Quarto album in sei anni per la band
dei fratelli Atkinson, Shane (tastiere, batteria, percussioni, dulcimer, voce, nonché
autore delle liriche e delle musiche) e James (chitarra elettrica). Con questo “Act 2”, gli Evership
concludono il concept basato su “The uncrowned king”,
romanzo pubblicato nel 1910 da Harold Bell Wright.
Tutto quanto di positivo era emerso
nel precedente “Act 1”, datato 2021, e, perché no, anche nei primi due lavori (del
2016 e 2018), viene ampiamente confermato in questa nuova produzione. La voce
di Beau West si conferma una delle migliori in circolazione nel panorama heavy
prog americano, i due fratelli Atkinson musicisti di notevole gusto e la band,
completata dal bassista Ben Young e dall’altro chitarrista John Rose, compatta
ed affiatata. Brani freschi, vivaci, ineccepibili dal punto di vista melodico,
con cori piacevolissimi, “riffoni” heavy che si avvicendano a ballate
acustiche, sfavillanti sfoggi strumentali ma anche atmosfere sognanti. Kansas,
Queen e Styx le influenze più evidenti della band e a chi piacciono, almeno,
queste tre storiche formazioni, non dovrebbe certamente dispiacere quanto
prodotto dai cinque statunitensi.
L’album (cliccare sui titoli per ascoltare) si sviluppa attraverso nove
composizioni che vedono anche la presenza di due violiniste e di un terzetto di
ottoni. “The voice of the night” (cantata dall’ospite Mike Priebe) è
tratteggiata dalla chitarra acustica e dalle tastiere soffuse e funge,
sostanzialmente, da introduzione alla seconda parte del concept. Con “Missive pursuits” la band inizia a mostrare i muscoli con riff grintosi e ritmiche
serrate. La voce è potente, le melodie orecchiabili ed energiche, i synth
formano un muro sonoro decisamente coinvolgente. “The law of ages” è una
delicata ballata, ottimamente interpretata da West (che ricorda Dennis De Young) con pianoforte, violini ed una sottile malinconia che permea la composizione,
che si “impenna” con un riuscito guitar-solo, per poi tornare alla quiete
iniziale. Fa subito da contraltare “Coronation”, con un riff tanto
semplice, quanto efficace dell’elettrica, una batteria troppo “bombastica”,
ritornelli ben congegnati e l’alternarsi di synth ed hammond ad offrire una
sottile aura vintage. “The voice of the new day” ci offre il cameo
vocale di Michael Sadler (Saga): brano grintoso con una parte centrale più
delicata e sempre coinvolgenti impasti vocali, ben sostenuti dalle
effervescenti tastiere. “Nobody”, forse il vertice qualitativo dell’album,
esordisce come una semplice ballata per voce e chitarra acustica a cui si
accodano la batteria e tastiere in sottofondo. Intorno al quarto minuto il
brano si increspa: il ritmo sale, c’è spazio per un incisivo “solo” di chitarra
ed il refrain, dolce e languido all’inizio, diventa ora graffiante e
penetrante. Meno efficace, invece, “Fading away”, un poco zoppa dal
punto di vista melodico. Intro “a cappella” per “Uncrowned”, nella quale
i punti di forza sono gli enfatici cori e i numerosi sali-scendi sonori in cui
si insinuano ora i synth ora la robusta chitarra di James Atkinson. “Pilgrim’s reprise” mette la parola fine al concept sviluppato, come detto, su due cd
distinti. West si conferma performer superiore alla media sia nei momenti più
duri che in quelli più morbidi e vero valore aggiunto della band.
L’album, nell’insieme, consolida la
formula sonora della band, tra heavy prog, pomp e sinfonico ed il risultato
finale è più che soddisfacente e facilmente consigliabile.
Libro: Napule’s Power – Movimento Musicale
Italiano
Autore: Renato Marengo
Edizioni: Tempesta
Anno: 2021
Recensione a cura di Fabio Rossi
Il giornalista, scrittore, autore televisivo e radiofonico,
produttore discografico Renato Marengo ha
da poco compiuto ottant’anni. Mi capita spesso d’incontrarlo alle edizioni
romane del Music Day, la nota fiera del disco, sempre sorridente, operoso e costantemente
impegnato alla divulgazione della tanto amata cultura delle sette note.
