Sono tante le giornate che ho sprecato
quante volte incosciente e disperato
aspettando che il domani fosse lui, e lui da
solo
a risolvermi i problemi, ad offrirmi le
occasioni
(Francesco Di Giacomo)
21 giugno
Ci sarai sempre. Buon viaggio Capitano
Wazza
“C’è il Banco del Mutuo Soccorso al festival della FGCI! Cazzo, và che manifesto!”. Che poi è la copertina di ‘Banco’, il primo album inglese del gruppo, con la famosa foto in bianco e nero di Francesco Di Giacomo che lancia in aria una scarpa, ma il mio amico Zante non lo sa. Non li abbiamo mai visti dal vivo: PFM, Area e altri sì e più volte, ma il Banco no: sono una “cosa di Roma”, a Milano si sono visti poco. Ma hanno suonato tanto in casa mia, con ‘Darwin!’ avanti e indietro sullo stereo, grazie a una copia prestatami da un compagno di banco sì, ma non del loro, visto che li amava come un gatto ama il limone. A colpirmi era stata prima la grafica – a un passo di quelle della Cramps di Gianni Sassi – e l’idea alla base del disco, uno dei primi concept album di primo piano. Poi, la musica. Pezzi come “La conquista della posizione eretta” non sono pane e nutella per un ragazzino di 15 anni, ma i tempi erano molto diversi e una larga fetta del pubblico del prog rock viaggiava intorno a quell’età, per quanto possa sembrare incredibile. Così, ‘Darwin’ era l’unico disco che conoscevo bene del gruppo. Sì, “gruppo”. Band? E chi la usava, quella parola?
Arriviamo nel pomeriggio. Parco Ravizza, un sole quasi agostano che picchia come un katanga. Platea di sedie di legno vuote, non c’è nessuno, solo io e Zante. Mancano sei ore all’inizio del concerto, è il mio primo sound check di un gruppo famoso, tutto mi fa un’impressione enorme. Pierluigi Calderoni prova i suoni fragorosi della sua batteria; Gianni Nocenzi, sciarpa di seta al collo, seria aria bohemien, fa in fretta: un paio di minuti e il suo piano verticale è a posto. Il mega crinieruto e baffutissimo tecnico di palco è di una calma olimpica, tra una mitragliata di “Marce’… Marce’, chiama al mixer la spia di Rodolfo che nun arriva…”. E’ Marcello Todaro, chitarrista del gruppo nei primi due album, che da un po’ ha lasciato il posto a Rodolfo Maltese, che sta provando al microfono il suo corno inglese. Gli altri non si vedono. E Francesco Di Giacomo? Dov’è il cantante, il leader, il look del Banco?
E’ un’altra parola che non si usa, “look”, nel giugno 1976. E nemmeno “immagine”: quando c’è qualcuno che spicca in un gruppo lo si indica come “elemento più rappresentativo”, per motivi artistoidi e mai legati all’aspetto. Nella PFM è lotta tra Franz Di Cioccio e Mauro Pagani, negli Area domina Demetrio Stratos e nei parenti un po’ poveri delle Orme noti Aldo Tagliapietra perché è quello col basso davanti al microfono. Ma quando dici ‘Banco del Mutuo Soccorso’ tutti vedono Francesco Di Giacomo: nessun gruppo si identifica con un suo componente come il Banco col suo “cantante ciccione”, famosissimo anche tra chi non segue non solo il progressive, ma la musica tout court. I soli a non accorgersene sono i discografici della Ricordi, che sulle copertine dei primi tre album del gruppo (‘Banco del Mutuo Soccorso’, ‘Darwin!’ e ‘Io sono nato libero’) non spingono più di tanto sull’immagine del vocalist. Cantanti obesi? Da noi si conoscono Gepy (& Gepy), in pista dagli anni ’60, Demis Roussos degli Aphrodite’s Child (poi rivale di Julio Iglesias nel cuore delle mamme) e il leggendario – negli USA – The Bear dei Canned Heat, quelli di ‘On The Road Again’, da noi conosciuta in seguito per l’agghiacciante versione dei Rockets. Per il Banco dovranno arrivare Emerson, Lake & Palmer e un contratto con la loro etichetta, la Manticore, per adeguarsi all’ovvio: è sulla cover di ‘Banco’ (debutto europeo in inglese, sulle orme della PFM di qualche tempo prima) che finalmente Francesco appare in tutta la sua magnitudo nei panni di un surreale ciabattino nudo e decisamente sovrappeso: farà epoca la famosa foto sul retro copertina, così come mamma l’ha fatto, con un capitello a proteggere le parti nascoste. ‘Ciao 2001’, il settimanale-Bibbia del prog-rockista, parla benissimo dell’album, come aveva fatto coi due album inglesi della PFM. Dischi ignorati all’estero, tutti e tre, nonostante le bufale propinateci dai nostri giornalisti musicali.
