"Migliaia di candele possono essere accese da
una singola candela e la luce di quella candela non ne sarà diminuita. La
felicità non diminuisce mai quando viene condivisa."
(Buddha)
21 Marzo
Buon viaggio Capitano.
Ci sarai sempre!
Wazza
Ricordo da "Rock.it
La furia progressive
fortemente debitrice del jazz rock del John Mc Laughlin di Devotion (l’album) che apre il brano e lascia poi
spazio a climi più meditativi in cui riaffiora un’eco lontana del melodramma italiano funge da base perfetta
per un testo fortemente antimilitarista e pacifista che dipinge uno scenario di
guerre lontane, comunque pre-polvere da sparo, che risulta sempre attuale nella
sua drammaticità.
Ma quella dell’impegno è solo una delle facciate di Francesco
Di Giacomo, “un ribelle con
i neuroni sempre in corto circuito”, come lo ha definito Lucio Salvini. Nel
disco successivo, Darwin, ambizioso concept dedicato all’evoluzionismo, registrato e uscito in
quello stesso 1972 dalla vorticosa creatività, spicca un brano che è emblematico di un altro lato
di Di Giacomo: 750.000 anni fa-L’amore?
Tra musica, testo e
superba interpretazione, sentitissima, di Francesco Di Giacomo, il brano è un
intensissimo capolavoro che scava nell’interiorità nella zona di confine tra desiderio sessuale e dubbi
sulla propria avvenenza e seduttività. Dai tempi in cui eravamo “uno scimmione
senza ragion” non è cambiato nulla e la magia delle
parole e della voce di Di Giacomo rende credibile tanto la storia quanto il
verso conclusivo appena citato.
C’è un terzo brano che sento di dover
citare del Banco del Mutuo Soccorso, forse il suo più famoso, primo a essere edito anche
in 45 giri, nel gennaio 1973, come apripista del terzo album Io sono nato
libero (il cui titolo fu suggerito da Lucio Salvini), ed è Non mi rompete.
Elogio del sonno come
fuga dalla realtà, tanto più se si tratta di una realtà drammatica come quella
di cui parla il resto del disco (Canto nomade per un prigioniero politico è
ispirata alla fine di Salvador Allende dopo il colpo di Stato fascista in Cile;
La città sottile parla del “disagio dell’urbanesimo”, secondo quanto ha dichiarato Vittorio Nocenzi a
Classic Rock 5; (“Dopo niente più è lo stesso” riprende i temi dell’antimilitarismo di R.I.P.), “Non
mi rompete” non solo definisce inconsapevolmente l’intera parabola progressive
e hippy, nonché l’aurea stagione dei Festival Pop
italiani, di cui sembra l’ideale colonna sonora con la sua ariosa ansia di libertà, ma - per i tempi - fu pure una
canzone estremamente coraggiosa. Ha dichiarato infatti Di Giacomo:
Ricordo che, dopo l’uscita di questa canzone, mi arrivò una lettera di una ragazza che
chiedeva: “Perché i compagni lottano in fabbrica e tu scrivi Non mi rompete?” In quel momento ho capito che
avevo fatto gol, nel senso che i compagni lottano nelle fabbriche e io sono con
loro, ma la sera posso avere 5 minuti per stare per i cazzi miei? Momenti come
questi, 5 minuti di relax, non sono dispersivi, anzi, il recupero della
lucidità e delle proprie sensazioni credo sia fondamentale anche perché già è
difficile arrivare alla fine della propria giornata.
Il brano era stato
composto diversi anni prima, nel 1969, come ha raccontato Vittorio Nocenzi a
Classic Rock 5:
Scrissi questo pezzo a
diciotto anni e poi lo misi in un cassetto. Pensavo: è troppo semplice, sono
solo due accordi! Da giovani si può commettere l’errore di credere che la complessità sia sinonimo di qualità. Solo con il passare degli anni un
artista comprende che “sintesi” non significa
“semplicistico”.
La scrissi una domenica mattina, guardando le cave di Peperino dalla finestra
di una vecchia casa medievale di Marino, il paese in cui sono nato.
Poi arrivò Di Giacomo:
Era dedicata a un
momento particolare, serio, di grandi fermenti. Era il 1973. L’ho scritta in un momento di totale
disancoramento da tutto quello che c’era intorno. Volevo stare per conto mio. L’ho scritta sotto a un pianoforte, con
Vittorio Nocenzi che suonava sopra. Io stavo sotto al pianoforte, cercando di
dormire. E poi me la sono trovata scritta.
Non stupisce che sia
stata tra i brani ripescati e reinterpretati per il disco del debutto
internazionale, quel Banco di cui parlavo all’inizio. Tra i fans ci si divide
ancora tra chi preferisce la furiosa schitarrata di Todaro nel passaggio alla
seconda parte della canzone e chi il tocco più morbido del nuovo chitarrista
Rodolfo Maltese.
A me piace immaginarlo
così, ora: nel vento suggerito dai vocalizzi finali, libero per sempre dagli
scocciatori. Che non debba più fare come quella volta al Festival di Villa
Pamphilij a Roma, il 27 maggio 1972, quando si rivolse a uno spettatore che
continuava a gettare zolle di terra sul palco a ogni cambio palco: “Possibile che in questa città non si possa mai fare nulla, senza
lo stronzo di turno?” E quello smise. Addio, Francesco. (Da: rockit.it)
Nessun commento:
Posta un commento