Un giorno mi ha detto: “Caro Fabio, finché avrò le forze,
continuerò con passione a dedicarmi alla musica. Non vado in pensione!”. Un
esempio da seguire, alla stregua di Maurizio Baiata e Fiorella Gentile, non a
caso tutti e tre redattori della mitica rivista Ciao 2001. Ho letto con grande
interesse il suo “Napule’s Power – Movimento
Musicale Italiano”, un corposo tomo dedicato al fermento che esplose
nella città partenopea agli inizi degli anni Settanta. Fu proprio Renato ad etichettarlo
Napule’s Power, ispirandosi al Black Power sviluppatosi in America nel decennio
precedente.
Si tratta di un saggio che rievoca magistralmente quel multiforme
movimento circoscritto al capoluogo campano. I musicisti iniziarono a fondere l’approccio
melodico, unito all’’inconfondibile spirito mediterraneo, con le variegate
sonorità provenienti dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti. Si plasmarono in
tal modo una serie di proposte innovative in cui jazz, rock, folk, blues,
elettronica si contaminarono con l’estro degli Osanna, Nuova Compagnia di Canto
Popolare, Napoli Centrale, Saint Just e innumerevoli altre band, nonché compositori
del calibro di Alan Sorrenti, Edoardo Bennato e dell’incommensurabile Pino
Daniele. L’importanza di tale fenomeno è talmente elevata che Napoli può essere
considerata il fulcro della controproposta musicale che in quegli anni si stava
imponendo in Italia.
Renato ci tiene ad affermare il concetto che il Napule’s Power è
ben lungi dall’essersi esaurito grazie a nuove formazioni come gli Almamegretta
e 99 Posse che tengono alto il vessillo del movimento. Il libro, curato da
Paolo Zefferi e con la prefazione di Renzo Cresti, raccoglie le testimonianze
di personaggi quali Carmine Aymone, Peppe Ponti, Antonella Putignano, Anna
Cepollaro, Lini Vairetti e altri ancora che hanno vissuto in prima persona la
storia del Napule’s Power.
Pur non essendo un’autobiografia, c’è tanto della vita di Renato
e, come brillantemente evidenziato dallo storico della musica e editore Francesco
Coniglio nel capitolo di presentazione dell’autore La ricerca della bellezza, occorre
persuadere i protagonisti a raccontare le proprie vicissitudini prima che
svaniscano con l’incedere del tempo. Solo così possiamo preservare la cultura.
Forse Napule’s Power – Movimento Musicale Italiano è un’opera di nicchia non
accessibile a tutti, ma la sua valenza è enorme.
Da acquistare al di là di ogni ragionevole dubbio.
Banco del Mutuo Soccorso-“Orlando, le forme dell’amore”
di Antonello Giovannelli
Il modo migliore per parlare del
nuovo lavoro del Banco del Mutuo Soccorsomi sembra quello di partire dalla sua prima
presentazione live a Ferrara, l’11 novembre 2022. È la data in cui il BMS dà
l’avvio a questa nuova avventura, che si snoderà lungo la penisola italiana
toccando diverse città ed i loro teatri. La data “zero”, quella di Ferrara,
assume un significato tutto particolare, fortemente simbolico, che Vittorio
Nocenzi ha ben illustrato durante il concerto. Come noto, il primo album del
Banco, il famoso “Salvadanaio”, si apriva con un brano-capolavoro che traeva
ispirazione dalle atmosfere rinascimentali in cui Ludovico Ariosto, a Ferrara,
compose l’Orlando Furioso, e dai versi di quel poema iconico del Rinascimento
italiano.
“In volo” suonava come una
dichiarazione di intenti dell’allora sconosciuta formazione italiana, che
anticipava un percorso che sarebbe stato sempre aderente ad un modello di
cultura e di impegno, che avrebbe fornito materiale e stimoli nuovi per le
menti di generazioni di ascoltatori a venire. Perché quando si parla del Banco,
non ci si può riferire ad un particolare album, ma a tutta una storia, coerente
ed esemplare, che percorre mezzo secolo, dal 1972 al 2022, partendo con un LP
con la custodia a forma di salvadanaio, ed approdando con un LP con in
copertina l’immagine della luna… a forma di salvadanaio. E verso la quale Astolfo
sta viaggiando a cavallo dell’Ippogrifo alla ricerca del senno di Orlando. Poi
si capisce, dopo 50 anni, quanto gli allora ventenni componenti del Banco
avessero le idee chiare su cosa fosse l’arte e gli intrecci tra le sue diverse
forme.
