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lunedì 20 gennaio 2025

JC Cinel – “Where the river ends”-Commento di Alberto Sgarlato

 


JC Cinel – “Where the river ends”

(Andromeda Relix / Black Widow, 2024)

di Alberto Sgarlato


JC Cinel è un nome ben noto agli amanti del rock più sincero e sanguigno: qualcuno lo ricorderà negli anni ‘90 come frontman, chitarrista e cantante dei Wicked Minds. Ma quello è il passato, ormai: e Cinel si è fatto apprezzare nel frattempo con tre ottimi album solisti, nell’arco del Nuovo Millennio.

Nell’estate del 2024, svoltato il giro di boa dei 50 anni (dei quali oltre 30 di carriera artistica), JC ha degnamente celebrato la “cifra tonda” consegnando alle stampe il quarto titolo a suo nome.

Ed ecco dunque arrivare “Where the river ends”, contenente la bellezza di 12 tracce (alcune delle quali anche molto lunghe).

E in esse il DNA “cineliano” (passateci il neologismo), lo ritroviamo tutto, espresso ai massimi livelli. A cominciare dalla poderosa partenza di “City lights”, trascinante street-rock che evoca il sound anthemico di gruppi come gli Styx di “Blue collar man” o i Foreigner di “Feels like the first time”, tra momenti più scanditi e goduriose aperture melodiche.

Oblivion” vira su tutt’altri territori e improvvisamente profuma di funk, con le sue chitarre stoppate wah-wah, il suo basso mixato bello alto e il gran lavoro di Hammond in primo piano. Ma ovviamente è sempre un funk incattivito dal blues e dall’hard rock (se proprio vogliamo cercare forzatamente delle coordinate, potremmo trovarle nei Deep Purple del periodo Hughes/Coverdale).

In “Feels like stangers” sembra quasi che Cinel abbia “imprigionato” (il gioco di parole qui è d’obbligo) nella sua chitarra tutti quei grandi che hanno portato le sei corde oltre i confini del blues (da Hendrix, a Jeff Beck, a Stevie Ray Vaughan), il tutto però al servizio di una raffica di ritornelli fatti apposta per essere cantanti urlando tutti in coro, trascinanti e melodici.

Mindmaze / Red-Handed”, con i suoi sei minuti, è strutturata come una sorta di mini-suite, con una prima parte acustica che evoca certi godibili “soliloqui” di Lifeson nei primi Rush e una seconda parte al sapor di power-ballad, cosmica e psichedelica, ancora tra Rush e Blue Oyster Cult.

Un’armonica a bocca grondante blues ci accoglie in “Asylum 22”, un’altra delle tracce nelle quali JC fa quello che gli riesce meglio: del sano, caldo e avvolgente rock’n’roll, seppur impreziosito da sempre vivaci e imprevedibili cambi di tempo.

Burning flame”, con i suoi circa 9 minuti e la sua introduzione fatta di sibili elettronici e lunghi riverberi, è uno dei capitoli più “progressiveggianti” dell’intero disco. Ancora una volta un prog intriso di hard e psichedelia (si potrebbe persino pensare allo Steve Hillage dei primi album solisti o addirittura, prima ancora, dei Khan). Anche in questo caso, continue sorprese, tra inaspettate aperture “cantabili” e momenti più rarefatti.

Altra goduriosa “cavalcata” tra hard e prog è “How far we shine”, alle soglie dei 7 minuti di durata, caratterizzata, come è cifra stilistica di un po’ tutto l’album, da repentini cambi, più elettrici e più acustici, più energici e più atmosferici.

Altro delizioso “soliloquio acustico” psych/prog è “Karakal lost in Shangri-La”, perfetta “Quiete prima e dopo la tempesta” tatticamente piazzato tra la variegata (già menzionata) “How far we shine” e lo struggente, commovente jazzy-bluesy-prog di “Strangers”, uno dei picchi dell’album.

Il poderoso e indomabile AOR/pomp della traccia iniziale lo ritroviamo verso la fine del disco nella grandiosa “Thank God i was alone”, dove i duelli tra riff di chitarra e slide guitar al sapor di Uriah Heep faranno battere il piedino all’ascoltatore. E siamo di fronte a un’altra delle tracce più “infuocate”, a riprova del fatto che quanto JC scatena la sua anima rock più genuina offre il meglio di sé.

Il drumming tribale che introduce “Which side are you on? serve da rampa di decollo per un altro capitolo di grandissimo hard rock, impreziosito straordinarie armonizzazioni di più chitarre sovrapposte, nelle ritmiche e nelle melodie. Ma anche il lavoro basso/batteria che sorregge divinamente tutta l’intelaiatura del brano, non è certo da meno!

E salutiamoci con la title-track: altri 8 intensi minuti nei quali JC Cinel svela una volta di più la sua capacità di scrivere melodie cantate suadenti e grandi aperture strumentali, tra momenti più soffusi e altri più hard. E anche stavolta psichedelia, hard, blues e prog si sposano in un connubio perfettamente equilibrato, come ingredienti dosati con sapienza in una ricettina vincente.

Quindi, parafrasando il titolo: “Dove finisce il fiume?” Visto che JC Cinel è un fiume in piena di creatività, speriamo che le sue onde continuino a sgorgare a pieno regime per molto, molto tempo!

 

 

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