spirito sanguigno quando serve alzare ritmo e compattezza. Vittorio è il principale compositore, cresciuto a Beatles (soprattutto “Sgt Pepper”) e musica classica: Bach e Chopin, la musica sinfonica dell’800, Beethoven e Tchaikoswski, la musica del 900 americano come Aaron Copeland e le poliritmie etno/classiche dell’ungherese Bela Bartok. E il prog inglese?

«Li ho sentiti dopo!», mi racconta Nocenzi Sr. alla vigilia del suo 70esimo, passato come sempre a suonare e incidere, «noi stavamo a soli 20 km da Roma, ma era un mondo lontano. Non c’erano negozi di dischi, il prog inglese l’ho sentito solo dopo che avevamo già fatto i nostri. Grande impressione mi fece “Atom Heart Mother”, ma è inevitabile che, se i Gentle Giant o i Genesis o altri avevano ascoltato le stesse cose, ci fossero dei passaggi simili. Io componevo con in mente la struttura della musica sinfonica, che permetteva di far tornare un tema in un’altra tonalità, e riconnettersi con il precedente, in modo circolare. Scrivevo musica complessa che cercavamo di mantenere fresca e immediata. Ma che fatica, in mezzo a tutti quei tempi dispari, a trovare una metrica per il testo, con le parole plurisillabiche italiane! Io e Francesco insieme, bel mal di pancia, col rischio di cadere da un contenuto alto nella banalità, e ritrovarsi con un pugno di mosche».

Assolutamente italiani, e puramente progressivi.

Il Banco fra il 1972 e il ’73 pubblica tre album, è pazzesca la quantità di creatività che viene riversata su vinile. I primi due sono capolavori, il terzo “Io sono nato Libero” quasi. Il primo, semplicemente “BMS”, copertina originale a salvadanaio da collezionisti, è l’irruzione sulla scena con il ritmo dispari martellante di ’R.I.P.’ e quel lungo viaggio fantasy che è ’Il Giardino del Mago’.

Il secondo, “Darwin”, è il nostro contributo all’allora fiorente moda dei dischi concettuali, inaugurata dagli Who con “Tommy” nel ’69, terreno stimolante ma anche scivoloso sul quale il rischio è fare figure barbine. Il tema scelto è suggestivo, intrigante, ma anche complesso e sentiero difficile sul quale incamminarsi: una riflessione sull’evoluzione dal punto di vista darwiniano, ovvero le specie frutto di una lentissima evoluzione, lasciando al pensiero religioso – l’Eden, Adamo ed Eva, il peccato originale, la Creazione – il ruolo di metafora: «Darwin era un religioso, ma riteneva che il valore della trasposizione allegorica fosse esclusivamente di tipo divulgativo, come nelle favole, più facili da introiettare attraverso una metafora».

Da un punto di vista musicale la costruzione è sontuosa, 47’ in cui trovare una varietà di temi e di soluzioni di alto livello, ma quello che dà all’opera una profondità definitiva sono i testi di Francesco di Giacomo, filtrati da una ispirazione poetica che riveste di umanità questo lunghissimo viaggio, dai batteri alle prime forme di vita fino ai primi uomini e la prima consapevolezza. Big, questo il suo nickname, si rivela un autore eccellente, che sa far volare la fantasia e riportarla a terra, tanto che i testi – cosa rara – stanno in piedi anche da soli, senza musica.

E, non dimentichiamo, siamo in un paese cattolico (e 50 anni fa), in cui il creazionismo rimane ancora – per quanto scientificamente ormai superato – un caposaldo della nostra religione. Francesco ribalta la visione, e ci porta in un mondo visuale, dove ogni parola proietta immagini e scenari, significati e protagonisti.


“Prova, prova a pensare un po’ diverso

Niente da grandi dei fu fabbricato

Ma il creato s’è creato da sè

Cellule fibre energia e calore..