Tornando al Teatro comunale di
Ferrara, la prima impressione che si è avuta è che si fosse ribaltato il
paradigma: non un concerto di musica “rock progressive”, ispirato più o meno
incidentalmente ad un fatto storico quale il poema dell’Ariosto, ma una lectio
magistralis di storia del Rinascimento, all’interno della quale la musica riempie
gli spazi e racconta quanto non esprimibile a parole. La Ferrara dei duchi
d’Este può essere considerata la patria del Rinascimento italiano nell’epoca di
passaggio tra il 1400 ed il 1500, quando contendeva il primato di magnificenza
alla Firenze dei Medici, più ricchi ma meno nobili. A Ferrara si attua il primo
progetto urbanistico moderno in Europa, con l’addizione di Ercole I del 1492 e
con le prime fortificazioni per la difesa dall’artiglieria pesante; si crea il
primo teatro stabile in Europa, proprio per la rappresentazione delle Commedie
di Ludovico Ariosto. A Ferrara nasce la prima orchestra stabile femminile, “Segretissimo
Concerto delle Dame” per il diletto del Duca, punta di diamante di una fabbrica
musicale che per un secolo ha brillato alla corte degli Estensi come in
nessun’altra signoria rinascimentale italiana. Ma Ferrara vanta una delle corti
più produttive dal punto di vista artistico in generale. Ludovico Ariosto era
il poeta degli estensi, con l’incarico di magnificarne le gesta attraverso la
sua arte. I versi narravano indirettamente le imprese di Ercole I prima, e di suo
figlio Alfonso I poi, e della di lui consorte Lucrezia Borgia.
Insomma, in un’atmosfera come questa,
assistere al concerto del Banco del Mutuo Soccorso in cui viene presentato “Orlando, le forme dell’amore” faceva un po'
venire i brividi…
Vittorio è sembrato ugualmente,
intensamente preso tanto dalla storia quanto dalla musica, ed è perfettamente
riuscito a coinvolgere il pubblico in questa atmosfera inedita. Pubblico di
super appassionati venuti da mezza Italia, attenti a raccogliere ogni sillaba
ed ogni nota. Il classico pubblico del Banco, insomma, che avrebbe potuto
ascoltare due ore di lectio magistralis sulla metrica “Ottava Rima”
dell’Orlando Furioso ed altrettante di musica rock senza battere ciglio e senza
scomporsi.
La scaletta del concerto prevedeva
sia brani storici sia tratti da Orlando:
-In
volo
-R.I.P.
-Passaggio
-Metamorfosi
-Il
giardino del mago
-Traccia
I
-Proemio
-Pianura
rossa
-Serve
Orlando adesso
-Non
mi spaventa più l’amore
-Il
ragno
-100
mani e 100 occhi
-La
conquista della posizione eretta
-Eterna
transiberiana
-Canto
nomade per un prigioniero politico
-L’evoluzione
-Moby
Dick
-Non
mi rompete
Un concerto corposo, generoso, di
oltre due ore piene di musica, in cui i musicisti hanno dato il massimo. Concerto
che ha visto il debutto di Michelangelo Nocenzi nei brani tratti da Orlando, di
cui è ispiratore e co-autore.
Nonostante la fatica e gli impegni
del dopo-concerto, i musicisti sono rimasti ancora a lungo con il pubblico per
celebrare insieme agli affezionati questa sorta di festa tra amici. Stanco ma
soddisfatto, sempre cordiale e loquace, il condottiero Vittorio nel camerino
faceva venire in mente Alfonso I di ritorno da qualche battaglia vinta grazie
al primato della sua artiglieria.
