Gianni Venturi -
“Ogni cosa era di luce” (2025)
di Alberto Sgarlato
Gianni Venturi è uno di quegli
artisti che sanno sempre come sorprendere il suo pubblico. Nato negli ambienti
del rock progressivo più vicino al jazz e al jazz-rock, con l’ombra lunga degli
Area a delinearsi come riferimento a tratti, si è poi lanciato in tutta una serie
di progetti paralleli che hanno visto in lui ardere la fiamma del coraggioso
sperimentatore della voce, facendo del suo stesso corpo strumento e motore
capace di concretizzare ogni sua idea.
E poi succede che arriva questo nuovo titolo
della sua ormai vasta discografia, intitolato “Ogni
cosa era di luce”, ed ecco che Venturi ci spiazza ancora una
volta.
Ci spiazza perché sceglie tutt’altra strada,
rispetto alle sperimentazioni che, negli ultimi tempi, si erano fatte sempre
più ardite.
In questo disco, realizzato con la
collaborazione di Raffaele Montanari, Gianni Venturi sceglie di
ritornare alla sua essenza più pura, alle sue origini più ancestrali,
scegliendo la via di un limpido, lineare cantautorato. Ovviamente, trattandosi
di Gianni Venturi, si sta parlando di cantautorato nel senso più nobile, elegante
e intelligente del termine, attraversato dalle suggestioni e dai colori di
tutti quei progetti che nei decenni hanno segnato la carriera venturiana: il
prog-rock, il folk, il jazz. Ma queste sono solo “pennellate” capaci di
arricchire, in modo discreto e mai sfacciatamente preponderante, il canovaccio
di una forma-canzone pensata per arrivare dritta al cuore dell’ascoltatore.
Venturi è, oltre che musicista, poeta (e, come tale, autore di diversi libri). Ecco che quindi, in questo “Ogni cosa era di luce”, la parola torna a farsi protagonista. Venturi è da sempre un attento osservatore dei mutamenti nella società che lo circonda. Nel corso degli ultimi anni, nel linguaggio corrente, la parola “pop” ha ingiustamente assunto un significato deteriore che in origine non aveva affatto, venendo adoperata per catalogare le più becere canzoncine da classifica. Invece il “pop” in senso letterale è arte: è abbreviazione di “popolare”, perché Venturi (nella vita mercante di mestiere) è cresciuto in mezzo al popolo, osserva la gente e ne narra le storie, scrive vicende di vita e di popolo. Per cui non è affatto azzardata, se intesa con la legittima e sincera accezione positiva, la definizione di “pop” per questo album.
Si comincia con “Orme sulla neve”,
storia di una dolorosa separazione tra due persone che “si sono amate a
sufficienza” e che hanno condiviso sorrisi e respiri; “Sono altrove ma non
qui” sceglie arrangiamenti e atmosfere più rarefatti, basati su piccoli
tocchi. Anche in questo caso un amore tormentato è al centro delle liriche,
intense e sofferte. Il tema dell’incontro e dell’addio, ma stavolta immerso in
un quadro bucolico, nel quale la natura è in primo piano quanto i protagonisti
della vicenda, è al centro della title-track. E sembra quasi che le due persone
narrate dalla canzone si fondano completamente nel paesaggio circostante.
“Amare è come danzare la vita”,
nonostante il titolo così solare, sceglie un arrangiamento giocato sui toni più
scuri del violoncello. Va detto che in generale le orchestrazioni basate su
piano, archi e linee ritmiche molto essenziali sono l’ossatura dell’intero
disco.
“Amami” è già un proclama nel suo
stesso titolo. Ed è anche la prima traccia in cui, anziché piano e archi,
diventano protagoniste la fisarmonica e la chitarra acustica, in un
arrangiamento che rivela le origini in parte gitane del Venturi.
L’incedere di tango di “Neve calda” si
discosta dalle tematiche legate all’amore presenti in molte tracce dell’album
per affrontare un tema caro al Venturi: quello del declino di una società che
non ha più rispetto per la natura. Un male della nostra epoca che, secondo
l’autore, potrà essere sconfitto soltanto riappropriandoci del nostro
sentimento più nobile: l’amore. L’amore familiare, l’amore fra le persone,
l’amore per la vita.
“Luccica”, tramite tutta una serie di
metafore di allegorie, ci invita a liberarci dai sensi di colpa e a
riappropriarci delle vere gioie della vita in una società triste che diventa
sempre più buia e grigia.
Lievi tocchi di percussioni e un inaspettato
duetto con una voce femminile introducono “La casa dell’Anima”, brano
dall’intensa e teatrale interpretazione dei due timbri vocali che si
intersecano.
“Il vento” è nuovamente uno di quegli
splendidi affreschi di Appennino come solo Venturi, cresciuto tra i monti e la
campagna, sa tracciare.
E ci salutiamo con “Fammi entrare”:
c’è qualcosa di quasi felliniano nelle sonorità e nelle atmosfere che
caratterizzano questa traccia conclusiva.
Un lavoro intenso, caratterizzato da una forte personalità, nel testo e nella musica, che saprà commuovere l’ascoltatore toccando le corde più profonde della sua anima.
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