…Strati grigi di lava e di coralli

Cieli umidi e senza colori

Ecco il mondo sta respirando

Muschi e licheni verdi spugne di terra

Fanno da serra al germoglio che verrà”


L’inizio è leggero, un’aria cosmica che soffia su scenari da brodo primordiale. Un Hammond sottile ci ha accolto nella capsula del tempo poi, come se arrivasse una tempesta di tuoni e saette, quando tutta la band entra ci catapulta a miliardi di anni fa con il classico sincopato che è il loro marchio di fabbrica: la vita animale si sta creando, cellule si uniscono, l’evoluzione porta questi esseri dall’acqua alla terra…


“Informi esseri il mare vomita

Sospinti a cumuli su spiagge putride

I branchi torbidi la terra ospita

Strisciando salgono sui loro simili

E il tempo cambierà i corpi flaccidi

In forme utili a sopravvivere”


Il certificato-prog arriva subito dopo, nel lungo interludio in cui si intrecciano tastiere su pianissimi e fortissimi che strappano via. Poi si ricomincia, come se il viaggio fosse ripartito di colpo. E alle fine di questo percorso che sorprende e stordisce, l’uomo moderno guarda indietro, il presupposto scientifico spazza via ogni leggenda:


“E se nel fossile di un cranio atavico

Riscopro forme che a me somigliano

Allora Adamo no non può più esistere

E sette giorni soli son pochi per creare

E ora ditemi se la mia genesi

Fu d’altri uomini o di un quadrupede

Adamo è morto ormai e la mia genesi

Non è di uomini ma di quadrumani”.


Siamo ancora ben lontani dalla fine di questa suite di 18’ (fortunatamente non definita tale), c’è l’inserimento di una fuga alla Bach all’organo mentre il pianoforte arpeggia e il basso s’impenna. Il finale ha la maestosità classica (ma suonata rock) di certi finali dei Procol Harum, poi rallenta per un attimo, lo sguardo va al cielo dove “alto arabescando un alcione stride sulle ginestre e sul mare”.

La vita è sbocciata, il passaggio da quadrumane a bipede sono milioni di anni riassunti in pochi minuti. Il tono lo conduce e lo porta lontano il moog, con brusche accelerate di ritmica e organo, le due tastiere si intrecciano, siamo in una masterclass alla facoltà di musica progressiva. Poi tutto si cheta, e si percepisce quasi fisicamente lo sforzo, i tentativi falliti e infine “la conquista della posizione eretta”:


“Potessi drizzare il collo oltre le fronde

E tener ritto il corpo opposto al vento

Io provo e cado e provo

E ritto sto per un momento…”


Dopo la tensione drammatica di questo inizio alquanto folgorante, si gira il disco (facciamo finta) e arriva un momento, se vogliamo, di relax. Per un brano l’uomo riposa e il proscenio è conquistato dai dinosauri e dagli altri animali poderosi che solcavano la terra. Per quello che possiamo sapere, siamo sfasati nella sequenza temporale dinosauri/uomo, ma “non avevamo pretese scientifiche, volevamo solo l’evocazione, l’emozione, elevare a metafora il paradigma biologico”, dice Vittorio. Il brano è qualcosa di completamente diverso di atmosfera, insolito a latitudini progressive, un cool jazz swingante, la ’Danza dei Grandi Rettili’.

Arriva poi il momento in cui l’ominide che si trova in un mondo inesplorato, selvaggio, scopre la forza che può dare la comunità dei consimili. Il branco può dare sicurezza, può proteggere e cacciare, sono i prodromi della socialità, della condivisione, ’Cento mani e cento occhi’ uniti. Il nostro inconsapevole antenato incontra un capobranco, che lo introduce al gruppo che si è aggregato intorno a lui:


“La nostra forza è in cento mani

E cento occhi fanno a noi la guardia

Tu sei da solo

Tu ora se vuoi puoi andare

Oppure restare e unirti a noi…”


Eppure, alla fine, il paradosso che regola ancor oggi la nostra società fa capolino, insinua un dubbio, una scelta a cui tutti noi andiamo inevitabilmente incontro, prima o poi. La sicurezza del branco da una parte, la voglia di individualità, di libertà, “la voglia di fuggire che mi porto dentro” dall’altra. Sliding doors ante-litteram.

’750.000 anni fa…l’amore?’ è una meraviglia assoluta, di quelle che ’scioglie il sangue dent’evvene, sai”, come cantava Dalla. Uno dei brani più toccanti della musica italiana, un arpeggio romantico di Gianni al pianoforte che si allarga in una sonata che non ha neanche bisogno di un videoclip, è vita ancestrale che scorre davanti agli occhi, il nostro antenato che da lontano guarda un gruppo di ominidi probabilmente un po’ più avanti nella scala dell’evoluzione, come la scienza ormai conferma:


“Già l’acqua inghiotte il sole

Ti danza il seno mentre corri a valle

Con il tuo branco ai pozzi

Le labbra secche vieni a dissetare

Corpo steso dai larghi fianchi

Nell’ombra sto, sto qui a vederti

Possederti, si possederti… possederti…”