Ma scendiamo in un galoppo alato… là
dove gorgoglia la musica di Orlando. Per la verità non si avverte la necessità
né l’opportunità di formulare commenti su lavori che, come questo, vanno presi
come riferimenti “a prescindere”. L’album ha tutto l’aspetto di una “Opera
Rock”, nel senso che le composizioni musicali, per quanto non necessariamente
funzionali ad una rappresentazione di tipo teatrale, si presterebbero benissimo
alla messa in scena di un Orlando Furioso riletto in chiave attuale. Ogni brano
trae ispirazione dall’opera dell’Ariosto, e condensa nel linguaggio musicale
una particolare vicenda, o un succedersi di eventi. Con un particolare punto di
vista, un particolare filtro, che è quello del sentimento umano dell’amore.
Così, la musica non descrive semplicemente un episodio, ma il coacervo di
sentimenti che si sviluppano dentro ed intorno a quell’episodio. È lo stato
sentimentale dell’amore il sistema di riferimento di tutta l’opera, attorno al
quale tutto si svolge. Amore in tutte le sue declinazioni, da quello fraterno a
quello possessivo, da quello non corrisposto a quello inaspettato, che
“accade”. Perfetto per un’opera teatrale che sarebbe capace di lasciare un
forte segno nell’ambito delle molteplici riletture che in epoca moderna sono
state proposte dell’opera dell’Ariosto.
“Proemio” apre l’album, con i
versi dell’Ariosto ripresi in forma pressoché integrale, accompagnati da
pianoforte e chitarra in una piacevolissima melodia in cui il pianoforte
ribatte in modo molto originale ogni sillaba del testo, la cui bellezza
Vittorio Nocenzi ha voluto così omaggiare. Musica scritta sul testo, per
lasciarne inalterata la caratteristica metrica
“La Pianura Rossa” inizia con
un potente incastro ritmico tra pianoforte e batteria, e poi chitarra e basso,
alla maniera molto cara a Vittorio Nocenzi. È un brano surreale, ambientato in
un tempo non definito, in cui passato a futuro si mescolano. Il Mediterraneo
prosciugato, e la salvezza è rappresentata da un’unica sorgente d’acqua,
contesa tra bande di assalitori e difesa dai Guardiani dell’Acqua. Una
metafora, naturalmente, che rimanda direttamente alla crudeltà delle
contrapposizioni tra chi ha il potere, l’acqua (o forse il petrolio?), e chi
muore in mare per cercare di raggiungere la salvezza. Un grido contro la
guerra, come R.I.P. 50 anni fa
“Serve Orlando adesso” è il
brano dal quale è nato l’album, l’idea originale di Michelangelo Nocenzi.
Taglio molto lirico, in omaggio alla tradizione operistica italiana
“Non mi spaventa più l’amore”
in forma di tango argentino (vecchia passione di Vittorio Nocenzi), in cui Orlando
non trova la corresponsione del suo sentimento da parte di Angelica, ed
impazzisce… Michelangelo Nocenzi al pianoforte
“Non serve tremare” descrive
la fuga di Angelica dall’accampamento dell’imperatore Carlo Magno, fuggendo sia
dal saraceno Rodomonte che da Orlando. “Via da qui…”, a sottolineare la
volontà, molto moderna, di autodeterminarsi e di scegliere il proprio destino
lontano dal concetto di donna-oggetto
“Le anime deserte del mondo”. Entra
in scena il mago Atlante, che tutto vede e tutto dirige, sottraendo la verità
agli esseri inferiori, riservandola ai soli esseri superiori. Attraverso la
manipolazione della verità, la creazione di illusioni, l’appagamento degli
umani con finte verità che essi desiderano, il mago tutto comanda. Ma non trova
che nullità e vuoto di valori nella vita umana
“L’isola felice” è quella in
cui l’ippogrifo, cavalcato questa volta da Ruggero, si cala alla ricerca della
tranquillità e della pace. Ma l’isola è della Maga Alcina, che tiene
prigioniero in un albero cavo il suo amante Astolfo, che Alcina teme voglia
lasciarla. L’isola felice è la metafora del disimpegno, dal quale alla fine
l’ippogrifo vola via, portando con sé Astolfo e Ruggero
“La maldicenza”, brano
interamente strumentale, presenta la contrapposizione tra la calunnia ed i suoi
effetti nefasti. La prima parte del brano, con ampi ricorsi a frasi ricche di
cromatismi e con poche concessioni alla tonalità, vuole per l’appunto
rappresentare il “fastidio” della maldicenza, che solo un sentimento d’amore
può contrastare. Ed ecco la seconda sezione del brano in cui la dolcezza delle
parti di chitarra fanno da culla alle frasi di sintetizzatore e di pianoforte
poi nella rappresentazione del sentimento della dolcezza e dell’amore
“Cadere o volare”, Orlando
deve scegliere tra l’amore ed il suo dovere. Non può seguire il cuore, deve
seguire il dovere. Bel duetto tra chitarra elettrica e sintetizzatore.
