Raven Sad: “The leaf and the wing”
(Lizard records, 2021)
Di Alberto Sgarlato
Sicuramente
questo quarto capitolo nella saga del “Corvo triste”, pubblicato il 3 febbraio
di quest’anno, è stato uno degli album più attesi dai fruitori del rock progressivo
italiano. Il “patron” dell’intero progetto, il chitarrista Samuele Santanna,
con quel mix di saggezza e prudenza che lo contraddistingue, ha saputo
sapientemente centellinare gli “indizi” sulla rinascita di questa formazione
che tutti pensavamo avesse accantonato: dapprima con alcuni post criptici sulla
possibile rinascita, poi con le foto che ufficializzavano il ritorno in sala
prove della band e poi creando un’aspettativa sempre maggiore: i brevissimi
clip in studio di registrazione piazzati sui social, la presentazione della
copertina, i singoli pubblicati a distanza di tempo.
Ecco,
il tempo: dieci anni esatti sono quelli intercorsi dal precedente “Layers of
stratosphere” del 2011, uscito sempre per Lizard. Di quella formazione, accanto
al “Re Corvo Triste” Samuele Santanna, che gestisce tutte le chitarre,
ritroviamo solo il fidato tastierista Fabrizio Trinci. I nuovi acquisti sono
Marco Geri al basso e Francesco Carnesecchi dietro il kit di pelli, fusti e
piatti.
Ma
il cambiamento più significativo della formazione sta nella decisione di
Santanna di non accollarsi più l’impegno anche delle parti vocali. Nel
precedente “Layers” la sua voce aveva raggiunto la piena maturità: era calda,
profonda, cupa, avvolgente, a cavallo tra il Fish delle ultime prove soliste
(certi brani dell’album 13th Star soprattutto) e il David Sylvian del periodo
Rain Tree Crow.
Ora
invece entra in scena (e ne abbiamo potuto apprezzare le qualità già nei
singoli) Gabriele Marconcini (autore, tra l’altro, anche di diverse foto del
booklet del disco, mentre il già citato tastierista Trinci ha curato anche le
opere di editing grafico).
Se
il timbro intimista di Santanna era perfetto per raccontare le vicende
personali e a tratti anche dolorose del precedente disco, l’esuberanza più
“flamboyante” di Marconcini è il tocco ideale per il nuovo corso della band.
No, calma: adesso, detta così, magari chi legge potrebbe pensare a una svolta
votata al power metal estremo o al punk rabbioso.
Si
scherza, naturalmente: gli ingredienti che hanno fatto grande il sound Raven Sad nei
dischi precedenti ci sono ancora tutti. Forte impatto melodico, bellezza delle
atmosfere, infinita dolcezza e soprattutto una classe che stacca di diverse
lunghezze tante formazioni contemporanee italiane e internazionali. Ma la
musica si è evoluta rispetto alle prime due pubblicazioni, quando Santanna era
praticamente un “one man band” con ospiti e sperimentava più tra i loop cosmici
degli Ozric e dei Gong, l’alternative rock dei primissimi Porcupine Tree e una certa
new age elettronica di talune produzioni di Mike Oldfield.
Ora la direzione intrapresa è quella di un rock progressivo sempre molto melodico e romantico, ma più corposo, maestoso, dalle orchestrazioni solenni e dal drumming mixato alto e potente a scandire i vari momenti delle lunghe tracce.
Dopo
i due minuti scarsi di Legend #1, strumentale rumorista che di fatto
rappresenta l’ultimo vero legame col passato ravensadiano, ci pensano i dieci
minuti circa ciascuno dei due singoli divulgati con ampio anticipo, cioè “The
sadness of the raven” e “City lights and desert dark” a mettere le cose in
chiaro. Nel primo dei due l’omaggio di Santanna al più grande amore musicale
della sua vita, i Pink Floyd, è palese, ma filtrato attraverso l’innovazione
portata nei decenni successivi dalla “triade neoromantica britannica”
Marillion-Pendragon-Iq, e soprattutto con la nota personale data dalla bella
voce di Marconcini. Nel secondo di questi due singoli gli arpeggi si fanno più
taglienti, i toni più oscuri e l’interpretazione della voce e della band,
complici anche dei bei ritmi “spigolosi”, ci porta più verso il metal-prog di
classe di nomi storici come Queensryche e Fates Warning.