Come è possibile? Un primate che avverte la consapevolezza del desiderio, e insieme quella di essere in uno stato meno evoluto, che manifestandosi creerebbe paura e turbamento…


“…Ed io tengo il respiro

Se mi vedessi fuggiresti via

E pianto l’unghie in terra

L’argilla rossa mi nasconde il viso

Ma vorrei per un momento stringerti a me

Qui sul mio petto

Ma non posso fuggiresti fuggiresti via da me

Io non posso possederti possederti

Io non posso fuggiresti

Possederti io non posso…

Anche per una volta sola”


Lui vorrebbe stendere veli di foglie per lei e danzare insieme sotto la luna, “ma il labbro inerte non sa dire niente”. Il suo desiderio è più avanti del suo linguaggio, e la dicotomia fra mente e fisico è struggente. Francesco canta con tale emotività che non puoi far altro che calarti nei suoi panni, nel suo corpo tozzo di muscoli e peli, una prima passionale storia d’amore nel momento in cui l’istinto accoglie un primo sentimento. Non può far altro, lui così inadeguato, così tormentato dall’irraggiungibile miraggio, che osservarli da lontano, loro e quella Lucy che ha amato a prima vista. Si può chiamare amore? Chi lo sa, neuro-biologicamente, ma lo slancio è così potente che…


“Si è fatto scuro il cielo

Già ti allontani resta ancora a bere

Mia davvero ah fosse vero

Ma chi son io uno scimmione

Senza ragione senza ragione senza ragione

Uno scimmione fuggiresti fuggiresti

Uno scimmione uno scimmione senza ragione

Tu fuggiresti, tu fuggiresti…”.


Impossibile ricavalcare un’emozione del genere, e allora gli ultimi due brani sono tutt’altra cosa: ’Miserere alla Storia’ ha al suo interno tanti temi e mood diversi, e al centro Vittorio con voce effettata e stranita declama un’ode alla miseria umana, alla sua ambizione sfrenata, quando si perde il senso della storia, dell’evoluzione:


“Gloria a Babele

Rida la Sfinge ancora per millenni

Si fabbrichi nel cielo fino a Sirio

Schiumino i cavalli sulla Via Lattea

Ma quanta vita ha ancora il tuo intelletto

Se dietro a te scompare la tua razza?”


Il finale è affidato a una musica totalmente diversa, un valzer popolare che sa di giostre e di circo, un tocco felliniano che ci riporta a casa, lasciandoci però con la certezza che, alla fine, il nostro limite invalicabile è il tempo, sinonimo sia di evoluzione che di mortalità. 


“Ruota eterna ruota pesante

Lenta nel tuo cigolio

Stai schiacciando le mie ossa e la mia volontà…

Ah ruota gigante

Perché dunque mi fai pensare

Se nel tuo girare

La mente poi mi frenerai

Va la ruota va

Un colpo non lo perde mai…”


Fine della storia, della allegoria che, come sempre, è solo l’inizio o il proseguimento di un’altra.

Questo album, come avrete capito, è un’avventura sonora e concettuale straordinaria. L’unico limite è il suono: quello del ’73, con le sole classiche otto piste di allora, è inciso un po’ piatto, batteria perduta al piano di sotto, senza dinamica. Tanto che il Banco, con altre formazioni, Gianni andato via e Vittorio unica tastiera, l’ha ripubblicato due volte: la prima nel ’91, suono trasparente e muscolare, batteria sbattuta in faccia, e nel 2013, quando sono stati ripubblicati entrambi i primi due Lp in versione deluxe: un live del 2012 + l’originale rimixato e rimasterizzato. La prima volta ha sempre quel non so che, gli altri fotografano bene non solo i cambiamenti del Banco, ma anche l’evoluzione (darwiniana anch’essa, in fondo) delle tecnologie di registrazione e post-produzione.

Per afferrare fino in fondo, per chi non c’era, il senso pionieristico di “Darwin” bisognerebbe riascoltarlo con le orecchie di ieri, quando gli anni ’70 erano ancora tutti da scoprire, le ambizioni alte, e il risultato da mettere in prospettiva storica. Vittorio, uomo trabordante di energia ancora oggi, totalmente dentro la sua musica e a modo suo vero survivor, guarda indietro: «Credo che quando è nato il progressive sia stato un esperimento d’avanguardia, perché la musica, come qualunque cosa, va messa nel contesto in cui nasce. Noi pensiamo a Caravaggio come un classico, ma quando Caravaggio ha dipinto i propri quadri è stata una rivoluzione incredibile. Lui ha pensato alla luce elettrica, ai tagli teatrali di nero e bianco quattrocento anni prima che Edison scoprisse la lampadina. Se oggi lo vediamo come un classico, allora era avanguardia, un innovatore. Il Banco oggi è un classico, siamo stati però sicuramente avanguardia, profonda avanguardia. Chiaramente, questo ci ha reso la vita difficile per certi versi, ma ci ha dato un respiro lungo per altri. 

