Gianmaria Consiglio era presenta a Roma, in occasione dell’esibizione dei Rolling Stones, e commenta lanciando un pensiero che dovrebbe stimolare la discussione: band da idolatrare incondizionatamente o da accettare con le dovute riserve?
Rolling Stones: the greatest rock ‘n’ roll band?
A distanza di una
settimana dal concerto dei Rolling Stones al Circo Massimo di Roma del 22
giugno 2014, ripenso a quanto sia emozionante, divertente, elettrizzante
vederli in azione sul palco, a quanto sia importante esserci in quel momento e
avere la sensazione di condividere insieme ad un oceano di gente un modo di
essere, di sentire e di pensare, e qualcosa che ormai è patrimonio di tutti e
che forse non morirà finché esisterà il nostro pianeta. E mi rendo che quanto
appena espresso è in parte condizionato dalla mia passione viscerale nei
confronti della loro musica, dei loro personaggi e della loro faccia tosta.
Ma poi, come avviene
ormai da anni, il mio lato critico, studioso e analitico ammansisce la pancia,
il sangue e i nervi, alla ricerca di un maggiore distacco e una sufficiente
obiettività nel valutare un fenomeno che al contrario difficilmente viene
affrontato con equilibrio, misura e correttezza, sia da parte degli
appassionati che da parte dei giornalisti/critici/musicologi più autorevoli.
E allora la domanda
centrale che dovrebbe essere affrontata per prima, prima ancora di descrivere i
gesti e le gesta eroiche dei vecchietti rotolanti, e prima di sottolineare la
loro sorprendente energia e longevità e la loro innegabile simpatia e
ruffianeria, è la seguente: in base a quali parametri una band meriterebbe di
essere considerata come “the greatest rock ‘n’ roll band in all the world ever”?
Se ciò avvenisse
soltanto in base ai numeri, ai consensi e alle vendite, il discorso non
quadrerebbe, perché la storia insegna che il riscontro commerciale non coincide
necessariamente con la qualità artistica. E nel nostro caso parliamo di un
fenomeno che nel corso dei decenni ha messo ormai d’accordo quasi tutti,
conformisti e anticonformisti, conservatori nostalgici e aspiranti innovatori,
vecchi e giovani, “insider” e outsider, rockettari, punk, post-punk, metallari,
discotecari e canzonettari.
Alcuni dissentono e
protestano, ma fanno comunque parte di un’esigua minoranza, e anche chi non è
coinvolto direttamente nei meccanismi del mainstream, o semplicemente detesta
la band per un puro spirito di contraddizione privo di senso critico, spesso
non contesta comunque il fatto che i Rolling Stones siano ormai diventati, a
torto o a ragione, i padroni assoluti del mondo della musica rock.
E allora alcune
ipotesi riguardo ai motivi di questi quasi unanimi consensi potrebbero essere
le seguenti: 1) o la “grandezza” dei Rolling Stones è diventata una sorta di
dogma sacro, intoccabile, che quasi nessuno mette in discussione perché viene
dato per certo e tacitamente accettato, senza lo sviluppo di alcuna
riflessione, elaborazione e opinione personale di base; 2) o gli ascoltatori -
e non solo quelli medi, perché in mezzo ci sono anche centinaia di migliaia di
esperti, o presunti tali, del settore - chiudono per pura fede e affetto un
occhio e un orecchio, se non tutti e due, di fronte anche agli errori più clamorosi;
3) o chi anche avesse dei dubbi o un atteggiamento di rifiuto sulla legittimità
del predominio degli Stones non li esprime perché si collocherebbe in una
posizione scomoda e impopolare che scatenerebbe enormi ostilità; 4) oppure,
ancora, anche gli specialisti di musica più fini non sono di fatto né così
esperti né così fini, perché quando parlano dei Rolling Stones lo fanno senza
obiettività, e senza accorgersi, oltre alla
simpatia, alla grinta, all’innegabile originalità e al grande affetto
che si può trovare in loro, anche dei limiti e delle spesso evidenti e sostanziali
carenze.