Un
tocco di metal, ma soprattutto tantissimo neo-prog: e così i 13 minuti di
Colorbox, tra cambi di tempo repentini, arpeggi di piano, Hammond che
ruggiscono sullo sfondo, ci sposta di colpo nei territori dei Flower Kings e
dei Transatlantic. Ma naturalmente, come nei dischi precedenti, a svettare su
tutti gli arrangiamenti è sempre il tocco chitarristico di Samuele Santanna: la
“chitarra perfetta”, sia consentito dire. Il suono è limpido e definito in ogni
nota, nei passaggi più veloci come in quelli più carichi di pathos, dal lungo
sustain; la produzione della chitarra è sublime; gli arpeggi e i “ricami” sono
sempre imprevedibili, mai banali, non c’è niente per riempire senza un senso
ben preciso, ogni passaggio è piazzato dove non te lo aspetti, per movimentare,
arricchire, impreziosire.
I
circa 9 minuti di strumentale al centro del disco, Approaching the chaos, con
la chitarra che ancora una volta svetta, con le melodie esotiche e arabeggianti
e con gli arpeggi “cosmici” e carichi di echi, costituiscono un altro dei
momenti in cui Santanna ci riporta al suo amore per il sound tra psych e prog
di Ozric Tentacles, Mandragora, Magic Mushroom Band, Porcupine Tree, che
caratterizzava i suoi esordi. Il tutto con un approccio più “cattivo” rispetto
al passato (ok… vogliamo parlare addirittura di Haken? Ma perché no!).
La
dolcezza melanconica del precedente Layers (seppur riletta, come ripetiamo fin
dall’inizio, nella chiave di una produzione più “stunning”) la ritroviamo nei
12 minuti di Ride the tempest, forse la vetta del disco, con le sue ondate
sciabordanti e prepotenti di Mellotron che reggono l’irruenza della chitarra e
con una prova al pianoforte, in vari momenti della lunga traccia, a dir poco
commovente.
Qui
il lavoro fatto dagli arpeggi del piano che sembrano “volteggiare” attorno a
quelli della chitarra, tocca apici sublimi ed è reso ancora più struggente da
una prestazione vocale convinta, sentita, emotivamente devastante. Tutto ciò ci
accompagna per mano verso un finale a colpi di doppia cassa epico e mozzafiato.
Di
Absolution trial, altro singolo presentato prima dell’album nella sua totalità,
avevamo già scritto: con la sua melodia ariosa e di impatto sarebbe la traccia
ideale come gran finale dell’album. Senonché Santanna sceglie di spiazzarci
ancora una volta: lui e la sua band ci salutano con Legend #2, altri cinque
minuti di capolavoro strumentale di prog sinfonico retto su un gran lavoro
chitarra/Mellotron/Minimoog. E alla fine, ma proprio alla fine, durante
l’ultimo minuto, tutto si spegne e diventa totalmente acustico. Un soliloquio
chitarristico con voci registrate che fanno riferimento a un’altra delle grandi
passioni di Santanna: l’astronomia.
Il
solo problema di questo disco è di essere uscito in piena bufera-Covid: senza
tutte le limitazioni imposte dal virus, vederlo riproposto live sarebbe uno
spettacolo maestoso come la musica contenuta nelle varie tracce.
“La
foglia e l’ala” sono i due simboli che segnano il grande ritorno dei Raven Sad
dopo due lustri di silenzio e, in questo 2021, si può già parlare di titolo
degno di figurare tra i dischi prog del decennio.
Nessun commento:
Posta un commento