Cyrax
– “Novo Deus” (2023)
di Alberto Sgarlato
Decisamente imprevedibile ed
eterogeneo questo “Novo Deus”,
quarto album dei lombardi Cyrax, dopo i
precedenti “Reflections” (del 2013), “Pictures” (del 2015) e “Experiences” (del
2020).
Quattro album spalmati in un
decennio esatto dimostrano la volontà da parte della band di proseguire lungo
un percorso di composizione costante ma al tempo stesso ben ponderata, ricca ma
non frenetica o compulsiva, con una distribuzione saggia delle uscite
soprattutto considerando le molteplici variazioni di line-up che il gruppo ha
dovuto subire.
Ma perché imprevedibile ed
eterogeneo? Perché la matrice fondamentalmente metal della band sposa più che
mai, in questo nuovo lavoro in studio, da una parte un afflato maggiormente
sinfonico negli arrangiamenti, dall’altra una crescente attenzione alla world
music, sia mediante l’introduzione di molteplici strumenti etnici, sia
attraverso la scrittura di testi nelle più diverse lingue del nostro pianeta.
L'esito non può che risultare affascinante, coinvolgente e a tratti
persino ipnotico all’orecchio dell’ascoltatore, previo ovviamente un attento
ascolto in cuffia, sia per godere delle infinite sfumature nelle sonorità
adottate, sia per cogliere (pur non potendo capire, ovviamente, tutte le lingue
usate), la musicalità di quegli idiomi perfettamente coniugata al sound della
band.
Si parte con “Hewa Kunikosa”, che
inizia quasi come un brano di Peter Gabriel (per via del massiccio tappeto
ritmico introduttivo) ma che presto vira verso territori metal nei riff
chitarristici, persino lirici nel cantato corale, ma inframezzati da costanti
inserti etnici e poliritmici.
“Nesnesitelná Lehkost Bytí” inizia
invece proprio con i profumi balcanici di una danza klezmer, prima di coniugare
il cantato con il sapiente mix lirico, sinfonico e rock che caratterizza questa
quarta opera della formazione meneghina.
“Bhagavad-Gita” ci porta ancora a
un altro capo del mondo: stavolta tra i timbri metal e il canto corale fa
capolino un sitar pronto a catapultarci in India. La grinta iniziale del brano
sfocia in un inaspettato ed emozionante crescendo centrale che ci accompagna
poi all’accelerazione finale.
Ascoltare questo album è come
reggersi a delle montagne russe che ti sbattacchiano su e giù per il pianeta.
Ecco l’Estremo Oriente di “Yuéliáng”, brano che solo nell’ultimo minuto regala
una concessione al rock ma che per tutta la sua prima parte è filologico;
“Tatsuta-Gawa” induce alla meditazione attraverso una vocalità mistica;
l’introduzione ovviamente poi si evolve in direzioni inaspettate, tra power
metal iperveloce e Asia; la title-track, in portoghese, coniuga
inaspettatamente il sound della band con la Bossa Nova e con evoluzioni
strumentali di ottimo jazz-rock (ovviamente sempre in “salsa metal”); le
fisarmoniche di “No dormireis” sarebbero sublimi come colonna sonora di un film
di Almodovar o di De La Iglesia; atmosfere che la band sembra voler ancora
perseguire, se pur indurite e accelerate, in “Cuervos nocturnos”, brano dove
non mancano inaspettati inserti “mariachi”; un tuffo in una tribalità
primordiale in “Hamáhólo Ogo” e la band torna a “ipnotizzare” l’ascoltatore con
un approccio quasi mistico e rituale.
Una band rock poteva farsi mancare
uno dei generi dai quali il rock stesso in parte proviene, e cioè il country?
Eccolo in “Twelve valiant saints”! Brano con una inaspettata e bizzarra svolta
finale, quasi da musical. “Pictures Pt. II” è un brevissimo intermezzo
strumentale di puro gusto sinfonico (dopotutto la musica classica ha
influenzato tantissime correnti del rock, dal prog al metal).
Una teatralità quasi vaudeville
introduce “Sermon for the wastelands”, come arrangiamento strumentale forse il
brano più avvicinabile al metal-prog canonico, seppur con questo eclettico
cantato tra rap, teatro e coralità. Un pizzico di Mordred e un po’ di System of
a down nella traccia forse più “convenzionale” (per modo di dire…) in un album
decisamente “anticonvenzionale”.
La drum-machine che introduce
“L’Avare”, i sintetizzatori e il sax ci ricordano persino certo synth-pop di
alcune produzioni anni ‘80 di Guesch Patti o di Grace Jones. E si chiude con
“An die musik”: pianismo mozartiano, “kabarett” tedesco di inizio Novecento e
un pizzico di Schonberg e di Stockhausen.
“La folle giostra” si è fermata, è ora di scendere. Un disco che cresce ascolto dopo ascolto se si ha la volontà di immergervisi senza pregiudizi e di accettare totalmente questa proiezione degli “Esercizi di stile” di Raymond Queneau dal piano letterario a quello musicale. Tutto è costruito con perizia negli arrangiamenti e sapienza nell’esecuzione, con una cura del dettaglio maniacale. E il risultato è, come già detto, decisamente affascinante.
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