“Il paladino”. Anche in questo
caso il fraseggio di chitarra e sintetizzatore traccia l’essenza energica del
brano. Brano molto complesso, in cui i musicisti sfoderano le capacità
esecutive individuali. Energia ed irruenza che si ispirano alla scena di uno
scontro cruento, che vede contrapposti Orlando intento nel salvataggio di
Angelica, ed i selvaggi dall’altro
“L’amore accade” è ispirato
alla risposta che Angelica dà ad Orlando nel rifiutare il suo amore. Brano
dolce, melodico, di presa immediata, interpretato magistralmente da Viola
Nocenzi, perfetta nel dare voce alla dolce ma risoluta Angelica, in pena per la
delusione che sta dando ad Orlando, ma modernamente consapevole e sicura dei
propri sentimenti. L’amore accade, è accaduto ad Orlando. Il quale ha abbandonato
i propri compagni al loro destino contro i saraceni di Rodomonte, ha tradito il
proprio codice d’onore ed il codice cavalleresco per salvare l’amata Angelica
Ma questa rifiuta dunque il suo amore, che rivolge invece all’avversario
saraceno, innescando la pazzia di Orlando
“Non credere alla Luna”, brano
dolce e sognante, segnato dalle frasi sofferte del sax di Carlo Micheli, che
finiscono poi per intrecciarsi in un fantastico duetto con le note del Minimoog
di Vittorio Nocenzi. È la volta dell’amore fraterno di Astolfo per Orlando.
Vedendolo quasi moribondo lungo un sentiero, sotto la Luna piena, comprende che
dovrà rischiare la vita per volare fin lassù, recuperare il senno del suo amico
d’infanzia e salvarlo “dalla Luna”. Probabilmente il brano più centrale e
suggestivo di tutto l’album
“Moon suite” ci regala undici
minuti di emozioni in perfetto stile “progressive”, ammesso che abbia senso
voler applicare etichette ad un lavoro come questo. Una sorta di “suite”
all’interno del concept, alla vecchia maniera, con tre movimenti che si
ispirano alla fase del volo verso la Luna, allo stupore di Astolfo ed alle
vicende una volta arrivato, la ricerca dell’ampolla contenente il senno di
Orlando nella “Valle dei senni”, l’incontro con il Tempo, e quindi al rientro
sulla Terra
“Come è successo che sei qui”,
descrive lo stupore di Medoro, oggetto dell’amore inatteso da parte di
Angelica. Si chiede dunque come possa essere successo questo evento inatteso e
meraviglioso
“Cosa vuol dire Per Sempre” è
la celebrazione dell’amore eterno, impossibile tra Ruggero e Bradamante tenuti
separati dal Mago Atlante per salvare la vita a Ruggero, amore che ha le stesse
connotazioni in tutte le epoche, come in quella antico-romana di Catullo e dei
suoi immortali versi rivolti alla sua amata Lesbia.
Un lavoro monumentale, trasversale, intenso,
complesso, le cui liriche portano la firma del collaudatissimo Paolo Logli.
Riduttivo, forse, volerlo inquadrare solo come album musicale, di quelli da
consumare in fretta. In questo senso è un’opera fuori dal tempo, fuori da
questo tempo, in cui tutto deve funzionare in fretta, in fretta…. l’Arte non ha
fretta: ha tempi lunghi, spazi infiniti, richiede concentrazione, attenzione. Sì,
nell’album ci sono certamente parti che arrivano dirette, immediate, ed
appagano già al primo ascolto; è vero che ciascuno dei 15 brani può vivere di
vita propria, ma se ci si vuole impossessare completamente del messaggio che Vittorio
Nocenzi ed il Banco ci propongono, se si vuole cogliere questa ottima occasione
per “crescere”, allora bisogna studiare. Rispolverare il libro di storia del
Rinascimento italiano, il libro di Antologia, di letteratura latina, magari
passare un bel fine settimana a Ferrara in full-immersion nei luoghi più famosi
del Rinascimento italiano, e lasciare libere le briglie della mente.