Carlo Massarini

 





lunedì 24 gennaio 2022

Hell Raiders-"First Race", di Fabio Rossi


Commento di Fabio Rossi

Album: First Race

Band: Hell Raiders

Genere: Heavy Metal 

Anno: 2019

Casa discografica: Volcano Records & Promotion


Line Up:

Dave Jolly (Davide Girardi): voce

Richard Crowley (Riccardo Marcassa): chitarre 

Angelo Cislaghi: batteria 

Caty Van Alchemy (Caterina La Chimia): basso

 
             
                                      
Tracklist:

1.     Turbolizer 

2.     Ghost Rider 

3.     Soldier of Steel 

4.     Dragon Power 

5.     Mechanics Armada

6.     Destination Mankind 

7.     Queen of Death 

8.     Aviator

9.     B.T.K. 

10.   Beyond Death


First Race, album di debutto degli italo/svizzeri Hell Riders, ha avuto la sventura di venire alla luce alla fine del 2019, a ridosso dell’incombente pandemia che ha cambiato la vita di tutti noi da due anni a questa parte. In pratica, non c’è stata la possibilità di promuoverlo in sede live, la dimensione in cui una band dedita al più viscerale heavy metal ha la possibilità concreta di esprimersi al meglio e farsi conseguentemente conoscere. Per realizzare un disco come questo occorre energia, dedizione e sacrificio, oltre alla passione naturalmente, ed è un peccato che passi inosservato. È giusto, quindi, parlarne anche se è passato del tempo nella considerazione che si lascia gradevolmente ascoltare e contiene alcune composizioni degne di nota. E’ evidente la voglia di affondare le proprie radici nell’epoca d’oro, quando il metal imperava grazie a Motorhead, Saxon, Iron Maiden, Judas Priest, Black Sabbath, e nell’analizzare i brani ho trovato più di qualche riferimento ai mostri sacri degli anni ottanta. Ciò non è da reputare come un fatto negativo perché gli Hell Raiders sono convincenti e si rileva la ricerca di una propria dimensione artistica che sono certo potrà essere sviluppata in futuro. 

Ho qualche perplessità sul lavoro in sede di registrazione perché con i mezzi a disposizione c’è la possibilità di incidere con una qualità che qui manca. Sembra come se il disco fosse stato realizzato anni addietro e non all’alba del 2020, almeno tale è la mia sensazione, ma può anche darsi che l’intenzione di questi ragazzi sia stata proprio quella di voler ricercare una certa ruvidità a scapito di un sound più cristallino. 

La grinta non manca di certo, come dimostra l’irruenza della title track che sembra saltata fuori da un album di Lemmy e compagni o la maideniana Soldier of Steel. Nella splendida Ghost Raider colpiscono il granitico riff portante e un bell’assolo alla sei corde sciorinato da Richard, mentre Dragon Power ha un andamento nel complesso più disincantato. Il grezzo mid-tempo posto alla base di Machanics Armada è invitante nel suo incedere. Destination Manking è inizialmente malinconica, sembra il preludio a una ballata… sbagliato! Gli Hell Raiders tornano a sfrecciare veloci con le loro motociclette infernali nel contesto di una traccia metal in cui a porsi in evidenza è il vocalism di Dave. La furiosa Queen of Death dispone di un valido tema portante; ad eccellere un assolo di chitarra cucito su misura su una ritmica adrenalinica. In Aviator la band dà il meglio di sé: l’apertura è affidata a un fraseggio di chitarra pulito e arioso nel quale si innestano efficacemente il basso della brava Caty e la batteria; la traccia si snoda su un tema azzeccato con il gruppo che si esprime alla grande e la chicca è l’assolo di chitarra veramente ben concepito e ai limiti dello stoner. L’esplosiva B.T.K., consiglio la visione del video, e la conclusiva micidiale Beyond Death, che mi ha rammentato con piacere i primi lavori dei Saxon e degli Iron Maiden, chiudono un lavoro interessante. La formazione, nel frattempo è cambiata con l’innesto di Bobo alle pelli, Sara Ceruti al basso e Dalto alla chitarra solista. Attendiamo news!  Heavy Metal is the law!