E se si parla di
Stones non si può non considerare il fatto che come musicisti, presi
singolarmente, sono piuttosto mediocri, affermazione ribadita molto spesso
dallo stesso Keith Richards, che è tutto dire. E basta avere un minimo di orecchio
musicale per accorgersi delle defaillance e delle rilevanti imprecisioni
commesse da Richards il quale, nonostante il fatto che quando mette le mani
sulla chitarra tira fuori un suono incredibile e unico e che spesso elabora dei
fraseggi a dir poco entusiasmanti e riconoscibili tra mille, non di rado cade
rovinosamente, commettendo errori piuttosto grossolani, ormai anche a causa di
alcuni evidenti vuoti di memoria e di un’artrosi alle dita. In più, è
sufficiente avere un primordiale senso del ritmo per notare quanto lo stile di Charlie
Watts, nonostante sia considerato un punto di riferimento da parte dei più
grandi batteristi del mondo (anche se forse molti di loro si riferiscono al suo
suono, che effettivamente è bellissimo e curatissimo, più che alle sue
scarsissime capacità strumentali), sia sgangherato, e totalmente inefficiente e
privo di solidità, tendendo quando a rallentare quando a velocizzare
l’andamento ritmico, e combinando dei totali disastri ad ogni fill, dove spesso
si perde, sbanda e rientra fuori tempo. È ormai classica l’immagine, che non è
mancata neanche ad un certo punto del concerto di Roma, di Keith Richards che
si dirige verso Watts e di spalle al pubblico gli dà il tempo. Un chitarrista
che dà il tempo alla sezione ritmica! Una cosa inaudita, contro natura! Raramente
ad un concerto si è visto qualcosa di più improbabile e comico, eppure in
questo caso è la consuetudine. Ma Watts negli Stones va comunque benissimo, ciò
è appurato, perché in gran parte il loro stile inimitabile si è costruito
grazie alle sue carenze, e una sezione ritmica solida e quadrata romperebbe
certamente il sottile equilibrio e la fitta ma delicata tessitura che riescono
a costruire le due chitarre con un certosino e raffinato lavoro di infiorettatura
e di cesello. E poi c’è Jagger, che fisicamente pare avere fatto il patto col
diavolo, ma che obiettivamente ha da sempre una voce bruttarella e sgraziata, e
nemmeno troppo potente.
Però i quattro Stones più
tutti gli altri ottimi musicisti che li accompagnano riescono a creare insieme un
amalgama che è una bomba atomica, un suono seducente, un sapore irresistibile,
trasformando i propri vizi e i propri limiti in virtù, certo, questo è fuori
discussione.
Ma come mai tutte le
altre rock band, e ce ne sono molte, che hanno una storia quarantennale alle
spalle e che comprendono dei musicisti di altissimo livello e certamente molto
più bravi, preparati ed esperti di loro non sono presi in alcun modo in
considerazione da nessuno per una meritata candidatura a raggiungere almeno il
secondo posto di “greatest rock ‘n’ roll band”?
In più si continua a
rimarcare la loro età avanzata. Certamente è impressionante vedere la loro
energia, e senza dubbio questo è un aspetto rilevante in una valutazione
complessiva da dare su di loro, e invecchiare e continuare a rimanere
efficienti e prestanti come riescono ancora a fare loro è una grandissima nota
di merito, una dimostrazione di forza, di tenacia, di coraggio.
Ma poi, in tutto
questo, spesso tutti, me compreso, ci dimentichiamo che in definitiva stiamo
parlando di musica, e che quindi andrebbe valutata anche e prima di tutto
quella. E dovremmo quindi chiederci se effettivamente ciò che gli Stones
continuano ad offrire, a parte l’enorme valore simbolico e iconografico che un
loro concerto assume inevitabilmente, abbia effettivamente ancora un valore
artistico e di qualità, e se anche prima ce l’aveva, e quanto, e in che modo, e
perché.
29 giugno
2014
Gianmaria Consiglio
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