JC Cinel – “Where the
river ends”
(Andromeda Relix / Black Widow, 2024)
di Alberto Sgarlato
JC Cinel è un nome ben noto
agli amanti del rock più sincero e sanguigno: qualcuno lo ricorderà negli anni
‘90 come frontman, chitarrista e cantante dei Wicked Minds. Ma quello è il
passato, ormai: e Cinel si è fatto apprezzare nel frattempo con tre ottimi
album solisti, nell’arco del Nuovo Millennio.
Nell’estate del 2024, svoltato il giro di boa
dei 50 anni (dei quali oltre 30 di carriera artistica), JC ha degnamente
celebrato la “cifra tonda” consegnando alle stampe il quarto titolo a suo nome.
Ed ecco dunque arrivare “Where the river ends”, contenente la bellezza
di 12 tracce (alcune delle quali anche molto lunghe).
E in esse il DNA “cineliano” (passateci il
neologismo), lo ritroviamo tutto, espresso ai massimi livelli. A cominciare
dalla poderosa partenza di “City lights”, trascinante street-rock che
evoca il sound anthemico di gruppi come gli Styx di “Blue collar man” o i
Foreigner di “Feels like the first time”, tra momenti più scanditi e goduriose
aperture melodiche.
“Oblivion” vira su tutt’altri
territori e improvvisamente profuma di funk, con le sue chitarre stoppate
wah-wah, il suo basso mixato bello alto e il gran lavoro di Hammond in primo
piano. Ma ovviamente è sempre un funk incattivito dal blues e dall’hard rock
(se proprio vogliamo cercare forzatamente delle coordinate, potremmo trovarle
nei Deep Purple del periodo Hughes/Coverdale).
In “Feels like stangers” sembra quasi
che Cinel abbia “imprigionato” (il gioco di parole qui è d’obbligo) nella sua
chitarra tutti quei grandi che hanno portato le sei corde oltre i confini del
blues (da Hendrix, a Jeff Beck, a Stevie Ray Vaughan), il tutto però al
servizio di una raffica di ritornelli fatti apposta per essere cantanti urlando
tutti in coro, trascinanti e melodici.
“Mindmaze / Red-Handed”, con i suoi
sei minuti, è strutturata come una sorta di mini-suite, con una prima parte
acustica che evoca certi godibili “soliloqui” di Lifeson nei primi Rush e una
seconda parte al sapor di power-ballad, cosmica e psichedelica, ancora tra Rush
e Blue Oyster Cult.
Un’armonica a bocca grondante blues ci
accoglie in “Asylum 22”, un’altra delle tracce nelle quali JC fa quello
che gli riesce meglio: del sano, caldo e avvolgente rock’n’roll, seppur
impreziosito da sempre vivaci e imprevedibili cambi di tempo.
“Burning flame”, con i suoi circa 9
minuti e la sua introduzione fatta di sibili elettronici e lunghi riverberi, è
uno dei capitoli più “progressiveggianti” dell’intero disco. Ancora una volta
un prog intriso di hard e psichedelia (si potrebbe persino pensare allo Steve
Hillage dei primi album solisti o addirittura, prima ancora, dei Khan). Anche
in questo caso, continue sorprese, tra inaspettate aperture “cantabili” e
momenti più rarefatti.
Altra goduriosa “cavalcata” tra hard e prog è
“How far we shine”, alle soglie dei 7 minuti di durata, caratterizzata,
come è cifra stilistica di un po’ tutto l’album, da repentini cambi, più
elettrici e più acustici, più energici e più atmosferici.
Altro delizioso “soliloquio acustico”
psych/prog è “Karakal lost in Shangri-La”, perfetta “Quiete prima e dopo
la tempesta” tatticamente piazzato tra la variegata (già menzionata) “How
far we shine” e lo struggente, commovente jazzy-bluesy-prog di “Strangers”,
uno dei picchi dell’album.
Il poderoso e indomabile AOR/pomp della
traccia iniziale lo ritroviamo verso la fine del disco nella grandiosa “Thank God i was alone”, dove i duelli tra riff di chitarra e slide guitar al
sapor di Uriah Heep faranno battere il piedino all’ascoltatore. E siamo di
fronte a un’altra delle tracce più “infuocate”, a riprova del fatto che quanto
JC scatena la sua anima rock più genuina offre il meglio di sé.
Il drumming tribale che introduce “Which side are you on?” serve da rampa di decollo per un altro capitolo di
grandissimo hard rock, impreziosito straordinarie armonizzazioni di più
chitarre sovrapposte, nelle ritmiche e nelle melodie. Ma anche il lavoro
basso/batteria che sorregge divinamente tutta l’intelaiatura del brano, non è
certo da meno!
E salutiamoci con la title-track:
altri 8 intensi minuti nei quali JC Cinel svela una volta di più la sua
capacità di scrivere melodie cantate suadenti e grandi aperture strumentali,
tra momenti più soffusi e altri più hard. E anche stavolta psichedelia, hard,
blues e prog si sposano in un connubio perfettamente equilibrato, come
ingredienti dosati con sapienza in una ricettina vincente.
Quindi, parafrasando il titolo: “Dove
finisce il fiume?” Visto che JC Cinel è un fiume in piena di creatività,
speriamo che le sue onde continuino a sgorgare a pieno regime per molto, molto
tempo!
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