Che la fantasia possa volare, felice
di saper volare.
Tracklist “Orlando: Le forme
dell’amore” (cliccare sul titolo per ascoltare)
Ci chiediamo, ormai da troppo tempo, se la
musica abbia un futuro. Non è questa la sede per trattare un argomento così delicato
e complicato, certo è che la smaterializzazione dei supporti fisici e
l’oggettiva mancanza d’innovazione rende tutto complicato (mi viene in mente
Carlo Verdone nel film Viaggio di Nozze quando dice “Se semo rapati, si semo tajati, si semo fatti ricresce, si semo tinti,
si semo bruciati, si semo lavati”… vabbè, parlava di capelli, ma poteva
riferirsi anche all’arte delle sette note e il discorso sarebbe stato il
medesimo). Poi, però, t’imbatti in un disco come Mon
Turin, e ti rendi conto che non occorre essere Bach per produrre
ottima musica, non serve comporre come nessuno ha mai fatto prima cercando a
tutti i costi di essere unico, ciò che serve è passione che Davide Riccio
(DeaR è il suo aka), compositore,
polistrumentista, educatore, scrittore, poeta e giornalista, dimostra di possedere
in quantità industriale. Il suo amore per la città di Torino, le sue strade, le
sue piazze, la sua magia, è talmente forte da avergli dedicato un intero album,
un’imponente suite come si usava fare negli anni Settanta.
Sarebbe riduttivo soffermarsi solo su tale
aspetto, perché Davide nella sua opera mette a nudo sè stesso, i suoi
sentimenti, le sue incertezze, la sua nostalgia del passato che appaiono palesi
quando lui stesso afferma che Mon Turin è stato plasmato a poco a poco
in un lungo, lunghissimo arco temporale. I dubbi lo assalivano, macerato
dall’ansia di non essere all’altezza delle aspettative. Se le sue paure erano
inerenti al fatto di non essere adeguato al confronto con i musicisti di
professione, ebbene affermo che si sbagliava di grosso. Il disco, infatti, è
complesso e colmo di un sound che abbraccia taluni intriganti aspetti che
spaziano dallo sperimentalismo, al progressive, alla classica, finanche al jazz.
L’ascoltatore attento e preparato potrà trovare riferimenti che vanno da Debussy
a Harry Partch, daBartòk a Syd
Barrett, tanto per citare alcuni esempi.
Venti le composizioni proposte, nate per
pianoforte, sviluppate e arricchite utilizzando altra strumentazione al
fine di approcciare alla musica orchestrale. Un caleidoscopio sonoro in cui
Davide si districa con maestria, dimostrando che non occorre essere per forza
usciti dal Conservatorio per fare bene, ma basta metterci il cuore e superare
ogni ostacolo. Non sarai “un pianista
degno di questo nome” come tu stesso affermi, ma non sono sordo e per me
sei molto più bravo di tanti strombazzati esperti del mestiere. Alcune parti
vocali sono state curate da Claudio Milano, uno dei migliori sperimentatori vocali
che abbiamo in Italia.
Continua così, sei sulla strada giusta vista
le qualità di Mon Turin e anche quella del precedente album Out of
Africa del 2021… l’età anagrafica non conta nulla (sono anch’io degli anni Sessanta
e sto ancora in prima linea!).
È morto Alberto Radius, aveva 80
anni. Radius era uno dei più grandi chitarristi italiani all’interno del modo
del rock. Celebre il suo rapporto con Lucio Battisti, una lunga carriera
musicale iniziata negli anni ‘50.
Il comunicato della famiglia:
"È con profondo dolore e
tristezza che la famiglia del maestro Alberto Radius condivide la notizia della
sua scomparsa. Dopo una lunga malattia, si è spento serenamente, accanto ai
suoi affetti più cari. La famiglia del maestro Radius chiede, in questo
difficile momento, che sia rispettata la privacy che lo ha sempre
contraddistinto".