Si spengono le luci, il sole è tramontato da un pezzo dopo le esibizioni di Angelo Branduardi in duo con Maurizio Fabrizio e dei tedesconi Babylon. Adesso saremo in diecimila. Un faro illumina Francesco Di Giacomo, enorme, imponente e ispirato. “Ci avete aspettati per due ore, stasera vi dobbiamo tanto”. Parte ‘Requiescant in pace’, potente, drammatica, quasi metallica. La folla è una curva calcistica: ovazione, poi un’altra ovazione, e ancora. La voce è un aquilone che sale e ondeggia. Suono assordante, gruppo al top della forma che spara a raffica tutte le pallottole: ‘Dopo niente è più lo stesso’, ‘L’albero del pane’, ‘La conquista della posizione eretta’. Il piano e voce di ‘750.000 anni fa…l’amore?’ vengono coperti da un ruggito da gol al derby, che raddoppia ai primi accenni di ‘Non mi rompete’. Nel bailamme generale, l’inedito ‘Il ragno’ e ‘Suggestioni di un ritorno in campagna’ scavano il finale di ‘Metamorfosi’. Intorno è quasi isteria collettiva. Pierluigi Calderoni, Renato D’Angelo, Rodolfo Maltese, Gianni e Vittorio Nocenzi e Francesco Di Giacomo lasciano il palco. Ce ne andiamo groggy come dopo un aperitivo con Sonny Liston. Dalle casse parte una versione in inglese di ‘Si dice che i delfini parlino’, che uscirà in autunno. La voce ci risuonerà nelle orecchie per giorni.
Una voce che fa pensare. Definita spesso come tenorile, a torto: Di Giacomo del tenore avrà forse fraseggio e tonalità, ma timbrica ed estensione non lo avvicinano nemmeno a un tenore di grazia. Il difetto di volere trovare a tutti i costi parentele stilistiche ridondanti non rende giustizia a una delle nostre pochissime voci autenticamente originali, una voce indefinibile perchè inclassificabile. Se ci aggiungiamo la musicalità del Banco del periodo 1972-1976 (gli anni-apice del progressive), ecco che alle nostre orecchie la voce e i testi di Francesco Di Giacomo volano sulle intuizioni spesso folgoranti di Vittorio Nocenzi rilanciando la posta nel fine corsa del prog-rock, scavalcato dall’urgenza dei tempi e dissoltosi alle prime avvisaglie del 1977. Il sentiero che il Banco percorrerà in seguito e che porterà a Sanremo non si potrà lontanamente paragonare alla strada da cui veniva. Comprammo tutto del gruppo, dopo il concerto di quella sera, e li rivedemmo altre volte, anche se già l’album che uscì di lì a poco – ‘Come in un’ultima cena’ – ci suonò poco ispirato. Forse erano le avvisaglie dei tempi che cambiavano, di noi che cambiavamo, dell’arrivo di altre cose a cui guardare prima e in cui tuffarsi dopo, della musica che non era più solo musica.
Dopo tutti questi anni mi dispiace ancora di avere causato un incidente diplomatico a Francesco Di Giacomo e Vittorio Nocenzi. Poco dopo l’uscita di ‘Come in un’ultima cena’ erano stati ospiti in una trasmissione a Radio Regione a Milano, che il giorno prima li aveva definiti “politicamente ambigui”. Il giorno dopo avevo telefonato in studio in diretta dicendo a Francesco e Vittorio dell’accusa del giorno prima: non mi sembrava per niente corretto parlare a vanvera in assenza degli interessati. Loro prima mi ringraziarono, poi Vittorio Nocenzi si lanciò in una memorabile analisi in diretta di cosa poteva e non poteva essere definito “politicamente ambiguo” nel mondo della musica e delle radio libere. A fine trasmissione, Francesco e Vittorio mi telefonarono a casa invitandomi a un’assemblea pubblica che si sarebbe tenuta il giorno dopo alla Palazzina Liberty: sarebbe stata l’occasione per conoscerci di persona. Non potei andarci.
Non potevo sapere che Francesco Di Giacomo non l’avrei mai incontrato, e oggi mi dispiace molto di più. Gli avrei detto che ai miei occhi era l’unico a non avere pagato il dazio dell’oblio riservato ai suoi colleghi dell’epoca anche grazie al suo personaggio, che resta nell’immaginario di chi è venuto dopo e non può sapere cosa fossero il Banco del Mutuo Soccorso e gli anni Settanta. Perché il cantante, l’autore, l’uomo colto e dolce che gli amici ricordano oggi sono tutt’altro che sminuiti dalla foto in bianco e nero nei panni di un ciabattino che lancia in aria una scarpa sulla copertina di un disco. Johnny Stewart nel suo libro ‘Rockers’ ci parla di un’epoca lontana, quella degli anni ’60-’70, in cui il brutto diventava cool e spianava la strada a modelli improbabili, dalla musica alla cultura pop trasversale. Pensando a Francesco Di Giacomo, preferisco rievocare di seguito l’umore delle parole di Mario Pasi nel suo imprescindibile volume dedicato a Maria Callas.
Un giorno si dirà che c’è stato un tempo in cui un personaggio improbabile, grasso e con una lunga barba saliva sul palco per fare una musica astrusa, e la folla acclamava lui e la sua voce. Lo spettacolo finisce, lui si inchina e saluta con la mano, gli gridano “Bravo! Bis!!!”, e lui saluta ancora e ancora. Così era, prima degli addii.
(pubblicato da "Indiscreto")
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